Terza parte dell’intervista di G. Lalieu e M. Collon a Mohamed Hassan
Le prime due parti di questa intervista sono state pubblicate l‘8 ed il 24 maggio.
L’intero Corno d’Africa è occupato da potenze neocoloniali. Tutto? No!
Un paese di indomabili rivoluzionari resiste ancora all’invasore.
In questa terza e ultima parte del nostro capitolo dedicato all’Eritrea, Hassan Mohamed ci svela la ricetta della rivoluzione dell’Eritrea.
Un paese africano, può svilupparsi lasciando le multinazionali alla sua porta?
Perché restano tese le relazioni tra l’Eritrea e la vicina Etiopia? L’Eritrea è un eroe della rivoluzione o una dittatura che censura i media?
Tutte le risposte in questo nuovo capitolo della serie “Comprendere il mondo musulmano”.
Dopo trent’anni di lotta, l’Eritrea diventa indipendente e il Fronte di Liberazione del Popolo di Eritrea (FPLE) sale al potere nel 1993. In quale modo il Fronte attua la transizione dalla resistenza armata alla governabilità politica?
Fin dall’inizio, il FPLE non si è accontentato di condurre una lotta armata contro l’occupazione etiope, ma ha sviluppato un vero e proprio progetto politico: la riforma agraria, l’emancipazione delle donne, la creazione di consigli democratici nei villaggi …
In tutte le zone che controllava, il FPLE metteva in piedi strutture atte a provvedere ai bisogni elementari sanitari, di educazione o alimentari. Quando l’Eritrea è diventata indipendente, il FPLE ha continuato a sviluppare il progetto politico cominciato durante la lotta per l’indipendenza, con una filosofia ben specifica: ” Non abbiamo bisogno dell’occidente per svilupparci”.
Infatti, per guadagnare la sua indipendenza, l’Eritrea ha dovuto lottare praticamente da sola contro quasi tutte le maggiori potenze: Stati Uniti, Unione Sovietica, Europa, Israele …
Tutti questi paesi hanno sostenuto l’occupazione etiope. Questa particolare situazione ha contribuito a forgiare la visione politica dei resistenti eritrei, che hanno imparato a cavarsela da soli.
Essi sanno, per esperienza, che le potenze neo-coloniali hanno diviso gli africani per meglio impossessarsi delle ricchezze del continente. L’Eritrea ha scelto di perseguire una politica di sviluppo che non lascia spazio alle ingerenze delle potenze straniere.
E funziona? Un paese africano può svilupparsi senza l’aiuto dell’Occidente?
Evidentemente! In questo momento, dovunque in Africa, si celebrano i cinquant’anni dell’indipendenza. Ma, in realtà, il continente non si è mai liberato dal colonialismo, che ha semplicemente assunto altre forme. Oggi, attraverso istituzioni quali l’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), l’occidente impone delle regole commerciali che permettono alle sue multinazionali di saccheggiare le ricchezze dell’Africa e di asservire i suoi popoli. Queste multinazionali stanno inondando il continente di prodotti sponsorizzati, che impediscono ai produttori locali di svilupparsi. E tutto questo è possibile perché, nella maggior parte degli stati africani, alcune minoranze filo-occidentali traggono profitto da questo sistema, mentre la stragrande maggioranza della popolazione è condannata alla miseria.
Dunque sì, un paese africano può svilupparsi senza l’aiuto dell’occidente. Finché non avrà tolto la propria divisa da colonizzatore, l’occidente rappresenterà sempre un freno allo sviluppo dell’Africa..
Possiamo parlare di “rivoluzione eritrea”?
Assolutamente. Il governo ha attuato un modello di sviluppo basato su cinque pilastri.
In primo luogo, la sicurezza alimentare: l’Eritrea non può difendere la propria sovranità nazionale se il suo popolo muore di fame.
Per questo il paese conta su due eredità del colonialismo italiano: l’agricoltura pluviale e l’economia di un sistema meccanizzato per la gestione delle piantagioni. Inoltre, una riforma agraria ha concesso ad ogni contadino il proprio pezzo di terra. Il governo ha anche installato delle stazioni per trattori a disposizione degli agricoltori ed offre aiuti economici per agevolare il loro lavoro. L’agricoltura rappresenta un lavoro faticoso, soprattutto quando si dispone di attrezzature rudimentali, così, grazie al sostegno del governo, gli agricoltori dispongono di più tempo per imparare a leggere e per formarsi in altri tipi di attività lavorative.
L’accesso all’acqua potabile è il secondo pilastro. In Africa, molte malattie sono legate all’acqua non potabile. Ma è stato possibile rimediare a questa situazione, rendendo l’acqua sicura e disponibile in tutti i villaggi.
Veniamo al terzo pilastro: la salute. L’Eritrea dispone di una rete efficiente di cliniche situate in tutto il paese e collegate agli ospedali principali. Inoltre, l’accesso all’assistenza sanitaria è gratuito.
E’ interessante fare un confronto con l’Etiopia….. Laggiù, se non avete molto denaro, siete morti!
E non è detto … un cantante molto famoso, Johnny Halliday, aveva gravi problemi di diabete. Le autorità sanitarie lo trasferivano da un ospedale all’altro, ma non c’era l’attrezzatura necessaria per curarlo. Risultato: la star etiope si è spenta.
Il quarto pilastro poggia sull’educazione, una priorità per un governo che vuole sviluppare le proprie risorse umane. In Africa molti hanno perso di vista il fatto che le risorse materiali non sono sufficienti a dare impulso allo sviluppo. Ovviamente, questo è invece l’interesse delle potenze imperialiste, che hanno sempre fatto credere di essere indispensabili agli africani per aiutarli a trarre profitto dalle loro risorse materiali. Ma il fattore umano è fondamentale per lo sviluppo e l’Eritrea vuole avere il proprio personale competente, per poter sfruttare le proprie materie prime.
L’ultimo pilastro è costituito dagli eritrei espatriati che mandano denaro alla loro famiglia rimasta al paese e che pagano, per questo, una percentuale al governo, rappresentando così una fonte di reddito. La CIA ha frequentemente cercato di scardinare questa rete di finanziamenti, ma non ha mai avuto successo.
Questi emigrati pagano dunque due volte le tasse: una volta al paese dove risiedono e una seconda volta al governo eritreo?
Sì, ma sanno che questo denaro servirà a costruire in particolare delle scuole, delle strade e degli ospedali e non una villa per il presidente Isaias Afwerki, che invece conduce uno stile di vita modesto. Inoltre, questi emigrati, sono molto legati al loro paese e sanno a cosa devono la liberazione dell’Eritrea.
La mobilitazione della popolazione, sia all’interno che all’esterno del paese, è un fattore chiave della rivoluzione eritrea. E’ il cemento che tiene i pilastri di questo modello di sviluppo.
Un esempio: quando gli italiani colonizzarono l’Eritrea, costruirono una linea ferroviaria tra il porto di Massawa e la capitale Asmara. Ma durante la guerra d’indipendenza, gli etiopi, smantellarono una parte dell’acciaio di questa linea ferroviaria, danneggiandola. Quando l’Eritrea diventò indipendente, il governo volle ricostruire questo asse strategico di comunicazione.
Alcune società occidentali si proposero per prendere i lavori in consegna, chiedendo ingenti somme, fino a 400 milioni di dollari! L’Eritrea rispose: “No grazie, lo facciamo noi”. Tutto il popolo si è così mobilitato, giovani, donne, vecchi … per ricostruire questa linea ferroviaria, che oggi funziona di nuovo.
Il prezzo di questi lavori? 70 milioni di dollari.
L’idea è quella di fare tutto ciò che è possibile da soli, per non dipendere dalle potenze straniere. Del resto, l’Eritrea, è forse il solo paese al mondo dove non ci sono degli specialisti stranieri.
L’Eritrea, è dunque una prova che i paesi africani devono liberarsi dal colonialismo, per svilupparsi?
In realtà, tutto dipende da dove si focalizzano le priorità. Se si fanno della salute, dell’educazione o della sicurezza alimentare degli obiettivi prioritari, ci sono buone opportunità di sviluppo.
Se invece, come accade in molti paesi africani, le preoccupazioni sono di conformarsi alle norme del commercio mondiale, siete fregati!
John Perkins, un vecchio membro rispettato in ambito bancario, ha scritto un libro affascinante,
Confessions of an Economic Hit Man, dove racconta come il suo lavoro consistesse nell’aiutare gli Stati Uniti ad estorcere miliardi di dollari ai paesi poveri, imprestando loro più denaro di quanto ne potessero poi restituire. Se si è alla guida di un paese del Sud e ci si impegna in progetti con istituzioni come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, la vostra economia sarà completamente destabilizzata, la corruzione crescerà e gli imperialisti vi terranno per la gola. Così, oggi, ancor prima di inviare la CIA per destabilizzare un governo considerato troppo indipendente, vengono mobilitati i sicari economici. Ovunque ci sia la corruzione, infatti, l’imperialismo vince. Il governo eritreo lotta attivamente contro tutto questo.
L’Eritrea è composta da diverse etnie. Come riesce il governo a mobilitare la popolazione aggirando questa diversità, che invece è fonte di conflitti in molti paesi africani?
L’uguaglianza tra le nazionalità è un principio fondamentale della rivoluzione eritrea. Se rispettate le diversità e mettete tutte le etnie e le fedi religiose sullo stesso piano, potrete contare sul sostegno della popolazione.
In Eritrea, vi sono tanti cristiani quanti musulmani e non meno di nove diversi gruppi etnici: Tigrés, Afars, Kunama, Saho, etc… Ma tutti quanti si sentono innanzitutto eritrei. La cultura gioca anche un ruolo molto importante. I dirigenti eritrei hanno sempre prestato molta attenzione alle diversità culturali, incoraggiando ciascuno a sviluppare le proprie tradizioni etniche e a condividerle con gli altri. In tutta l’Africa persone di diverse religioni o gruppi etnici, si uccidono a vicenda.
In Eritrea, organizzano spettacoli di danza!
Con la vicina Etiopia l’intesa non è purtroppo altrettanto buona. Perché persistono le tensioni?
Oggi, l’Etiopia è guidata dalla minoranza Tigré, che negli anni ’70 aveva formato un movimento separatista, il Fronte Popolare per la Liberazione del Tigray (FPLT), che ha combattuto la dittatura militare di Mengistu a fianco degli eritrei. Tuttavia, a differenza dell’Eritrea, che era una ex colonia italiana, la regione del Tigray è sempre appartenuta all’Etiopia. La resistenza eritrea spinse e sostenne questi compagni di lotta a non battersi unicamente per la liberazione della loro comunità ma per quella di tutti i concittadini, qualunque fosse la loro nazionalità. Inoltre, il FPLE era consapevole che l’indipendenza del Tigray non avrebbe necessariamente condotto alla liberazione dell’Eritrea. Un cambiamento di regime in Addis Abeba era necessario e la resistenza avrebbe dovuto unire i propri sforzi in quella direzione.
Nel 1991, la dittatura militare fu rovesciata. Grazie all’aiuto e ai consigli degli eritrei, i Tigrè presero il potere. Fino ad allora l’Etiopia, era sempre stata governata da minoranze etniche. Tutti pensavano che il nuovo governo rompesse con questa tradizione e applicasse il principio di uguaglianza tra le differenti nazionalità: condizione essenziale per il ripristino della pace e lo sviluppo del paese. Ma il Primo Ministro Meles Zenawi, che ora è a capo del paese dal 1991, recentemente rieletto attraverso elezioni fraudolente, si allineò coi suoi predecessori: Ménélik II, Sélassié e Mengistu. Meles Zenawi, come loro, non ha una visione politica e governa secondo i propri interessi. Rimane al potere solo grazie al sostegno degli Stati Uniti.
Abbiamo visto nel capitolo precedente, come l’Etiopia dell’Imperatore Selassie, fu uno stretto alleato degli Stati Uniti. Ma con la dittatura militare di Mengistu, il paese si allineò all’URSS. Come è ripassato alla sfera di influenza americana?
L’Unione Sovietica commise un errore nel sostenere il cosiddetto regime socialista di Mengistu.
Gli Stati Uniti, invece, avevano una visione più chiara della situazione. Sapevano che il regime etiope non aveva base sociale ed era quindi molto fragile. Ed in effetti, le potenze imperialiste non potevano sperare in una situazione migliore, perché un governo che non rappresenta la complessità del proprio popolo e che agisce solamente nell’interesse di una minoranza, non potrà rimanere al potere senza il sostegno di altri poteri stranieri.
Washington conosceva bene la natura del regime di Mengistu e dunque nutriva la speranza che l’Etiopia ritornasse nella sua sfera di influenza. Evidentemente, con la salita al potere di Meles Zenawi, le speranze sono state ampiamente soddisfatte! Non solo il nuovo governo agì per i propri interessi senza alcuna base sociale, ma distrusse tutte le istituzioni ereditate da Mengistu, privando di sostanza il corpo dello stato. Oggi, Zenawi è quindi totalmente dipendente dal sostegno finanziario, militare e diplomatico degli Stati Uniti. Pertanto, non oppone rifiuti. Washington vuole installare una base militare? Okay, va bene! Washington vuole l’invasione militare etiope della Somalia? Okay, va bene! Nulla viene negoziato, Washington chiede e Zenawi esegue. Tutto il contrario di ciò che l’Eritrea aspira per il Corno d’Africa: la fine delle ingerenze straniere.
Così, oggi, l’Eritrea si rifiuta di normalizzare le sue relazioni con la vicina Etiopia. Certo sollecita il dialogo tra gli attori regionali per risolvere i conflitti e stabilire basi per la cooperazione, ma finché uno di questi attori rimarrà una marionetta agitata da Washington, questo progetto non sarà realizzabile.
Eppure, dopo la caduta di Mengistu nel 1991, ci sono stati accordi di cooperazione tra Eritrea ed Etiopia. Perché non hanno funzionato?
Sì, i paesi hanno concluso accordi di libero scambio: eliminazione graduale delle barriere commerciali, cooperazione nel settore finanziario e della politica monetaria, libera circolazione delle persone, ecc. Con l’indipendenza dell’Eritrea, l’Etiopia si è ritrovata priva di un accesso al Mar Rosso. Ma questi accordi permettevano agli etiopi di disporre liberamente dei porti dell’Eritrea.
Ad Assab, il tasso di occupazione lavorativa degli etiopi, è aumentato. L’Etiopia ha potuto aprire anche in questa città, quattro scuole che rispondono al proprio programma scolastico.
I dirigenti eritrei intendevano poter costruire veramente una collaborazione fruttosa coi loro cugini etiopi. Si conoscevano bene, avevano combattuto insieme. Ma non avevano preso in considerazione l’assoluta mancanza di una visione politica di Meles Zenawi e la sua sottomissione all’imperialismo americano.
Un conflitto di frontiera oppone i fratelli nemici nel 1998. Quale fu la posta in gioco di questa guerra?
La questione delle frontiere fu un pretesto creato da Zenawi, per tentare di rovesciare il governo eritreo. Questa frontiera è una delle più marcate dell’Africa. E’ stata tracciata e confermata a più riprese dagli accordi conclusi tra i coloni italiani e gli imperi etiopi all’inizio del ventesimo secolo. In seguito, è servita anche per delimitare il territorio eritreo, prima come entità federata e poi come una provincia dell’Etiopia.
Era riconosciuta sul piano internazionale.
Ma Meles Zenawi mise in discussione la sua validità alla fine degli anni ’90. Fino ad allora Isaias Afwerki, il presidente eritreo, non aveva prestato molta attenzione a questo fatto e aveva pensato che fosse lo stesso per il suo corrispondente etiope. Afwerki sapeva che il confine era stato definito chiaramente e che peraltro, la sua importanza era tutta relativa agli accordi che stabilivano la libera circolazione delle persone tra i due paesi. Ha inoltre ritenuto che le sfide socio-economiche che affliggevano la regione, fossero più importanti.
Le cose peggiorarono quando l’Etiopia cercò di annettere le aree in questione ed imporre la propria legittimità di fatto: Addis-Abeba produsse una mappa dello stato etiope che includeva ampi tratti del territorio eritreo ed intensificò le sue incursioni militari nelle zone disputate, cacciando o incarcerando i suoi abitanti. Nel maggio 1998, gli scontri tra pattuglie lungo la frontiera si trasformarono in conflitto aperto. L’Eritrea vinse la prima battaglia e recupererò molto rapidamente il controllo dei territori contestati. Ed è qui che si vide molto chiaramente come Asmara e Addis Abeba abbiano interpretato il conflitto in modo diverso. Per l’Eritrea, è stato chiaramente un conflitto di frontiera: una volta recuperati i suoi territori, ha mantenuto la propria posizione fino a quando gli organismi internazionali, hanno confermato che era nel suo diritto. Questo avvenne nel 2002, quando il Tribunale Internazionale dell’Aia diede ragione all’Eritrea sul tracciato di frontiera.
Per l’Etiopia le motivazioni di questa guerra erano invece completamente differenti. Si trattava, secondo le dichiarazioni dei dirigenti etiopi, di “mettere fine all’arroganza eritrea”, “di infliggere una punizione” e di “castigare per sempre” il FPLE.
Questo spiega la grande offensiva che l’esercito etiope ha lanciato in seguito?
E’ così. Dopo che l’Eritrea riprese il controllo dei suoi territori, i combattimenti continuarono in modo sporadico. Ma il 12 maggio 2000, l’esercito etiope ha lanciato una nuova offensiva, passando da 50.000 a 300.000 uomini. Addis-Abeba aveva riorganizzato anche il suo comando ed aveva speso quasi un miliardo di dollari in armamenti. Il campo di battaglia era ormai esteso al di là, delle zone contestate di frontiera. Il conflitto di frontiera infatti, diventava a tutti gli effetti una vera guerra di invasione.
L’Etiopia non voleva riprendere il controllo dei territori contesi ma mirava a fare cadere il governo. Aveva scelto anche accuratamente il momento in cui attaccare: il periodo della semina nei campi. Penetrando nella regione più fertile dell’Eritrea, l’esercito etiope volle far fuggire i contadini ed affamare il paese.
Questa guerra fu infatti una catastrofe umanitaria, ma l’Etiopia non riuscì a fare cadere la capitale Asmara. Superiori in armi e in numero, i combattenti eritrei contrattaccarono con le loro tecniche di guerriglia e respinsero l’invasore.
Perché Meles Zenawi voleva rovesciare il governo eritreo?
Zenawi voleva fare dell’Etiopia la potenza dominante del Corno d’Africa e costruirvi una base sociale. In Etiopia il potere era concentrato nelle mani della minoranza Tigrès che rappresentava solo il 6% della popolazione. Inoltre, i leader di Addis Abeba erano molto lontani dalla loro regione di origine; nella capitale non hanno avuto né il sostegno della popolazione, né quello dell’élite. Con la guerra contro l’Eritrea, Zenawi intendeva incarnare il sogno dell’impero etiope e raccogliere il consenso.
Ciò funzionò per un certo periodo: le contraddizioni emerse nella società etiope lasciarono il posto al patriottismo. Ma la disfatta dell’esercito etiope e i suoi metodi di combattimento hanno fatto ricomparire molto rapidamente le disuguaglianze.
Infatti, mentre gli ufficiali sono Tigrès, la maggior parte dei soldati sono di etnia Oromos e Amharas, i più importanti demograficamente. Nel corso della grande offensiva lanciata contro l’Eritrea, gli ufficiali etiopi usarono la tattica dell’onda umana, ereditata dalla prima guerra mondiale. Questa tecnica consiste nell’inviare, contro le posizioni, un numero così alto di soldati, che il nemico ne è sopraffatto. Ovviamente, le vittime sono tante quantitativamente e la storia ha dimostrato che questa tattica ha i suoi limiti. Ma gli ufficiali dell’esercito etiope non ne hanno tenuto conto ed hanno inviato stupidamente migliaia e migliaia di Oromo e Amhara contro l’avversario. Per Zenawi, la sconfitta con l’Eritrea e le contraddizioni all’interno dell’esercito, distrussero le sue speranze di costruire una base sociale. Egli potè solo contare sul sostegno di una parte della comunità Tigrès, che non era numerosa.
La sua rielezione è piuttosto sorprendente. La frode è evidente e l’opposizione al regime è in costante crescita. Chissà per quanto tempo Zenawi potrà ancora reprimerla?
Alcune irregolarità hanno macchiato le ultime elezioni in Etiopia. Ma in Eritrea, non ci sono state ancora elezioni presidenziali, dopo l’indipendenza nel 1993. Non c’è opposizione politica, un unico partito governa il paese. L’Eritrea è una dittatura?
In Africa, non esistono partiti politici e la democrazia multipartitica non funziona. Primo, perché questo modello politico crea divisioni. In Congo, per esempio, ci sono quasi tanti partiti politici, quanti sono gli abitanti. Lo scopo è di dividere le persone, non secondo le tribù come una volta, ma secondo i partiti politici. Si tratta di democrazie a bassa intensità.
Il multipartitismo non funziona in Africa perché questo modello di democrazia è un cavallo di Troia per gli imperialisti. Le potenze neocoloniali falsano il gioco democratico finanziando i candidati che soddisferanno meglio le loro esigenze: accesso alle materie prime per le multinazionali, allineamento sulla politica estera, ecc.. Con il sistema multipartitico in Africa, gli imperialisti stanno dicendo a tutti, ogni quattro o cinque anni: “Andate a votare per questi candidati che abbiamo selezionato per voi. Vanno ad impoverirvi e ad uccidervi. Votate per loro!”.
La domanda è: la democrazia multipartitica è un ideale che ogni paese deve raggiungere o ogni paese è libero di scegliere il sistema politico che ritiene migliore per sé, secondo le proprie caratteristiche, la sua storia e la sua cultura? Tenuto conto delle differenze etniche e religiose in Eritrea e per il fatto che la mobilità è una componente essenziale del modello di sviluppo, si vuole favorire un sistema che rinforzi l’unità del popolo. Un sistema a partito unico corrisponde meglio alle specificità dell’Eritrea dunque, che il multipartitismo.
In Occidente tendiamo a credere che il nostro modello di democrazia sia il migliore. E’ un errore secondo te?
La democrazia che gli Occidentali promuovono è una democrazia di minoranze. Il potere non è nel parlamento o nei partiti politici. E’ nascosto, concentrato nelle mani di chi ha denaro, che fa girare l’economia e finanzia i partiti. Ma l’elite economica non è mai stata soggetta a suffragio universale. Eppure è lei che ha il più grande potere. E’ democrazia?
Un esempio molto semplice: la pubblicità per i bambini. Gli studi scientifici evidenziano che le pubblicità destinate ai bambini hanno un effetto negativo sullo sviluppo dei più piccoli. Se la popolazione fosse informata correttamente su questo argomento e gli si chiedesse di pronunciarsi sulla questione, non avrebbe nessun dubbio nello scegliere di vietare questo tipo di pubblicità. Tuttavia, la maggior parte dei governi occidentali hanno sempre rifiutato questa possibilità, sotto la pressione delle lobbies. Si vede dunque chiaramente come gli interessi dell’élite economica, sono privilegiati rispetto alla volontà popolare.
Nel suo libro Failed States: The Abuse of Power and the Assault on Democracy (2006), Noam Chomsky è preoccupato per il deficit democratico degli Stati Uniti. Non per quel che riguarda le elezioni di George W. Bush contro Al Gore nel 2000. Meles Zenawi probabilmente avrebbe fatto meglio. Chomsky si riferisce a un altro fatto: quando l’amministrazione Bush ha presentato il suo bilancio nel febbraio 2005, uno studio ha rivelato che le posizioni popolari erano in netta contrapposizione a quelle politiche. Là dove il bilancio aumentava, l’opinione si augurava che diminuisse (difesa, guerre in Iraq e Afghanistan, dipendenza riguardo il petrolio, ecc.). Invece là dove l’opinione si augurava che il bilancio aumentasse, diminuiva (educazione, risoluzione del deficit, sostegno agli ex combattenti, ecc.).
Sarebbe troppo lungo analizzare qui, tutte le lacune delle democrazie occidentali. Ma credere che questo modello sia la panacea di tutti i mali è molto pretenzioso e lontano dalla realtà. Il Vice Ministro della cultura in Bolivia, ha recentemente proposto una sua definizione di democrazia: “Un paese è democratico quando i bisogni fondamentali di tutti i cittadini sono soddisfatti”.
Se si è d’accordo con questa visione, l’Occidente ha molto da imparare dall’Eritrea, sulla democrazia.
Il presidente Isaias Afwerki ha guidato la resistenza contro l’Etiopia e ha presieduto il paese dal giorno della sua indipendenza. Non aveva promesso delle elezioni?
Ha detto che il paese ha bisogno di democrazia, ma che per soddisfare questo bisogno occorre costruire prima delle strutture di base. L’Eritrea è un paese giovane, ancora segnato dalla guerra contro l’Etiopia. Il lavoro non è terminato, resta ancora molta strada da fare.
Secondo me, l’Eritrea è una democrazia popolare dove le persone hanno accesso alle cure mediche, non rischiano la morte se bevono un bicchiere d’acqua, hanno lavoro, cibo, elettricità.
E se malgrado tutto ciò, si continua a considerare l’Eritrea come una dittatura, preferisco vivere in una dittatura dove so che ai miei bambini non mancherà niente e potranno andare a scuola.
Il governo eritreo è spesso criticato per la questione dei diritti umani e in particolare per la libertà di culto. Oltre alle quattro religioni riconosciute dallo Stato (la Chiesa Ortodossa eritrea, la Chiesa Cattolica, la Chiesa Evangelica Luterana di Eritrea e l’Islam), tutti gli altri gruppi religiosi sono proibiti. Come si spiega questa posizione?
Tutte le altre religioni non sono vietate, ma se volete aderire ad un culto diverso da quelli autorizzati dal governo, dovete fare una domanda e produrre documentazione specifica che comprenda anche la descrizione e le fonti dei finanziamenti esteri. Si tratta di una misura di protezione del governo contro le religioni esportate che servono interessi politici, principalmente le religioni protestante e pentecostale.
Il Movimento Pentecostale arriva direttamente dagli Stati Uniti ed è strettamente legato all’estrema destra che circondava il presidente George W. Bush. In nome della libertà di culto, questo virus attacca i giovani africani, promuovendo il successo economico ed esasperando l’individualismo.
Molto simile ai valori anglosassoni, queste religioni esportate in Africa servono interessi politici, consentendo alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti in primo luogo, di infiltrarsi nella società africana.
Già nel 1946, il Console Generale di Francia in Congo Belga si preoccupava e diceva: “Il governo statunitense che non teme di allontanare i missionari dal loro vero apostolato se ne serve per estendere la propria influenza nei paesi del centro-ovest africano. (…) Non vi è dubbio che essi [i missionari] dispongano di notevoli fondi economici e che le popolazioni indigene siano attratte così dall’orbita statunitense”.
Oggi, le tecniche sono ulteriormente migliorate con il metodo Pizza Land!
Immaginate: io sono un missionario protestante statunitense e sbarco in Africa. Cerco giovani reclute. Sono molto poveri lì, non ho bisogno di molto danaro per convertirli. Li compro in qualche modo. Poi li mando negli Stati Uniti, nelle scuole di marketing della società Pizza Land, una ditta dell’agro-alimentare che pratica delle tecniche di marketing molto aggressivo.
Formati, i miei giovani predicatori ripartiranno per l’Africa dove cominceranno il loro lavoro di conversione, facendo molti discorsi, creando gruppi di musicali, dando vita ad emittenti televisive. Gli Stati Uniti hanno concepito questo progetto, che ha grandi risultati in tutto il mondo. L’Eritrea lotta esattamente contro quello su cui questa religione è imperniata: la ricchezza materiale e l’individualismo. Certi predicatori viaggiano in 4×4 e portano orologi d’oro: è giusto supporre che siano stati benedetti dal Signore!
Ma ad Asmara, si esalta il benessere generale e la solidarietà.
In Eritrea il servizio militare è obbligatorio. E’ una sorta di servizio civile durante il quale i giovani partecipano alla costruzione di ospedali o aiutano per esempio i contadini nel loro lavoro. Ma il governo ha cominciato a incontrare problemi con giovani protestanti, perchè rifiutano questi compiti, adducendo il divieto della loro religione. Ecco perché, oggi, in Eritrea, voi potete aderire alla religione che volete, ma dovete prima dimostrare di avere le mani pulite. Il governo non vuole che la gioventù venga contagiata da questo virus.
Anche se agisce per il benessere del popolo e del paese, il governo non dovrebbe consentire la libera scelta ai suoi cittadini?
Non si può parlare di scelta quando dei missionari propongono denaro a persone che non hanno un granché. Quando siete poveri, non potete permettervi il lusso di fare delle scelte. Optate naturalmente per la soluzione che vi sembra più vantaggiosa. È quasi una legge di sopravvivenza. Allo sguardo occidentale può sembrare strano che una nazione imponga delle restrizioni sulla libertà di culto.
Ma in Africa, nei paesi poveri, non si può parlare di libera scelta quando i missionari protestanti usano denaro per convertire la gente, si infiltrano nella società e interferiscono con gli affari pubblici.
Un altro punto su cui si critica l’Eritrea riguarda la libertà di stampa. Perché i media privati sono vietati nel paese?
I media privati africani non esistono. Per lanciare un media privato servono capitali ingenti e la concorrenza ai gruppi mediatici occidentali, in un mercato liberalizzato, è spietata. È praticamente impossibile per i piccoli Stati del Sud. Negli anni ’70, molti paesi del Terzo Mondo hanno denunciato l’imperialismo culturale del quale sono state vittime, vale a dire, secondo lo specialista della comunicazione Herbert Schiller: “l’insieme dei processi con i quali una società si introduce nel sistema mondiale moderno e il modo in cui la sua classe dirigente li conduce, per mezzo del fascino, della pressione, della forza o della corruzione, modellano le istituzioni sociali affinché corrispondano ai valori e alle strutture, o le promuovano, del nucleo dominante del sistema”.
L’UNESCO lanciò poi, il Nuovo Ordine Mondiale dell’Informazione e della Comunicazione per riequilibrare il flusso di informazioni in tutto il mondo. Ma i paesi occidentali lo boicottarono e Gran Bretagna e Stati Uniti lasciarono l’Unesco.
L’Occidente occupa una posizione egemone nel mondo dell’informazione e utilizza i media come arma di propaganda per promuovere i propri interessi nel Terzo Mondo e in particolare in Africa. Questo tipo di pratica è iniziata con i fascisti italiani negli anni ’20. E durante la Seconda Guerra Mondiale, il Gran Muftì di Gerusalemme
[http://it.wikipedia.org/wiki/Gran_Mufti_di_Gerusalemme], fu invitato ad un programma arabo di Radio Roma, per incitare il popolo colonizzato a ribellarsi al nemico britannico. I paesi imperialisti hanno imparato la lezione da questa propaganda di guerra e le tecnologie sono migliorate. Così oggi la BBC ha un programma internazionale completo. E Voice of America, il servizio di radiodiffusione internazionale del governo statunitense, è ben presente in Africa con trasmissioni in amarico, tigrès, somalo, ecc.
Ovviamente, questi grandi mezzi di comunicazione internazionale, dipendono direttamente dal loro governo o appartengono a ricchi capitalisti e non sostengono il Sud che cerca invece di resistere all’imperialismo. Pertanto, al fine di proteggersi dalla guerra mediatica in cui non tutti i paesi stanno giocando in condizioni di parità, l’Eritrea ha deciso di vietare i media privati.
La nascita di Al Jazeera, non ha riequilibrato un po’ le disuguaglianze Nord-Sud nel mondo dell’informazione?
Certo. E molti altri media arabi hanno fatto seguito. Ma di recente, il Congresso degli Stati Uniti ha prodotto una relazione informativa, sul pericolo dei media arabi. Viene stimato che queste televisioni che riportano la realtà dei territori, dall’Iraq in particolarmente, veicolano idee antiamericane ed influenzano l’opinione sugli Stati Uniti. Il Congresso ritiene che queste siano televisioni terroriste da vietare. Gli imperialisti, quindi, criticano l’assenza di media privati in Eritrea e sommergono il Terzo Mondo con le loro informazioni. Ma rifiutano l’opposto, cioè che i media del Sud informino i cittadini occidentali. Perché? La libertà di espressione non va bene quando colpisce gli interessi delle potenze imperialiste? I governi occidentali hanno qualche cosa da nascondere alla loro popolazione su ciò che fanno nel Sud?
Oltre l’assenza di media privati, l’Eritrea è accusata di detenere un gran numero di giornalisti in prigione. Il governo non è molto aperto alle critiche?
Innanzitutto, bisognerebbe poter verificare le cifre di cui si parla. Poi, bisogna sapere che molte persone si fanno passare per giornalisti, ma sono in realtà al servizio dei poteri imperialistici. Uno di essi lavorava, per esempio, direttamente per l’ambasciata americana. L’Eritrea è un paese sovrano che cerca di svilupparsi. Ma alcuni, con il pretesto di fare giornalismo tentano di manipolare l’opinione pubblica e destabilizzare il governo. I servizi segreti americani li sostengono. Tentano di introdurli nella società eritrea per incitare i giovani a fuggire dal paese.
L’idea che sta dietro è che se la maggior parte dei giovani lasciano il paese, l’esercito sarà indebolito, l’economia non girerà più ed il governo sarà rovesciato. Questa tecnica non è nuova.
È stata applicata già a Cuba. In Venezuela i servizi segreti americani finanziano anche dei media anti-Chavez, dei partiti di opposizione, delle ONG critiche verso il governo, ecc..
Gli Stati Uniti hanno sempre cercato di destabilizzare i governi che non erano in sintonia con le loro politiche.
Il governo eritreo non reagisce troppo duramente? In quanto giornalista, posso andare in Francia e criticare il governo, senza essere arrestato.
Non sarà arrestato, ma se le sue critiche saranno davvero pertinenti, non avrà vita facile. I suoi articoli saranno pubblicati su siti o giornali alternativi, per esempio. E raggiungerà un pubblico ristretto, rispetto a chi invece va su TF1 (http://it.wikipedia.org/wiki/TF1). Se si vuole riuscire ad essere presi in considerazione da questi grandi media capitalisti, bisogna dire quello che loro, vogliono sentire. Quindi, in qualche modo, si è già in carcere.
Naturalmente, è possibile preoccuparsi per la mancanza di libertà in Eritrea.
Ma ponetevi questa domanda: come reagirebbe il Belgio, se l’Iran finanziasse delle grandi catene televisive che incitano a rovesciare il governo e minacciano costantemente di bombardare Bruxelles? Come avrebbe reagito la Francia, se Cuba avesse sostenuto gruppi terroristici per cercare di assassinare Nicolas Sarkozy? Come avrebbe reagito Washington, se il Venezuela avesse finanziato e formato gruppi politici e sindacati contro gli Stati Uniti? Sicuramente i cittadini occidentali non avrebbero più potuto godere delle stesse libertà. Negli Stati Uniti è bastato molto meno perchè il governo votasse leggi liberticide come il famigerato Patriot Act, il cui scopo era la lotta al terrorismo.
Infine, l’Eritrea è molto simile a Cuba. Isaias Afwerki e Fidel Castro, combattono per le stesse cose?
E’ vero: entrambi hanno lottato per liberare il loro paese prima di diventarne presidenti. Hanno guidato una rivoluzione sociale a favore del popolo. E tanto l’Eritrea che Cuba sono dei bastioni contro l’imperialismo. Ciò vale l’ira degli Stati Uniti.
Proprio come contro Cuba, Washington conduce una campagna contro l’Eritrea, ad esempio, criticandone la mancanza di democrazia. I sistemi politici sono abbastanza simili a L’Avana e ad Asmara del resto. Ma le critiche di Washington sono fondate?
François Houtart (http://en.wikipedia.org/wiki/Fran%C3%A7ois_Houtart) ha recentemente riportato questo aneddoto: un membro del Lussemburgo, in visita a l’Avana, aveva confessato di aver trovato più democrazia a Cuba che nel suo stesso partito! Infatti, al di là dell’esistenza di un partito unico e della longevità di Fidel Castro in politica, esistono tanti organismi democratici a molti livelli.
Questo vale anche per l’Eritrea, dove, fin dalla lotta per l’indipendenza, il FPLE ha formato consigli democratici nei villaggi, rovesciando l’ordine feudale e favorendo l’emancipazione delle donne, che potevano essere così coinvolte nella gestione delle politiche.
Un altro cavallo di battaglia degli Stati Uniti contro Cuba e l’Eritrea: la questione dei diritti umani. Ancora una volta, è una tecnica di propaganda?
La preoccupazione mostrata dagli Stati Uniti per la questione dei diritti umani non regge quando si osserva la politica estera di questo paese. Washington si preoccupa per il rispetto dei diritti umani a Cuba e in Eritrea ma supporta l’Arabia Saudita, dove una donna violentata viene condannata alla fustigazione e al carcere, sostiene la Colombia dove gli oppositori politici e i sindacalisti sono assassinati in massa, ha appoggiato il dittatore Islam Karimov che ha bollito a morte i dissidenti in Uzbekistan. E l’elenco potrebbe continuare.
Inoltre, gli Stati Uniti non si possono proprio esimere in materia di tortura. Quello che sta accadendo in Afghanistan, in Iraq o nelle prigioni segrete della CIA, macchia la bianca armatura del cavaliere statunitense.
Infine dobbiamo anche ricordare che la Carta dei diritti dell’uomo include i diritti socio-economici. Per esempio dice: “Ogni individuo ha diritto a un adeguato standard di vita per il proprio benessere e quello della sua famiglia con riguardo alla nutrizione, al vestiario, all’alloggio, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”. Questi diritti socio-economici infastidiscono gli Stati Uniti che sostengono il ritiro della Carta.
Secondo Jeane Kirkpatrick, ex ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, ha il valore di una lettera a Babbo Natale. Ci si può chiedere in effetti quale nazione tra Eritrea, Cuba o Stati Uniti rispetti maggiormente i diritti umani.
Quando si arriva in aeroporto, a Cuba, è possibile leggere questo manifesto: “Questa sera, 200 milioni di bambini dormiranno per strada, non uno di loro è cubano”.
Negli Stati Uniti, invece, le famiglie sono state cacciate dalle loro case perché le banche e lo Stato hanno deregolamentato il settore finanziario. In Francia, paese “dei diritti umani”, ci sono circa 800.000 senza tetto.
La questione dei diritti umani è un argomento spesso utilizzato dalle potenze imperialiste per tentare di screditare i propri nemici. Ma tutto ciò è pura ipocrisia.
Tuttavia, questa manipolazione non deve impedire qualsiasi critica al governo eritreo, che ha ancora molta strada da fare. Semplicemente, dobbiamo essere cauti quando un paese come gli Stati Uniti usa la questione dei diritti umani per condurre una politica di guerra.
Gli Stati Uniti hanno sempre lottato contro Cuba, per prevenire che, altri paesi dell’America Latina, seguissero l’esempio. Oggi, Washington, ha le stesse preoccupazioni circa l’Eritrea. Pensa che la rivoluzione eritrea e il suo modello di sviluppo, potrebbe ispirare altri paesi in Africa e liberare il continente dal colonialismo?
Ogni paese ha le sue specificità. Una rivoluzione non può essere esportata al di là delle frontiere. Tuttavia, questa volontà di liberarsi dalle potenze imperialiste, potrebbe influenzare altri governi in Africa. Il continente ha tanta ricchezza.
Si noti inoltre che la visione politica dell’Eritrea, è regionale: non lascia spazio alle interferenze delle potenze straniere ma è consapevole che non può svilupparsi autonomamente.
Tutti i paesi del Corno d’Africa devono mobilitare e risolvere le contraddizioni attraverso il dialogo. La regione è ricca e ben posizionata. Potrebbe diventare un centro economico molto importante. La crisi somala avrebbe trovato soluzione se si fosse affrontato il problema con questa prospettiva. E’ quello che sta cercando di fare l’Eritrea, ma gli imperialisti provano a bloccare questo progetto che li spaventa. Così gli Stati Uniti accusano Asmara di appoggiare il terrorismo e l’Etiopia insorge contro i suoi vicini. Immaginate se l’area di libero scambio tra l’Eritrea e l’Etiopia fosse estesa al Sudan, a Gibuti, all’Etiopia e in Kenya e poi anche in Uganda. Avremmo un mercato molto grande, con risorse immense, senza l’intervento delle potenze occidentali, connesso con i paesi arabi ed il mercato asiatico.
C’era stata un’esperienza molto simile negli anni ’60: Kenya, Uganda e Tanzania avevano creato un mercato comune con accordi di libero scambio. Ma gli imperialisti, per paura, inscenarono un colpo di stato in Uganda, portando Idi Amin Dada al potere nel 1971. Un anno dopo, il mercato comune è crollato e tutti i suoi paesi membri sono sprofondati nella crisi. In quanto all’Uganda, attraversò un periodo di guerra civile che durò molti anni.
Il fatto è che l’imperialismo, in particolare l’imperialismo degli Stati Uniti, è il peggior nemico della regione. Finché quest’interferenza esisterà, l’Eritrea avrà problemi. Ma se gli attori regionali saranno in grado di raggiungere un accordo con l’Eritrea, anche parziale, le cose cambieranno completamente. Ci sarà un boom economico che avrà ripercussioni ben al di là del solo Corno d’Africa!
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