Un bilancio ed alcune riflessioni sulla brigata di Sumud 2010

Sono trascorsi quasi due mesi da quando la brigata di Sumud è rientrata da Ein El-Hilweh, il più grande campo profughi palestinese nel Libano del Sud.

Sumud, giova ripeterlo, è una associazione di volontariato antimperialista, che si prefigge l’obiettivo di mostrare in modo concreto solidarietà ai popoli oppressi, vittime delle moderne strategie di dominio dei paesi più ricchi e (pre)potenti, contro le quali, seppur in condizioni difficilissime, queste comunità trovano sempre la forza di lottare e resistere per difendere la propria cultura, identità, valori.

La scelta di iniziare a lavorare a fianco del popolo palestinese è stata dettata dal fatto che la sopraffazione che questa comunità subisce, per durezza e durata nel tempo, riassume in sé le vicissitudini di tanti altri popoli e le lotte di liberazione che devono sostenere. In particolare, si sono scelti i campi profughi perché si sono trasformati in basi per la resistenza attiva, a fronte della diaspora (la Nakba del ‘48, in seguito nel ‘67) cui li ha sottoposti l’invasione sionista, che li ha dispersi elle zone limitrofe e per il mondo.

Ein El-Hilweh è un carcere a cielo aperto, i suoi abitanti sono privi dei più elementari diritti; poter fare qualcosa – seppur poco – per dimostrare che siamo al loro fianco,è stato il motivo fondamentale che ci ha spinto a scegliere Ein per le nostre prime due missioni.

Negli anni passati siamo entrati in contatto con Nashet, una associazione locale di giovani palestinesi e libanesi e, in accordo con loro, abbiamo dato l’avvio ad un progetto comune in più fasi.
L’estate scorsa i nostri volontari, mettendo alla prova le loro capacità e abilità, hanno ristrutturato un edificio, dono dell’FPLP a Nashet, per farne un centro sociale polifunzionale. Il lavoro, svolto a tempo record in soli 20 giorni, è stato un successo, quel centro è stato usato da giovani e giovanissimi di Ein per svariate iniziative culturali, e questa estate ha ospitato la nostra seconda brigata.

Lavori preliminari e composizione della seconda brigata

Organizzare una missione non è cosa semplice. Ha richiesto tempo e dedizione, un lavoro costante di informazione e di dialogo con i referenti locali, l’organizzazione nei minimi dettagli di tutti i lavori da svolgere, cercando il più possibile di prevenire i problemi logistici, inevitabili nelle condizioni di un campo profughi. Dopo una serie infinita di mail, telefonate e riunioni, il progetto è stato definito. Per rendere più fruibile il centro “Sumud”, si è pensato di arredarlo con mobili da restaurare in loco, e soprattutto di installarvi una rete informatica con tanto di pc nuovi, una finestra sul mondo per chi ne è tagliato fuori. Inoltre, l’idea che ha attratto il maggior numero dei partecipanti alla missione, quella di girare un documentario sulle condizioni di vita dei profughi di Ein.

Si è quindi dato inizio ad una serie di attività quali cene sociali e concerti per raccogliere i soldi necessari, visto che Sumud si autofinanzia. Ci siamo messi all’opera non solo qui in Italia, ma anche in Austria, dove, in seguito alla missione dello scorso anno, è nato un altro gruppo di Sumud. Unendo forze e persone si è raccolta un bella sommetta e si è composta la nuova brigata internazionale.

Al lavoro

Siamo partiti il 22 Luglio da Roma Fiumicino, arrivando a Beirut all’alba del 23, e riuscendo ad entrare ad Ein solo nel pomeriggio a causa di problemi burocratici inerenti i nostri permessi. La componente austro-tedesca ci ha raggiunto due giorni più tardi, e, una volta riunita la brigata, ci siamo messi all’opera, dividendo i compiti in base ad interessi e capacità.

Il lavoro manuale di restauro, purtroppo, è saltato del tutto, non essendo stato possibile reperire materiale idoneo su cui lavorare. Per fortuna che gli interessati a questo compito erano solo tre, e si sono facilmente adattati ad altre funzioni. Per il resto, con svariate difficoltà, tutto è stato eseguito al meglio.

Siamo stati ‘iniziati’ ai lavori di ripresa per il nostro documentario dalla regista egiziana Arab Lotfi, con cui ci eravamo messi in contatto durante la fase di preparazione. Con lei avevamo concordato anche l’organizzazione di workshop diretti agli adolescenti del campo, affinché imparassero ad usare la telecamera e un nuovo linguaggio per esprimersi e comunicare. L’intuizione è stata giusta. E’ stata una grande soddisfazione vedere questi ragazzi darsi da fare, discutere fra loro e con quelli di noi che si sono occupati di questa parte dei lavori, per realizzare dei corti di cui sono stati i protagonisti. Hanno raccontato aspetti della loro vita da adolescenti, ma profughi: voglia di vivere e nessun mezzo per farlo decentemente, sogni e speranze. Improvvisatisi attori, scenografi, registi e anche produttori. Terminati workshop e riprese, si è passati al montaggio, grazie anche ai computer acquistati nel frattempo ed ai programmi installati dai nostri ‘esperti informatici’.  Il video con i cinque corti è stato proiettato, in prima visione, l’ultima sera, durante la festicciola di saluto,a cui hanno partecipato diverse personalità del campo. Ci sono stati applausi e grandi apprezzamenti e soprattutto altri giovani si sono fatti avanti chiedendo di partecipare ai prossimi workshop.

La realizzazione della sala multimediale è quella che ha portato via più tempo e fatica. Consapevoli che la tecnologia e le comunicazioni sono importanti in un luogo dove l’isolamento è così forte, con caparbietà siamo andati avanti, per garantire ai nostri amici la possibilità di apprendere l’uso dei computer e accedere ad internet.

Abbiamo sfruttato al massimo il modesto budget a nostra disposizione acquistando un computer nuovo completamente accessoriato ed installandolo come ‘cuore’ della rete, e, con poche centinaia di dollari, tre  vecchi computer completi di monitor e tastiere. Questi ultimi probabilmente in Europa sarebbero considerati ferri vecchi di nessuna utilità, infatti finiscono sempre per riempire i negozietti informatici di Sidone, che si industriano per rimetterli a nuovo e rivenderli ai tanti che non possono permettersi un pc nuovo di zecca. Grazie all’adozione di tecnologie open source (Linux), la rete e i programmi installati funzionano benissimo: il loro utilizzo è subordinato solo alla frequente mancanza di corrente elettrica.

Arriviamo ora al nostro documentario “Vogliamo Vivere”, girare il quale è stato non solo interessante ed istruttivo, ma anche divertente. Telecamere alla mano, divisi in gruppi, ci siamo ritrovati a girare per le stradine del campo, sempre accompagnati dai ragazzi di Nashet, i nostri traduttori ufficiali, alla ricerca di persone disposte a farsi immortalare nel loro lavoro quotidiano, a concederci un’intervista per spiegare la  vita quotidiana di un profugo, le possibilità di sopravvivenza, speranze per i giovani figli, come fanno fronte alle enormi carenze di quelli che dovrebbero essere i servizi di base, la sanità, la scuola, e poi la mancanza di lavoro… Non tutti avevano un buon approccio con le videocamere, alcuni preferivano non farsi riprendere, ma mai nessuno ci ha mostrato ostilità, erano sempre pronti, a telecamere spente, a darci tutte le informazioni che chiedevamo per capirne di più: si notava la voglia di parlare, di aprirsi e raccontare ciò che hanno vissuto. Una signora, in particolare, sopravvissuta al massacro di Sabra e Shatila, non voleva farsi intervistare, ma, avendo capito le nostre buone intenzioni, è andata a chiamare le sue giovani vicine di casa meno inibite di fronte agli obiettivi. Facendoci accomodare nella migliore delle stanze di casa sua, ci raccontava come, subito dopo la strage del settembre 1982, fu portata proprio ad Ein El-Hilweh, dove pensava sarebbe rimasta un mese, il tempo che la situazione diventasse meno rovente. Sono passati, da quel giorno, 28 anni, e la signora non ha mai più fatto ritorno a Shatila, dove ha ancora amici e parenti. Carcerata ad Ein, ha cresciuto da sola i suoi figli.

Forse, inizialmente, questo gruppo di occidentali che si aggiravano per le vie, ha suscitato un po’ di timore e ritrosia, ma il motivo della nostra presenza si è presto sparso per tutto il campo, e siamo stati accolti da tutti con grande benevolenza. Per i bambini siamo stati una vera novità, si mettevano in mostra pronti a farsi fotografare e, curiosissimi, volevano sapere tutto di noi. Quando la sera rientravamo in sede, ci dedicavamo al lavoro di revisione dei materiali ripresi, ciascun gruppo organizzava  i giri del giorno dopo. Abbiamo raccolto moltissime interviste e filmati e foto, adesso ci aspetta la parte più difficile, stiamo montando il tutto e quando questa fase sarà espletata, dovremo passare alle traduzioni dei dialoghi, fatti in lingua araba ed inglese, per inserire i sottotitoli. Siamo a buon punto, e speriamo di poter mostrare presto, a tutti, il nostro primo documentario. Inutile ripetere che non siamo del mestiere, ma siamo orgogliosi di ciò che stiamo realizzando.

Incontri ed escursioni

Il programma delle nostre attività prevedeva anche una serie di incontri con i rappresentanti dei partiti  e  delle organizzazioni politiche del campo oltre a visite ai luoghi simbolici della lotta di Resistenza. Rimandiamo al nostro sito e al blog chi volesse leggere i dettagliati resoconti scritti mentre ci trovavamo in loco, nonché per le interviste al portavoce della Jihad Islamica in Libano, Abu Obaida Shakir, a Leyla Khaled e al salafita Jamal Khattab. Non abbiamo incontrato solo loro, diverse sono state le volte in cui ci siamo confrontati con l’FPLP, poi anche il portavoce dentro il campo di HAMAS, il Movimento popolare Nasseriano, Al-Fatah, e tanti altri, di cui abbiamo già detto. Qui ci preme sottolineare le impressioni dei nostri volontari e le idee e discussioni che sono nate. Ci ha favorevolmente stupito il fatto di essere da tutti considerati quasi come degli ‘ambasciatori’ della causa palestinese, portavoce nei nostri paesi, e che ci ringraziassero per le nostre iniziative; evidentemente avevamo sottovalutato l’importanza che dei semplici volontari occidentali possono acquisire agli occhi di chi tenta con ogni mezzo di non passare inosservato e non farsi dimenticare. Cosa più importante, abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare dai protagonisti le loro posizioni, la loro visione dei fatti, senza filtri o censure mediatiche. Forse qualche volta, su questioni delicate come quella dei kamikaze o l’immagine della donna nell’Islam, ci hanno risposto in modo diplomatico, ma in generale tutti concordano nel dire che Islam è sinonimo di Pace, Sicurezza, Stabilità, che non si scagliano contro Israele per antisemitismo o altro, ma perché Israele è lo stato aggressore, che li ha cacciati dalla loro terra, che tenta in tutti i modi di eliminarli come popolo. Resistere è quindi un diritto e un dovere. Non c’è differenza fra partiti e movimenti di tipo ideologico, semmai divergenza nei metodi e nella tattica. Anche le nuove generazioni sognano la Palestina, il Ritorno è l’obiettivo, si riprendano ciò che gli è stato impunemente e barbaramente tolto.

Dietro le quinte

Per tutti noi, compresi quelli che andavano giù per la prima volta, l’esperienza è stata  bellissima, formativa, nonostante le tante difficoltà incontrate. Abbiamo imparato a nostre spese che una brigata deve essere ben organizzata, ma soprattutto ben strutturata con una precisa divisione dei compiti, per evitare sovraccarichi inutili a danno di pochi. Noi avevamo 4 capi-brigata, uno per gli italiani (che ha partecipato alla missione dello scorso anno) e tre per gli austro-tedeschi, ma non abbiamo pensato a distribuire altre cariche, per cui un po’ tutti facevano tutto, senza snellire il lavoro. Avremmo dovuto pensare alle traduzioni, i nostri referenti di Nashet parlano in inglese, non invece tutti i volontari, specialmente gli italiani; inoltre alcune interviste  erano in arabo, vi lasciamo immaginare la sensazione di non poter essere parte attiva del dialogo e dover poi chiedere a questo o quello cosa fosse stato detto.

Bisognava occuparsi anche della comunicazione, sarebbe stato più facile assegnare a  due o tre persone il compito di stendere i resoconti e scrivere gli articoli. Queste sono cose preliminari, che vanno studiate prima della partenza, ma dagli errori si può solo imparare e diremo grazie agli amici di Nashet che con infinita pazienza ci hanno spiegato e rispiegato ciò che non era chiaro, traducendo in e dall’arabo. Altre cose non si possono prevedere, devi far fronte alle necessità del momento, potevi aver bisogno di internet e l’elettricità non arrivava mai, dovevi usare il bagno e l’acqua non c’era, parlare con l’estero era difficilissimo, dovevi provare e riprovare fino a quando prendevi la linea, senza contare che per muoversi bisognava essere sempre accompagnati e guai a dimenticare il passaporto. Per i profughi questa è la vita quotidiana. 

Vorremo spendere altre due parole per spiegare il nostro approccio con l’Islam. Siamo abituati ai rintocchi delle campane, ma sentire il muezzin che, alle ore stabilite, compresa la notte, richiamava alla preghiera, per qualcuno ha significato l’insonnia! Di giorno invece, nessun problema. Vedere le donne con il capo coperto, non ci ha creato né paura né fastidio, è la loro cultura, e anche le nostre ragazze hanno messo il velo per l’incontro con il salafita Khattab, un atto di rispetto. Non abbiamo visto oppressione o barbarie nei confronti di nessuno, semmai da parte di Israele e dei nostri paesi complici.

 
Conclusioni

Al termine di questo lungo resoconto, vogliamo dire che siamo vicini più che mai al popolo palestinese, e faremo il possibile per sostenerne i diritti inalienabili. La situazione è grave: da ormai due anni un blocco genocida imposto da Israele contro ogni legge internazionale e senso di umanità sta strangolando la popolazione di Gaza. Solo la rottura del blocco può restituire aria, luce e vita agli internati nel ghetto. Per questo motivo abbiamo appoggiato la prima Freedom Flotilla, la cui missione – pur a carissimo prezzo – ha aperto le prime crepe nella barriera sotto gli occhi cinici e freddi della cosiddetta “comunità internazionale”.

Ora ci stiamo adoperando assieme a molti altri per dar vita alla seconda Freedom Flottilla. Un nuovo trasporto umanitario di uomini e aiuti, lanciato contro il blocco per spezzare l’atroce isolamento dei Palestinesi di Gaza e portar loro il frutto concreto della nostra solidarietà. In vista di una Palestina senza più muri né check point!

da http://www.sumud.info/2010/10/brigata-2010-e-tempo-di-bilanci.html