Nichi Vendola o del populismo imperfetto
La notizia è fresca di stampa: «Bersani e Vendola hanno raggiunto l’accordo. In un ristorante su via dei Fori Imperiali [ovviamente all’ombra del Cupolone, Nda] hanno convenuto che le primarie di coalizione si faranno e che il leader di Sel sarà uno dei candidati in lizza». Dopo i patti della “crostata”, del “caminetto” e recentemente, quello della “coda alla vaccinara” tra Bossi e Alemanno, abbiamo il “patto della trippa”. E siccome il tema di cui vogliamo parlare è quello del populismo, si noti come, anche questa volta, gli accordi sono stati presi nella camera caritatis di un ristorante (l’incontro doveva restare segreto). Il tutto fottendosene bellamente delle istanze democratiche dei propri partiti, senza consultare i rispettivi organismi collegiali. Più che dirigenti di partito qui siamo in presenza di dignitari, capibastone, di autentici monarchi. La qual cosa ci introduce al punto: cos’è il populismo? Nichi Vendola lo è?
La riflessione ci è stata suggerita da una chiacchierata tra Fausto Bertinotti e Serena Danna (Il Sole 24 Ore del 14 ottobre), svoltasi nello studio che il primo conserva alla Camera dei Deputati. L’occasione per il colloquio è stata fornita dall’uscita dell’ultima fatica di Bertinotti, un libro intitolato Chi comanda qui (Edizioni Mondadori, guardacaso!).
Bertinotti ricapitola la storia recente dell’Italia e di come l’ingresso in politica di Berlusconi nel 1994 abbia cambiato tutto. In che senso Berlusconi ha potuto cambiare tutto? Anzitutto per avere sdoganato e reso egemone il “populismo”, diventato la cifra del fare politico. Un dato talmente comune e pervasivo che Bertinotti afferma: «Grillo, Di Pietro, Travaglio … non sono riusciti ad addomesticare il populismo, anzi lo cavalcano sfruttando la rabbia dei cittadini». Mentre del Governatore pugliese, il nostro esclama: «Nichi Vendola è riuscito ad addomesticare le pulsioni anti-politiche e ad incanalare le energie alternative in un progetto reale».
Sono i Grillo e i Di Pietro forme e manifestazioni del populismo? Ma ovviamente sì. Ha ragione Bertinotti ad affermare che Vendola, invece, non sarebbe un leader populista? Ovviamente no. Per dimostrare l’una e l’altra cosa occorre prima intendersi su cosa il populismo, “questo sconosciuto” avrebbe detto Renzo Arbore, sia.
Prima però ci corre l’obbligo di fare due precisazioni. Anzitutto segnalare quanto la metafora usata da Bertinotti sia contraddittoria e al contempo grandemente rivelatrice. Contraddittoria perché pur addomesticata, la bestia non cambia la sua natura, pur sempre populista resta. Rivelatrice perché lascia intendere, appunto, che il populismo, per il nostro, non andrebbe combattuto quanto, appunto, “addomesticato”, ergo, cavalcato (per quale ragione altrimenti ci si dedica all’addomesticamento?). La qual cosa è infatti ciò che caratterizza il vendolismo, che è un leggiadro cavalcare al trotto invece che un andare a spron battuto.
La seconda precisazione: il populismo non consiste certo nel mero “sfruttare la rabbia dei cittadini” — se no ogni forma di radicalità politica lo sarebbe, compresa quella, ad esempio, del Bertinotti che fu.
Ci serve dunque una griglia interpretativa, dei criteri non aleatori, per attestare cosa sia il populismo. Proviamo a tratteggiare il ritratto del populismo.
(1) Demagogia. Il significato che questo sostantivo aveva presso gli antichi greci resta valido. Parliamo dell’accattivarsi le simpatie delle masse popolari con promesse di miglioramenti economici o di ascesa nella scala sociale; promesse che il demagogo sa essere irrealizzabili ma che esibisce allo scopo di ottenere consenso, che in una democrazia sostanzialmente censitaria e capitalistica come l’attuale è una leva decisiva per ottenere il potere.
(2) Dissimulazione. Il leader o la forza populista devono essere abili nell’occultare, non solo le loro reali finalità, ma pure le mosse politiche che hanno in mente per raggiungerle . Essi nascondono il loro appetito primario, il potere e il successo, dietro a discorsi fumosi e frasi fatte sulla difesa del “bene comune”, degli “interessi nazionali”, di questa o quella comunità o territorio, pronti a coalizzarsi con chiunque, e ad utilizzare ogni occasione si presenti pur di guadagnare posizioni nel mercato politico. La menzogna e la falsificazione sono dunque fattori costitutivi del populismo.
(3) Opportunismo. La convenienza tattica e non i principi muovono la prassi del populista. Egli può quindi virare a destra o a sinistra, oscillando tra le classi fondamentali, a seconda di come tiri il vento e dei rapporti di forza. Il populista non si impicca quindi mai, né ad una formula né ad alcuna alleanza. Non muove mai in linea retta ma si adatta al terreno.
(4) Mimetismo. Essendo il feedback con le masse (anzitutto quelle scontente, il che ci dice che il populismo ingrossa le sua file nei periodi di crisi sociale) un suo punto di forza, il populismo si distingue per la sua indifferenza ad ideologie prefissate, segue piuttosto il flusso, accogliendo gli impulsi della società civile per dargli rappresentanza politica e istituzionale. Rappresentando strati sociali impoveriti dalla crisi e di norma delusi dalle sinistre, esso incorpora istinti prepolitici, egoistici e sicuritari.
(5) Bonapartismo. Il bonapartismo, che ebbe i suoi natali in Francia nel secolo XIX dopo il fallimento della Rivoluzione del 1848, fu una la forma primordiale di populismo moderno o, se si preferisce, la forma moderna di cesarismo. Davanti alla rissa tra destra e sinistra, alla impossibilità di queste di averla vinta e sull’onda del riflusso della mobilitazione popolare, Napoleone III si atteggiò a “Salvatore della Patria”, a giustizialista e difensore degli oppressi, ad arbitro tra le due classi fondamentali in lotta.
(6) Americanismo. Il populismo contemporaneo assimila il peggio della politica nordamericana. Anzitutto la modalità personalistica e leaderistica del messaggio. Prima ancora che il contenuto del messaggio stesso conta la persona nella figura del leader. Di qui i meccanismi mutuati dagli USA, a seconda dei casi, della telepredicazione, del webmarketing politico, dell’uso di codici e linguaggi presi dalla strada o dal mondo dello spettacolo, dei comici e degli anchormen. L’uso di meccanismi di selezione dei dirigenti o dei rappresentanti brutalmente verticali, paternalistici e monarchici, di cui le cosiddette “primarie” sono un’espressione solo apparentemente virtuosa. Il tutto a sancire e cristallizzare il distacco siderale tra il leader e la base, chiamata solo a sfilare, mai a partecipare veramente all’elaborazione delle decisioni.
Se quanto diciamo è giusto, va da sé che non esiste una forma univoca di populismo. Esso è una modalità flessibile, che può essere infatti declinata in molteplici forme. Tornando a Vendola, egli, per usare la metafora bertinottiana, che lungi dell’essere assolutoria è autoaccusatoria, deliberatamente cavalca la tigre del populismo. Combatte il berlusconismo sul suo stesso terreno: partito personale, lista personale, rapporto tele-comandato con i cittadini.
L’ha addomesticata? Sì, certo, piegando il populismo ad un disegno politico neoulivista, interclassista e pseudo-spiritualista di terza mano. La sua narrazione seducente, di Vendola, le sue affabulazioni catto-comuniste, il suo stile politicamente corretto, contengono dosi di mistificazione e di ipocrisia pari solo alla vuotezza delle sue proposte politiche. Un populismo imperfetto.