Un bilancio di sette anni di occupazione
«Iraq, la guerra è finita» (la Stampa), «Via i soldati Usa, in Iraq inizia la “nuova alba”» (Corriere della Sera), «Americani via dall’Iraq. “Ora la guerra è finita”» (la Repubblica).
Sono questi alcuni dei titoli enfatici che hanno accompagnato il mezzo ritiro americano dall’Iraq. Peggio di tutti, essendo al primo posto tra i giornali obamiani, il Manifesto con un «Go home» in prima pagina, solo un po’ temperato da un punto interrogativo – “guerra finita?” – a pagina 2.
Questo atteggiamento della stampa non stupisce. Del resto, cosa potevano fare i media della provincia italiana di fronte alle verità ed alle veline distribuite da Washington?
Due sono i punti sui quali insiste la propaganda mediatica. In primo luogo si presenta il ritiro avvenuto in questi giorni come se fosse totale. Certo, si riconosce che in Iraq rimangono diverse decine di migliaia di soldati Usa, ma si da per certo che anch’essi lasceranno la Mesopotamia entro il 31 dicembre 2011.
In secondo luogo ci si sofferma sui problemi che questo ritiro comporterà, sui possibili scenari di un conflitto interno che potrebbe acuirsi. Agli occupanti, ormai presentati come “ex”, si addebita semmai uno scarso interesse per i destini degli occupati “lasciati a se stessi”, non le evidenti responsabilità che hanno avuto ed hanno nell’alimentare lo scontro interconfessionale e non solo. Un modo, neanche tanto nascosto, per rimpiangere l’occupazione e per riaffermare la superiorità della civiltà occidentale e l’incapacità di autogoverno dei popoli mediorientali. Anche in questo caso niente di nuovo sotto il sole, ma va segnalato il perfetto allineamento dell’informazione di “sinistra” a questo schema interpretativo.
Ma quali sono i termini reali del “ritiro” americano? Qual è la sua logica? Quali le conseguenze? Cosa cambia nella strategia di Washington in Medio Oriente? Solo partendo da una risposta a queste domande si potrà tentare un bilancio della guerra scatenata da George W. Bush il 20 marzo del 2003.
Di che “ritiro” si tratta?
Lasciamo parlare le cifre: dopo essersi attestate attorno alle 130mila unità dal 2003 al 2006, le truppe statunitensi sono arrivate ad un massimo di 168mila nell’autunno 2007. Dal 2008, cioè dopo l’avvenuta spaccatura della resistenza irachena (per una sua analisi approfondita vedi l’articolo di Moreno Pasquinelli, Doppio salto nel buio del novembre 2009), è iniziata la loro progressiva diminuzione. I soldati a stelle strisce che erano ancora 145mila all’inizio del 2009, diventavano 100mila alla fine dello stesso anno, per poi scendere agli attuali 56mila, ai quali si aggiunge un numero imprecisato ma consistente di mercenari, i cosiddetti “contractors”.
Cinquantaseimila non è un piccolo numero. Ed è ridicolo che si dica che le loro mansioni attuali sarebbero ridotte all’addestramento (50mila) ed alla logistica (6mila). Quanti milioni di soldati iracheni da formare dovrebbero corrispondere ai cinquantamila “addestratori” americani?
E’ giusto, di fronte a queste cifre, parlare di ritiro? Evidentemente no. Più correttamente si dovrebbe dire che è stata attuata una consistente riduzione delle truppe, non un ritiro.
Con questo non intendiamo sottovalutare la portata di quel che sta accadendo, ma volendo stare ai fatti possiamo parlare soltanto di un “mezzo ritiro”. Un passo indietro reso inevitabile dall’impossibilità di controllare il territorio e di dominare il Paese come avrebbe voluto Bush, ma anche una mossa da contestualizzare all’interno dell’aggiustamento strategico operato da Obama per proseguire l’opera della precedente amministrazione. Proseguire, non rovesciare od abbandonare, il disegno strategico dei neocons: questa è la sostanza della dottrina obamiana. E questo è esattamente quanto non potranno mai capire gli obamiani di ogni latitudine, meno che mai quelli che popolano la nostra sfortunata penisola.
Ma, si dirà: “date tempo al tempo”, aspettiamo la fine del 2011 ed il ritiro sarà completato. Il problema è che questa data non è così certa come la si vorrebbe presentare. Davvero crediamo che gli Stati Uniti rinunceranno alle loro basi (alcune enormi) costruite in questi anni?
Non dimentichiamoci che nel 1945 gli americani se ne andarono dall’Europa, ma la riempirono di basi che sono ancora oggi al loro posto. Non scordiamoci che la stessa sorte toccò al Giappone, pure in ginocchio dopo Hiroshima e Nagasaki. E fu così anche per la Corea dopo la fine della guerra, avvenuta nel 1953. Più recentemente abbiamo avuto il caso del Kosovo, dove subito dopo la carneficina Nato del 1999 gli Usa hanno costruito la base di Camp Bondsteel.
Pensiamo che l’amministrazione Obama, che sta riempiendo di basi la Colombia e Panama, voglia rinunciare a quelle ben più strategiche piazzate nel cuore dell’Iraq?
Tutti sanno che la scadenza del 2011 potrà essere facilmente spostata. D’altra parte il dispositivo imposto da Washington prevede la possibilità di aumentare di nuovo le truppe in qualsiasi momento. Il patto raggiunto nel 2008 tra la Casa Bianca e Baghdad è pieno di ambiguità, al punto che gli iracheni lo chiamano “accordo per il ritiro”, gli americani “accordo sullo stato delle forze armate”…
E per capire qual è la reale situazione irachena basti dire che – alla faccia del ritiro! – il controllo dello spazio aereo del Paese rimarrà completamente in mano agli Stati Uniti. Dice niente questo “dettaglio” in vista di una possibile aggressione all’Iran?
La strategia di Obama in Medio Oriente
Il riaggiustamento strategico operato da Obama si è reso necessario di fronte alle difficoltà sul campo ed alla necessità di un maggior coinvolgimento degli alleati della Nato nelle guerre imperiali americane. A tale proposito non dobbiamo dimenticarci che, nel 2003, proprio la guerra all’Iraq aveva visto il punto di più acuta frizione tra gli Usa ed alcuni alleati europei (Francia e Germania in primo luogo).
Obama ha così assegnato la massima centralità alla guerra in Afghanistan (e di fatto in Pakistan), luogo in cui si gioca il ruolo planetario della Nato, ha proseguito ed accentuato le minacce all’Iran, ha continuato nella politica di pieno sostegno ad Israele. Com’è del tutto evidente, l’attuale amministrazione Usa non ha affatto rinunciato al controllo del Medio Oriente. E’ in questo quadro che va collocata la scelta di ridurre – ridurre, non certo azzerare – la presenza militare in Iraq.
Se poi guardiamo a questa scelta nell’ottica di un attacco all’Iran, tutto risulta ancora più chiaro. Non ci vuole molto a capire che, in quella prospettiva, è assai più vantaggioso poter disporre “soltanto” delle basi, che essere coinvolti nell’impossibile controllo del territorio iracheno. Anzi, è del tutto evidente che proprio un simile coinvolgimento renderebbe difficilmente praticabile l’avventura iraniana.
Il passo indietro di Obama è dunque volto a preservare i risultati ottenuti con l’occupazione, le basi in primo luogo. Una scelta che rimanda ad un bilancio dei sette anni di occupazione dell’Iraq, un bilancio che a Washington hanno fatto certamente da tempo.
Il bilancio di sette anni di occupazione
Anche se quello attuato è solo un mezzo ritiro, è comunque il momento di tratteggiare un bilancio sintetico di sette anni di occupazione militare americana, seguita alla presa di Baghdad del 9 aprile 2003.
Quali erano gli obiettivi dell’attacco deciso da Bush? Come sempre, quando si scatena una guerra di queste proporzioni, gli obiettivi erano molteplici, ma principalmente possiamo elencarne tre. Primo: controllare l’Iraq con la sostituzione di Saddam con un governo amico. Secondo: installare delle basi militari permanenti in un Paese giustamente considerato il cuore del Medio Oriente, anche per la necessità di rimpiazzare quelle saudite. Terzo, e più importante: fare dell’Iraq il tassello decisivo per controllare l’intero medio Oriente, chiave di volta per dominare il mondo.
Come si comprende, il raggiungimento del primo e del secondo obiettivo era la condizione per il conseguimento del terzo.
Qual è il bilancio di questa strategia dopo sette anni?
Né Bush né Obama sono riusciti ad insediare un governo iracheno affidabile per gli interessi americani. Certo, al-Maliki collabora con gli Usa, ma fino ad un certo punto. Sta di fatto che, sia pure in una situazione politica estremamente confusa (a quasi 6 mesi dalle elezioni del 7 marzo non c’è ancora il nuovo governo!), gli assetti politici di Baghdad risultano comunque più favorevoli a Teheran che a Washington. E nella sostanza questi rapporti di forza non paiono facilmente modificabili nell’immediato.
E’ probabile, se non certo, che gli Usa cercheranno ora di utilizzare i settori del baathismo più sensibili al richiamo della foresta della lotta ai persiani – ecco cosa potrebbe davvero innescare una ben più pesante guerra civile -, ma il risultato di questa scelta più che un rovesciamento del quadro politico avrebbe come scopo la perpetuazione di una situazione di estrema instabilità, una condizione se non altro utile per giustificare la permanenza di un elevato numero di soldati.
Se l’obiettivo del “governo amico” non è andato a buon fine, diverso, come abbiamo già visto, è il discorso sulle basi. L’Iraq è in una situazione disastrosa sia dal punto di vista economico che sociale, le spaccature politiche sono profonde, una parte del Paese, il Kurdistan, è di fatto uno stato nello stato. In queste condizioni di estrema debolezza è difficile pensare che il governo iracheno, qualunque esso sia, possa porre con forza la questione delle basi, rivendicando cioè la piena sovranità.
Questo sarà possibile in un futuro auspicabilmente non troppo lontano, ma è quasi impensabile oggi. E di certo gli Stati Uniti faranno di tutto affinché questa situazione di debolezza continui, così che il futuro non sia diverso dal presente.
Se il bilancio dei primi due obiettivi è in chiaroscuro, non può non essere altrettanto contraddittorio quello relativo al terzo. Il controllo dell’Iraq non è quello che avrebbe voluto Bush, ed Obama ha dovuto prenderne atto.
Ma la situazione sarebbe stata ben più sfavorevole agli imperialisti se la resistenza non si fosse divisa. Se anziché cadere nella trappola dello scontro interconfessionale, avesse prevalso la linea del fronte comune contro gli occupanti.
Il quadro uscito da sette anni di lotta è davvero contraddittorio. Gli americani non controllano l’Iraq, ma rimangono in Iraq. La strategia dell’occupazione ha perso, ma la resistenza non ha vinto. Al momento, dobbiamo esserne consapevoli, l’Iraq non è il Vietnam.
Il risultato storico della Resistenza irachena (nonostante tutto)
Fin qui la cruda, e crediamo realistica, analisi politica. Ma il riconoscimento degli errori e degli insuccessi della Resistenza non deve oscurare il risultato storico che essa ha conseguito.
Dalle lotte eroiche che ha condotto, dalle speranze alimentate specie nei momenti più alti (ad esempio nella primavera 2004), poteva uscire un’autentica vittoria popolare, un nuovo Iraq rifondato e realmente unitario. Ciò non è avvenuto, anche a causa di un terribile isolamento internazionale; un isolamento senza precedenti per una lotta di liberazione nazionale, un fatto di cui porta la colpa in grande misura una sinistra occidentale ormai largamente subalterna all’imperialismo.
Ma se l’Iraq di oggi non è figlio della Resistenza, il passo indietro a cui sono stati costretti gli Usa è invece la conseguenza di quella stessa Resistenza. Senza di essa oggi la Casa Bianca avrebbe ottenuto da un pezzo il pieno controllo dell’Iraq, e con ogni probabilità nuove aggressioni sarebbero già scattate da un pezzo. Se questo non è avvenuto lo dobbiamo innanzitutto agli eroici combattenti che hanno resistito di fronte alla spietata macchina da guerra americana.
Anche questo fa parte del bilancio di sette anni di guerra e di occupazione. Anzi, per molti aspetti, è la parte più importante di questo bilancio. Ed è la parte che spiega veramente la necessità per gli occupanti di rivedere la loro strategia. Insomma, anche se è un ritiro solo a metà, il ripiegamento delle truppe americane verso Bassora ed il Kuwait segna una fine (per quanto provvisoria) ben diversa dalla guerra del 1991 quando su quella stessa autostrada, ma in direzione opposta, 150mila soldati iracheni vennero sterminati per sperimentare le nuove armi di distruzione di massa in dotazione all’esercito degli Stati Uniti.
La Resistenza ha dunque fallito nei suoi obiettivi politici nazionali, ma ha dato un contributo inestimabile all’impantanamento del disegno di dominio planetario degli Usa. Un disegno che va avanti con Obama e che solo le resistenze popolari, insieme a quelle degli stati aggrediti, potranno davvero sconfiggere.
Pochi credevano davvero, specie dopo la guerra del 1991 e quella alla Jugoslavia del 1999, che fosse possibile opporsi alla macchina da guerra americana. La Resistenza irachena ha invece dimostrato che questa possibilità esiste, un esempio che già aiuta altri popoli (basti pensare all’Afghanistan) ed altri ne aiuterà a non piegare la testa davanti all’imperialismo.