«Reagire al degrado», è il titolo assai chiaro di un testo diffuso da Angelo D’Orsi dell’Università di Torino. Inutile precisare che il grido d’allarme di D’Orsi è riferito alla situazione italiana, alla crisi della democrazia, ma anche al degrado sociale e culturale che vi si accompagna.
All’appello dello storico torinese ha risposto Cesare Allara. Prendendo le mosse da una domanda – «come e perché siamo giunti a questo punto?» – egli mette in guardia da una mera riproposizione dell’antiberlusconismo. Allara afferma infatti (e noi siamo nella sostanza d’accordo con lui) che: «Berlusconi non è la causa del degrado e della crisi della democrazia, ma ne è il prodotto».
In ogni caso, al di là del grado di condivisione dei due scritti, i testi di D’Orsi e di Allara ci paiono interessanti, e forse utili a sviluppare il dibattito sul «che fare» in Italia. Che è il vero problema che abbiamo davanti. Pensando di fare cosa gradita anche nostri lettori li pubblichiamo perciò entrambi.

 

Reagire al degrado
di Angelo D’Orsi

L’Italia è molto oltre la crisi di nervi. L’Italia che festeggia oggi la nascita della Repubblica – uno dei pochi momenti della sua storia in cui il popolo è stato sovrano, attuando una rivoluzione istituzionale, che si legava dal “vento del nord”, la grande speranza suscitata dalla Resistenza – si trova a fronteggiare, quasi inerte una crisi drammatica.

Non è soltanto la crisi dell’economia, la crisi dell’occupazione (con il 30% dei giovani senza lavoro), la crisi della produzione, delle esportazioni, della finanza; non è neppure solo la crisi istituzionale, che pure si palesa in una dimensione di estrema pericolosità; né è sufficiente il richiamo alla crisi dell’informazione, che sta per giungere al suo punto più estremo, almeno nella scala finora percorsa.

Ci troviamo, a ben vedere, e senza alcuna esagerazione retorico-ideologica, nel cuore di una decadenza morale e intellettuale, politica e antropologica degli italiani. I quali oggi, come in altre stagioni della loro storia – segnatamente quella fascista e quella del tragico eppure glorioso biennio ’43-45 -, si trovano in una situazione di contrapposizione radicale. Altro che memorie condivise. Altro che solidarietà nazionale. Altro che unità repubblicana, che, da tempo, del resto, ormai una forza politica mette sotto accusa, quasi fosse uno dei grandi mali del Paese, disconoscendone, anzi negandone provocatoriamente il valore storico e il significato politico. Quali sono i segnali di degrado che sta diventando ogni giorno più evidente e insieme più pericoloso?

In primo luogo, la crisi istituzionale, che ci mostra una democrazia sulla strada dell’eutanasia, soppiantata dal populismo mediatico. Come è possibile che un presidente del Consiglio intervenga telefonicamente in quasi ogni programma televisivo di discussione politica per aggredire, ingiuriare, e minacciare conduttori non graditi, giornalisti scomodi, e persino il pubblico non accomodante? E come è possibile che simili ricorrenti performances passino sotto silenzio, o tutt’al più vengano un po’ bonariamente offerte al sorriso dei lettori, da qualche giornale non proprio ossequiente? Com’è possibile che un programma televisivo – che può essere definito “di regime” – come il famigerato “Porta a porta” abbia un potere decisamente superiore a quello delle due Camere? E come stupirsene, d’altro canto, se si bada alla inefficienza vergognosa della Camera dei Deputati e, ancor più, del Senato della Repubblica? Inefficienza, badiamo bene, non legata semplicemente alla scarsa “voglia di lavorare” dei nostri rappresentanti, bensì alla pesante involuzione del sistema parlamentare, nel degrado della democrazia rappresentativa. Abbiamo assistito impotenti, ancorché, molti tra noi, via via più indignati, alla confusione deliberata di spazi pubblici e spazi privati, all’emergere di criteri di selezione del ceto politico del tutto impropri: avvenenza fisica, look, “visibilità” acquisita in televisione, disponibilità sessuale. E, naturalmente, favori ricevuti che devono essere a un certo punto “ricambiati”.

Il voto di scambio è oggi persino più grave che in passato, a dispetto dell’azione della magistratura. E’ un voto che passa attraverso organizzazioni criminali, che, per quel che è dato sapere, sono strettamente legate alle fortune finanziarie a all’ascesa politica di alcuni personaggi oggi ai vertici del potere, e in particolare di uno di loro. I poteri locali, segnatamente nel Sud d’Italia, sono spesso intrecciati ai poteri nascosti, ed efficientissimi, delle “cosche” e delle “cupole”: ma la mafia ormai ha raggiunto, oltre che le grandi città del Nord, le istituzioni finanziarie, avvicinandosi al cuore del potere politico.

Di questo passo, lo Stato sarà appaltato ai capobastone, così come, nel succedersi di maggioranze governative, esso ha ceduto, sovente a prezzi irrisori, proprietà, competenze, controlli a privati. Il demone della privatizzazione e dell’aziendalizzazione, del resto, ha non da oggi equiparato, largamente, “destra” e “sinistra”. Il governo italiano è ormai, in modo non solo palese ma sfrontato, ridotto al ruolo di super-comitato d’affari di comitati d’affari. La politica fiscale, per fare un solo esempio, ne è la prova assoluta.

E sul fronte dell’etica pubblica si assiste a un degrado di cui mai era visto l’eguale.  Un giornalista di destra, legato all’area governativa, dopo aver rotto con il suo capo, ha coniato il termine “mignottocrazia”, per definire la situazione in atto nella politica italiana: difficile dire meglio. E superfluo insistere sul tema, utile tuttavia a dare il segno estremo di una decadenza che sta toccando il fondo, tipica delle epoche degli imperi al tramonto. Ma, nello stesso tempo, questa leadership immorale mostra un ossequio grottesco nei confronti della Chiesa cattolica, accettandone i diktat, e sollecitandone l’appoggio in cambio di favori economici e a livello di potere; ma lasciando cadere nel vuoto gli appelli che da essa giungono a una politica dell’accoglienza e del rispetto verso i migranti, ormai ridotti al rango di “non persone”, tanto nella legislazione in atto e nelle scelte politiche, quanto in un diffuso senso comune che, fondato sull’ignoranza e sulla paura del diverso, è ormai semplicemente razzista.

E che dire dell’indifferenza colpevole davanti alle questioni ambientali? La gran parte del ceto politico, anche di opposizione appare del tutto sordo, o quanto meno in ritardo, su quello che appare il tema dei temi del prossimo avvenire, e non solo italiano, ma evidentemente mondiale.

Davanti al degrado, sintomo e insieme causa, ma anche strumento di salvaguardia delle cricche affaristiche che “governano” la cosa pubblica, il controllo dell’informazione appare un punto dirimente. Di qui la politica volta a mettere le mani sul servizio pubblico radiotelevisivo, a controllare la stampa e l’editoria, i tentativi di esercitare la censura sulla Rete e quant’altro. Com’è possibile che il presidente del Consiglio, a capo del maggiore impero mediatico europeo, sia lasciato libero di decidere i giornalisti, i conduttori, i dirigenti del servizio pubblico, ma anche, addirittura, di larga parte della carta stampata? E sempre nell’indifferenza, o quanto meno nella sottovalutazione della cosiddetta “pubblica opinione”.

L’altro punto essenziale del programma dei berlusconidi, veri e propri cloni del “capo”, di cui eseguono senza alcuna esitazione o dubbio le direttive, tutte fondate sul perseguimento degli interessi di un individuo e delle sue clientele, è la drastica messa sotto controllo della magistratura, come Terzo Potere indipendente dagli altri due. La legge sulle intercettazioni telefoniche rappresenta un punto di incontro tra due distinti attacchi alla libertà d’informazione e all’indipendenza (e alla stessa efficienza) della magistratura, straordinario regalo alla grande criminalità, da quella in colletti bianchi a quella della lupara. Un evidente do ut des, da cui il primo a trarre benefici è il “capo del governo”, e la banda di affaristi che gli si raduna intorno, dentro e fuori le istituzioni.

Il catalogo, insomma è lungo. Catalogo di inefficienze e nefandezze, di menzogne e di sprechi, di iniquità sociali e di bassezze morali, che stanno devastando il panorama italiano: dall’ambiente alle istituzioni, dal futuro delle giovani generazioni, completamente azzerato, alla ricerca, vittima di un vero attacco persecutorio, gravissimo nelle sue conseguenze a medio e lungo termine, dalla scuola all’università, messe sotto accusa in quanto ultimi santuari di un sapere critico, dalla cultura, in tutta evidenza considerata un “comparto superfluo”, ove non si contenti di fornire circenses alla plebe …

Ma oggi non solo non ne possiamo più di circenses, ma ci manca il panem. Gli operai sui tetti delle fabbriche , dipendenti che si incatenano ai cancelli delle officine, la sequenza di suicidi di lavoratori e persino di imprenditori, il libero vagare sulla scena finanziaria e “imprenditoriale” di fallimentatori di professioni, spregiudicati avventurieri della finanza, che sono responsabili della gran parte del dissesto del sistema produttivo …

Oggi esisterebbero le condizioni oggettive per una riscossa di quella parte d’Italia che si riconosce nelle ragioni dei proletari, dei subalterni, dei giovani disoccupati e sottoccupati: di quella parte d’Italia che si è richiamata storicamente alla Sinistra. E invece? Il paradosso che stiamo vivendo è che al cospetto di una crisi epocale del capitalismo, la Sinistra appare morente: dovrebbe essere la sua stagione, dopo il crollo del biennio “rivoluzionario” 1989/91, e invece essa appare afasica e impacciata, a esser eufemistici, incapace di elaborare strategie, dominata da un personale politico troppo sovente inadeguato, rissoso, e, talora, autoreferenziale.

L’alternativa, a livello nazionale, e locale, sembra impossibile. Eppure essa è necessaria, non per la “rivincita” della Sinistra, ma per la salvezza dell’Italia. Oggi, più che mai il motto “socialismo o barbarie” suona come lo squillo di tromba che deve ridestarci e spingerci all’azione, in modo serio e meditato, ma determinato e capace di superare, innanzi tutto, la tendenza pericolosa della difesa dell’”identità” di micro partiti e, addirittura, di frazioni di micro partiti. Dall’altro canto, tuttavia, occorre tenere ferma la barra sull’alternativa radicale a un sistema in cui le complicità e le connivenze tra istituzioni, forze politiche di vario orientamento, gruppi di interesse, stanno distruggendo il Paese, il suo tessuto connettivo, la sua forza propulsiva, e la stessa capacità di preservare la propria memoria, l’avvenire della gioventù, la cui esistenza è ridotta a un precariato ormai devastante su tutti i piani, condannata a vivere l’istante come se fosse eterno.

Siamo davanti a un passaggio decisivo: o lasciare andare alla deriva la barca, aspettando il cozzo contro gli scogli, o tentare di indirizzarne la rotta. Siamo pochi? Siamo molti? Intanto, contiamoci. E scendiamo allo scoperto, rompendo gli indugi, vincendo i timori, superando antiche divisioni, pronti ad allearsi con chiunque, pur di raggiungere l’obiettivo: che, detto in una sola parola, enfatica, ma oggi inevitabile, è la salvezza d’Italia, cominciando, magari, da Torino e dal Piemonte. Non ci preoccupiamo se l’espressione suoni retorica e magari richiami echi mazziniani, o garibaldini: non ce ne preoccupiamo, in quanto riteniamo il Risorgimento un grande moto progressivo, la cui importanza rimane fondante per la nostra storia.

Dunque occorre radunare le forze, puntando su tutti coloro, singoli o esponenti di associazioni, circoli, gruppi organizzati, abbiano innanzi tutto la consapevolezza del momento epocale in cui ci troviamo e in secondo luogo in un momento storico in cui la gran parte del ceto intellettuale è troppo intento a badare ai fatti propri, o in attesa di una comparsata in un talk show televisivo, per scendere in campo contro la menzogna e l’indifferenza, occorre che qualcuno faccia sentire una voce di verità, e rischi, di persona, pur di suscitare un moto generale di reazione: che, riteniamo, debba essere innanzi tutto eticamente fondato.

Da questa prima riunione, certamente interlocutoria, vorremmo che uscissero proposte, intendimenti, volontà: di agire, di superare vecchi e nuovi steccati, di unirsi in un ideale Partito della Salvezza contro il Partito in atto, della Devastazione. Occorre agire ora, prima che sia troppo tardi. Correremo il rischio di sbagliare, certo, ma almeno, domani, non saremo tormentati dal senso di colpa di non aver tentato finché era possibile. Ora, dunque. Non domani. Affrontiamo, insieme, fin da oggi, il fatidico “Che fare?”. Ma esprimiamo da oggi, la nostra volontà di fare.
Giugno 2010 

Sulla crisi della democrazia 
di Cesare Allara             

La descrizione della situazione attuale del nostro paese enunciata da Angelo D’Orsi in “Reagire al degrado” suscita automaticamente una domanda cruciale: come e perché siamo giunti a questo punto? Se non si risponde preliminarmente ed esattamente a tale quesito, se cioè non si individuano precisamente le cause della malattia si rischia di propinare al paziente cure e medicinali inutili, anzi dannosi. Un serio e approfondito dibattito su tale argomento nella fu-sinistra non è mai neanche stato proposto; si è sempre preferito parlare di “unità contro Berlusconi”, di contenitori politici e di grandi ammucchiate  allo scopo di salvare qualche strapuntino ai soliti noti in nome dell’unità più o meno antifascista. E pensare che rispondere correttamente alla domanda non richiede molto tempo.

Una premessa: so bene che occorrerebbe cercare di definire almeno approssimativamente cosa s’intende per democrazia, il sistema generalmente ritenuto più idoneo a garantire la libertà degli individui, ma tralascio questo capitolo, ripromettendomi se ne avrò l’occasione di scriverne più diffusamente. Per il momento, uso la parola democrazia intendendola così come si ricava dalle norme della Costituzione italiana.  

In Italia la crisi della democrazia non è un fatto recente, avvenuto come vuol far credere la propaganda del cosiddetto “popolo della sinistra” con la “discesa in campo” di Berlusconi. Anche il degrado culturale è precedente alla nascita di Mediaset e al salvataggio delle televisioni berlusconiane da parte di Bettino Craxi. Berlusconi non è la causa del degrado e della crisi della democrazia, ma ne è il prodotto.

L’attacco alla libertà di stampa, l’invadenza mediatica del premier, la mignottocrazia, il proliferare di mafie, cricche e comitati d’affari, moderni lanzichenecchi che saccheggiano i beni pubblici, non sono che le tragicomiche conseguenze dell’avvenuto passaggio dalla democrazia dei nostri padri costituenti alla democrazia imperiale USA dell’epoca della globalizzazione capitalista. La crisi dell’economia, la crisi occupazionale, la crisi finanziaria nei paesi occidentali sono il prodotto di una fase di passaggio, iniziata almeno trent’anni fa, da un modello capitalistico più o meno  “keynesiano” al capitalismo globalizzato. Il diktat di Marchionne su Pomigliano d’Arco è l’espressione più aggiornata di questa transizione. All’interno di tutte queste fasi di passaggio, di questa involuzione della democrazia, la sinistra, tutta la sinistra ha avuto una responsabilità preminente.

Se si vuole fissare una data da cui far iniziare il declino della democrazia in Italia, così come l’avevano intesa i padri costituenti, occorre riandare verso la fine degli anni Settanta quando, sotto la pressione di un PCI smanioso di governare, il sindacato sposa appieno le rivendicazioni del padronato. Si veda a tale proposito la famosa intervista a la Repubblica di Luciano Lama: per dimostrare ai padroni le capacità di governo del sistema capitalistico da parte della sinistra, il segretario della CGIL sconfessa dieci anni di politica rivendicativa sindacale e di conquiste del movimento operaio, ed impone politiche di moderazione salariale. “E ora, e ora miseria a chi lavora” urlavano sarcasticamente nel 1977 gli studenti dell’università La Sapienza di Roma contestando la presenza di Lama nel loro ateneo e la “politica dei sacrifici” imposta ai lavoratori. E infatti oggi, larghe fette di popolo italiano alla miseria ci sono arrivate.

Dall’ottobre 1980 i lavoratori diventano sempre più una variabile dipendente dalle esigenze del padronato, mentre i dirigenti del più grande partito della sinistra si disfano velocemente dell’aggettivo comunista e si propongono come zelanti gestori degli interessi padronali. Negli ultimi 30 anni le prime picconate all’impianto costituzionale, le politiche più antipopolari, i più micidiali attacchi alle condizioni di vita delle classi subalterne in Italia sono stati portati in prima battuta dalla sinistra più o meno unita (abolizione della contingenza, riforme pensionistiche varie, precarizzazione del lavoro, furto del TFR ecc.). Cosicché oggi, il 35-50% degli operai della FIAT Mirafiori è pesantemente indebitato con agenzie finanziarie per far fronte alle più elementari necessità della vita (dati diffusi dalla FIOM torinese), un sempre maggior numero di pensionati raccoglie gli scarti di verdura e frutta nelle aree mercatali rionali e centinaia di disperati fanno code di ore agli sportelli INPS nei primi mesi di quest’anno per chiedere spiegazioni per diminuzioni delle pensioni di 2 (due!) euro. Per accorgersi della disperazione dilagante basta frequentare i patronati o le code per ottenere sussidi per l’affitto, per il riscaldamento ecc.

La morte della democrazia sta nel fatto che gli interessi di quelle decine di milioni di italiani di cui sopra non sono né rappresentati né difesi. Prova ne è che oggi è più facile che ai congressi degli industriali sia più applaudito un segretario sindacale che non Berlusconi, così come ad un congresso sindacale è più probabile trovare la Marcegaglia che non un semplice operaio.

Che fare? E’ evidente che occorre ripartire da dove il movimento operaio era stato mollato nel 1980. Non voglio usare formule desuete del tipo “centralità della classe operaia”, anche perché non saprei dire se la classe operaia esiste ancora. Ma è chiaro che se i lavoratori non mettono in campo al più presto un duro scontro sociale, per intenderci stile 3 luglio 1969,  contro i padroni di ogni risma, non solo contro Berlusconi, la Costituzione la possiamo salutare.

Da quanto scritto sino a qui è altresì evidente che i dirigenti di questa sinistra responsabili di questi disastri non possono essere coloro che ci faranno uscire da questa situazione perché non hanno più alcuna credibilità, come hanno dimostrato ampiamente tutti i risultati elettorali. C’è l’urgente necessità di scavare per costruire una nuova casa, ma i detriti di quella vecchia impediscono i lavori. Siamo ancora purtroppo nella necessità di sgomberare al più presto le macerie.
Torino, 15 giugno 2010