Dopo aver pubblicato ieri il resoconto del convegno di Sumud, che si è tenuto all’isola Polvese dal 9 all’11 luglio, è oggi la volta dell’introduzione di Giacomo Zuccarini (Segretario di Sumud).

L’azione umanitaria: punti di forza e problemi
Vi diamo il benvenuto da parte di Sumud a questa iniziativa di confronto e di riflessione e ringraziamo i nostri ospiti per essere intervenuti. Noi siamo una realtà giovane e non possiamo che trarre giovamento dal dialogo con organizzazioni più consolidate. D’altro canto ci auguriamo che l’incontro con noi e le nostre idee sia utile e produttivo anche per voi.

Vorremmo dedicare questo incontro ai martiri della Freedom Flotilla, trucidati in acque internazionali dall’esercito sionista mentre tentavano di rompere il blocco imposto a Gaza da Israele. Un blocco imposto nel totale disprezzo della vita umana, che riduce un milione e mezzo di persone alla condizione di internati, in balia della fame, della sete e delle armi dell’occupante. Solo qualche giorno fa un rappresentante italiano imbarcato nella Flotilla ha testimoniato qui a Perugia la propria esperienza. Voglio ricordare che la Flotilla non era salpata imbarcando cannoni e lanciarazzi, ma con scorte di cibo, medicinali, generi di prima necessità. Nonostante l’esito tragico della missione, la Flotilla ha giovato ai bisogni primari degli internati di Gaza più di quanto abbia voluto o saputo fare la comunità internazionale con le sue agenzie, costringendo il governo egiziano a riaprire il valico di Rafah e a dare così un po’ di respiro alla gente di Gaza.
Il caso palestinese, così eclatante numericamente, così importante sul piano simbolico, non è però isolato. In questo convulso periodo di conflitti aperti e incipienti vi sono nel mondo 43 milioni di persone deportate con la forza, il numero più alto dalla metà degli anni ’90, di cui 15 milioni di profughi (10 sotto la responsabilità dell’Agenzia ONU per i rifugiati; altri 5 milioni sono palestinesi sotto il mandato dell’UNRWA), un milione di richiedenti asilo e altri 27 milioni di deportati interni(1).
Oltre al caso palestinese, tra le crisi umanitarie più drammatiche evidenziate nel rapporto dell’Agenzia Onu per i Rifugiati, vi sono quelle di Afghanistan-Pakistan, Iraq e Somalia. Su di esse ascolteremo qui alla Polvese testimonianze dirette.

Non meno allarmanti sono i dati sulla povertà: se il numero dei poverissimi – che vivono con meno di 1,25$ al giorno – è diminuito da 1,8 miliardi ad 1,5 circa tra il 1990 al 2005, ciò è dovuto alla crescita travolgente della Cina e in secondo luogo dell’India, mentre il numero di poveri altrove è cresciuto. Nell’Africa sub sahariana, ad esempio, di 100 milioni. Ad ogni modo è cresciuta ovunque a dismisura la disuguaglianza nella distribuzione del reddito(2).
Le cause di questa devastazione umana, culturale ed ecologica non sono dovute ovviamente solo a cieche forze della natura. Anzi, il più delle volte la natura non c’entra proprio nulla. A fianco o alle spalle di essa c’è il saccheggio delle risorse, le strategie di dominio politico ed economico, la sopraffazione militare e culturale.
Come reagire di fronte al perpetuarsi e all’aggravarsi della catastrofe? Domande simili si pone chi rifiuta un tale orrore, chi per principi laici o religiosi è portatore di un sentimento di fratellanza universale.
Di fronte alla difficoltà di elaborare risposte politiche di ampio respiro, una delle forme, oggi maggioritaria, con cui gli uomini di buona volontà cercano di rispondere ed intervenire è quella del volontariato e dell’azione umanitaria. Questa proposta d’impegno può conseguire risultati positivi di vario tipo per i soggetti coinvolti.
I popoli bisognosi di aiuto non si trovano a ricevere semplici attestati di solidarietà, quanto invece forme di sostegno fattivo, sperimentando un’interazione più profonda con i volontari che apre la via alla comprensione reciproca, alla rottura degli steccati culturali.
Gli operatori umanitari, spesso di provenienza occidentale, hanno modo di superare la ritualità inconcludente e a volte frustrante delle tradizionali forme dell’agire politico (manifestazioni di piazza, iniziative mediatiche), per compiere atti di concreta umanità. L’esperienza diretta e l’esempio di vita, infine, possono trasformare il rifiuto dei modelli dominanti da un semplice modo alternativo di pensare ad un diverso modo di vivere.
Per queste ragioni siamo qui: per ascoltare le esperienze dei presenti, cosa hanno appreso e cosa sono riusciti a dare nei contesti in cui hanno operato. Poiché il vissuto individuale e collettivo è l’espressione più immediata di questo tipo di impegno sociale.
Tuttavia è nostro dovere riflettere assieme sugli ostacoli, i problemi e i paradossi che accompagnano la cooperazione per lo sviluppo e l’azione umanitaria. Specie nell’ottica di costruire un futuro di fratellanza che superi l’attuale modello di società, che si dimostra ogni giorno non solo una generatrice di conflitti, ma una vera e propria minaccia per la vita stessa nel pianeta.

La madre dei problemi sta nel fatto che l’umanitarismo è divenuto in questi ultimi venti anni elemento principe sia delle strategie di penetrazione politica ed economica sia come fonte di legittimazione per gli interventi militari delle grandi potenze. Più precisamente delle grandi potenze occidentali.
Il momento di svolta è il 1989. Non che prima non si fossero dati casi di governi che ricorrevano alla retorica umanitaria per giustificare le proprie politiche aggressive, ma il crollo dei sistemi comunisti viene percepito dall’occidente e dal proprio stato guida, gli USA, come la grande occasione per costruire un nuovo ordine mondiale a proprio vantaggio. La leva strategica idonea è individuata nei diritti umani.
All’inizio degli anni ’90 nasce la dottrina degli “stati canaglia”. Qualche anno dopo Clinton e Blair elaborano un manifesto programmatico rivendicando la difesa dei diritti umani e l’ingerenza umanitaria come uno dei pilastri del nuovo sistema internazionale. Blair, che viene dal Labour e dalla cultura della sinistra europea, si spinge a parlare di un “nuovo internazionalismo fondato sui valori”(3).
Il banco di prova per questa strategia sono l’Iraq e la Yugoslavia. Non sto a farla lunga. Basti ricordare che il sistema delle sanzioni internazionali seguite da una dichiarazione di “guerra giusta” contro “uno stato sovrano reo di violenze politiche interne”(4) (con la benedizione dell’ONU se possibile, senza, se necessario) è stato sperimentato proprio allora. Lo schema si ripete nel decennio seguente con qualche variante – come l’accusa di possedere “armi di distruzioni di massa” o di dare rifugio a pericolosi terroristi. E forse l’occidente va preparando un nuovo conflitto con l’Iran, seguendo ancora lo stesso paradigma collaudato.
Come ricade tutto ciò sulle organizzazioni non governative? Gli aggressori hanno bisogno della loro complicità sia nella preparazione del conflitto, per denunciare il mancato rispetto dei diritti da parte dello stato aggredito, che dopo, per legittimare la propria presenza militare anche sulla base della ricostruzione materiale e morale del paese.
E così un mare di finanziamenti e di sovvenzioni inizia a piovere sulle NGO, alle quali si chiede in cambio un maggiore collateralismo alle politiche estere dei governi occidentali. Parallelamente anche le multinazionali e le imprese si rendono conto che una loro penetrazione economica e politica può essere favorita da un impegno di tipo umanitario, come strumento di corruzione e di cooptazione di soggetti e istituzioni locali. Assistiamo dunque allo sviluppo di NGO sotto controllo indiretto dei governi, denominabili GRINGO (Government Regulated and Initiated NGO), e di NGO al servizio delle multinazionali e delle imprese – le famigerate BINGO (Business Initiated NGO)(5).

Il budget annuale stanziato dai governi per il solo aiuto umanitario – tenendo fuori la cooperazione allo sviluppo – raddoppia in sette anni (2001-2008), raggiungendo la cifra 6 miliardi di dollari, mentre cresce a dismisura il numero di uomini impiegati nel settore, che oggi supera le duecentodiecimila unità(6).
Il paradosso apparente è che tra le catastrofi umanitarie più gravi per ampiezza nel 2010 ci sono quelle di quei paesi in cui gli occidentali sono intervenuti quasi dieci anni orsono, proprio per “esportare i diritti umani”. Vale a dire Afghanistan-Pakistan ed Iraq(6).
Tutto ciò determina una serie di dilemmi per chi vuole impegnarsi sul serio a fianco delle vittime: è possibile assisterle e restare indifferenti alle ragioni della loro sofferenza? (Diceva il cardinale Helder Camara: “perché se do da mangiare ad un povero mi chiamano santo, mentre se mi chiedo perché è povero, mi chiamano comunista?”)
E ancora: è possibile intraprendere un’azione umanitaria a vantaggio degli oppressi senza rafforzare, consapevolmente o meno, il loro livello di subordinazione e oppressione o addirittura senza mettere in pericolo la loro sopravvivenza? E se la possibilità di portare l’aiuto umanitario dovesse comportare l’avallo, la giustificazione o addirittura la collaborazione con i violatori dei diritti umani e i responsabili o i complici dei drammi umanitari?(7)
Una proposta di soluzione viene da chi ha sviluppato forme di sostegno umanitario atte a contrastare le politiche di guerra, anche violando gli embarghi e aiutando i popoli stretti nella morsa delle potenze neocoloniali. Altri ritengono invece indispensabile tornare alla neutralità originaria della Croce Rossa. Ad ogni modo, se non si vuole soggiacere all’eterogenesi dei fini – lavorare ad un obiettivo ottenendo risultati del tutto diversi – non si può evitare di riflettere sulle modalità ed il contesto del nostro intervento.
P.S.: Appena finito di scrivere questa introduzione, ho saputo del progetto italiano della mini-naja. All’articolo 1 della legge che dà vita a questo istituto, che porterà ogni anno cinquemila ragazze e ragazzi nelle caserme a familiarizzare con armi e divise, il governo dichiara come obiettivo la «diffusione dei valori e della cultura della pace e della solidarietà internazionale tra le giovani generazioni»(8). Ogni commento è superfluo.

NOTE
1. Rapporto UNHCR “”.
2 Dati dell’United2009 Global Trends Nations Development Program e della Banca Mondiale (http://uk.oneworld.net/guides/poverty)
3 Marcello Flores, “Paradossi e problemi dell’azione umanitaria”, pubblicato su “Il Mulino” 5/2003, pp. 969-980
4 A cura di Antonello Calore, ”Guerra giusta? Le metamorfosi di un concetto antico”, Giuffrè 2003.
5 Giulio Marcon, “Le ambiguità degli aiuti umanitari. Indagine critica sul Terzo settore”, Feltrinelli 2002
6 Harvey P. e altri, “The state of Humanitarian System, assessing performance and program. A pilot study”, ALPNAC 2010.
7 Questi problemi si pone Marcello Flores in “Paradossi e problemi dell’azione umanitaria”, pubblicato su “Il Mulino” 5/2003, pp. 969-980, pur partendo da concezioni di fondo assai differenti.
8 Il Manifesto, 6 luglio 2010, pagina 7

da www.sumud.org