Afghanistan, giugno 2010: trentamila soldati in più, un generale in meno e l’offensiva che non c’è

Qualche giorno fa, parlando al Senato degli Stati Uniti sui tempi del ritiro dall’Afghanistan, il sottosegretario alla Difesa, Michelle Flournoy, aveva detto che tutto sarebbe dipeso dalla valutazione  della situazione sul campo, di competenza esclusiva del comandante McChrystal.
Da oggi, però, McChrystal è dimissionario. Forse Obama vorrà respingere le dimissioni*, ma sarebbe solo un rattoppo del tutto insufficiente a coprire le radici di uno scontro “militari-politici” che richiama alla memoria la fase finale della guerra in Vietnam.

Naturalmente, come ogni paragone storico, anche questo va preso con molta prudenza. Ben difficilmente rivedremo le bellissime immagini dell’ingloriosa fuga degli americani da Saigon, tuttavia qualcosa di serio sta certamente accadendo.
Apparentemente McChrystal è scivolato sulla buccia di banana di un articolo di RollingStone, ma il contenuto di questo reportage conferma l’esistenza di uno scontro politico molto pesante tra settori del Pentagono e la Casa Bianca.
Secondo alcuni, dietro McChrystal vi sarebbe in realtà il suo diretto superiore Petraeus, un generale che viene considerato tra i possibili papabili alla candidatura presidenziale per il Partito Repubblicano nel 2012.

I toni del comandante sul campo afghano lasciano del resto ben poco spazio alle successive precisazioni. Per McChrystal, i veri nemici sono “gli imbranati della Casa Bianca”, in particolare il vicepresidente Biden (“Biden chi?”, avrebbe detto), mentre il responsabile della sicurezza nazionale, Jim Jones, viene considerato “un pagliaccio fermo al 1985”. Considerazioni di questo tenore vengono riservate anche all’inviato speciale di Obama per Afghanistan e Pakistan, James Hoolbrooke, e per l’ambasciatore a Kabul, Karl Eikenberry.

In diversi sottolineano come questo attacco agli uomini di Obama faccia pensare alla costruzione di un alibi ad uso dei vertici militari, pronti a scaricare sui “molli politici” di Washington la responsabilità di una sconfitta che viene evidentemente considerata possibile se non addirittura probabile.
Ed in effetti la situazione sul campo sembra piuttosto complicata per gli occupanti. Il modello iracheno in Afghanistan non funziona, il tentativo di dividere la resistenza – comprandone una parte – è al momento fallito, l’offensiva di Marjah si è rivelata una mera operazione propagandistica (vedi Operation Mushtarak), quella ripetutamente annunciata su Kandahar è stata più volte rimandata.

Mentre questo mese di giugno si avvia a diventare quello con più perdite per le forze Nato dall’inizio della guerra (ottobre 2001), la strategia degli occupanti appare in grande affanno.
Quale sia il controllo del territorio viene messo in luce dai risultati di un’indagine parlamentare del Congresso Usa, dalla quale si apprende in forma ufficiale quel che già si sapeva: i trasporti logistici per le truppe americane in Afghanistan si svolgono con una certa regolarità solo grazie al pagamento di adeguata tangente ai warlord (signori della guerra) delle varie zone interessate. Ad esempio un camion che deve viaggiare da Kandahar  ad Herat deve pagare 500 dollari. Il risultato è che la sola attività di trasporto (affidata ad 8 ditte private) viene a costare 2,1 miliardi di dollari all’anno…

Come reagirà l’amministrazione Obama a questa situazione non è ancora chiaro.
Sicuramente cercherà in ogni modo di ottenere qualche risultato da dare in pasto all’opinione pubblica. Una qualche offensiva, presto o tardi, verrà scatenata questa estate. E poi vi sarà il lavoro di propaganda, sul quale ha insistito Robert Gates durante la riunione dei ministri della difesa della Nato riuniti a Bruxelles la scorsa settimana.
E siccome le originarie motivazioni della guerra riscuotono un sempre minor credito anche in terra americana, il Pentagono ha fatto uscire lo scoop sui giacimenti minerari che sarebbero racchiusi tra le montagne afghane.

E’ stata così sparata la notizia del valore di mille miliardi di dollari dei giacimenti di oro, rame, ferro, litio, eccetera. Una notizia, come riporta Enrico Piovesana su Peacereporter, in parte vecchia (già nel 1977 i sovietici erano a conoscenza delle riserve di litio, ma anche di quelle di uranio di cui invece il Pentagono non parla), in parte sicuramente gonfiata per offrire all’America affamata di materie prime una ragione in più per proseguire una guerra sempre meno popolare.
E per rendere questa ragione ancora più forte la stampa a stelle strisce ha prontamente inserito la questione mineraria nel confronto strategico con il gigante cinese. Chi metterebbe le mani sulle possibili miniere se l’occupazione Usa-Nato terminasse davvero? Ma ovviamente la Cina, suggeriscono i media occidentali, aggiungendo così un tassello in più al già complicato puzzle afghano.

Dopo più di 3mila giorni di guerra, ormai oltre il record del Vietnam, l’Afghanistan si presenta come un vero rompicapo per gli strateghi di Washington. Una impasse alla quale pochi credevano, ma che oggi è una realtà grazie all’indomita resistenza di un popolo che non è abituato a piegarsi.  

*PS – Al momento della pubblicazione di questo articolo le agenzie hanno battuto la notizia della sostituzione di MacChrystal, le cui dimissioni sono state accettate da Obama, con il generale Petraeus. Una scelta di continuità, che non risolve certo i problemi di strategia emersi chiaramente negli ultimi mesi.