Ultima parte dell’intervista di Khaled Mesh’al
(le prime due parti di questa intervista sono state pubblicate il 2 ed il 12 ottobre)

Che contributo ha dato Hamas al jihad e alla lotta? Che cosa distingue il suo modello di resistenza?

Occorre innanzitutto sottolineare che Hamas in quanto movimento di resistenza contro l’occupazione sionista è parte naturale e autentica dell’esperienza della lotta palestinese, una sua estensione e uno dei suoi cicli, cominciato un centinaio di anni fa con la prima ribellione e il primo martire, con tutte le sue icone, i leader e i loro grandi sforzi – nonostante alcune avverse circostanze del loro periodo. Si tratta fra gli altri di persone quali ‘Izzeddine al-Qassam, Haj Amin al-Husseini, Farhan as-Sa’adi, Abd al-Qader al-Husseini, fino alla contemporanea rivolta palestinese sollevata da tutte le sue fazioni, forze, leadership e personalità militanti. La marcia della lotta palestinese continua ancora oggi, grazie a Dio, e continuerà finché gli obiettivi del ritorno dei profughi e della liberazione dall’occupazione sionista non verranno realizzati.

Ciò vuol dire che Hamas, in quanto movimento di resistenza, non è privo di radici nel deserto, ma è parte di un tutto. È parte della storia militante e della marcia per il jihad del nostro popolo – piena di sacrifici, sfide, idee, pazienza, tenacia e determinazione a proseguire e superare tutti gli ostacoli, le sfide e le circostanze avverse e sfavorevoli, finché l’ultimo obiettivo non verrà raggiunto, a Dio piacendo.

Questo senso di appartenenza e di continuazione ha infuso in Hamas – così come in altre forze della resistenza palestinese – l’eredità di quella storia e la sua originalità, il suo spirito e la sua identità specifica, e ci ha fatto abbracciare questa lunga e ricca esperienza e beneficiare delle sue varie fasi, con tutti i suoi successi e le sue conquiste, insieme a qualche fallimento. Per noi e il nostro popolo, simili esperienze sono una ricca e valida riserva. La scelta del nome del martire ‘Izzedine al-Qassam per la nostra ala militare e le sue brigate non è che un’espressione e una manifestazione di quest’affiliazione.

Affermare questo fatto in questa sede è per noi necessario e di grande importanza, se vogliamo conoscere sia le nostre radici e i nostri fattori di potere reale, sia le nostre vere dimensioni e la nostra posizione specifica in questa lunga marcia. Appartenere a una tale storia e a un tale percorso, se da un lato infonde nelle persone o nei movimenti la forza e la sicurezza di sé, necessarie soprattutto nei momenti difficili, dall’altro ispira in loro l’umiltà necessaria e il rispetto per il ruolo degli altri. Noi e agli altri siamo parte di questo percorso benedetto; non siamo i primi e non saremo necessariamente gli ultimi.

Noi e agli altri costruiamo sull’esperienza dei nostri predecessori, ne traiamo dei benefici, e quindi creiamo le nostre esperienze con i loro alti e bassi, interagendo con chi ci accompagna nella marcia. Tutto questo rappresenterà l’eredità delle future generazioni, che reggeranno la bandiera e continueranno la lotta fino alla conquista della vittoria e della liberazione, se Dio vorrà. Questo è l’obiettivo al quale tutti avranno concorso – anche se non saranno testimoni del risultato finale.

Ci siamo sforzati di plasmare il nostro modello di resistenza, che abbiamo istituito come contributo a questa grande lotta, e – tramite questo – abbiamo voluto aggiungere qualcosa di notevole alla marcia. Abbiamo radicato in essa una moltitudine di politiche, norme e concetti importanti e necessari, e le abbiamo apportato una quantità di spirito, idee, perseveranza e determinazione.
Alcune delle visioni, dei concetti e delle politiche più degni di nota sono:

Primo: la resistenza è il nostro mezzo per ottenere l’obiettivo strategico, ovvero la liberazione e il ripristino dei nostri diritti e la fine dell’occupazione sionista della nostra terra e dei nostri luoghi sacri.

La resistenza, vale a dire, è una strategia di liberazione, e l’asse principale della nostra attività in quanto movimento di resistenza, e non rappresenta una semplice scelta da parte nostra. È la spina dorsale del nostro progetto. Nonostante l’importanza del nostro programma e delle altre attività che vengono svolte nel corso della realizzazione del programma del movimento – come l’attività politica, popolare, sociale, caritatevole ed economica -, il vero valore e impatto di queste attività nel servire gli obiettivi riposano sulla loro posizione all’interno del contesto della resistenza in quanto programma chiave, e del sistema di lavoro del quale la resistenza è la colonna portante. Questo perché noi siamo un movimento di resistenza, che si oppone a un’occupazione militare coloniale avversa alla nostra esistenza, per cui è normale che la resistenza armata e onnicomprensiva sia la base e il fattore decisivo in questo confronto.

Secondo: la resistenza per noi è un mezzo – e non un fine – al servizio degli obiettivi; non è resistenza per la pura resistenza. L’elaborazione del concetto di “resistenza” fine a se stesso incarna molti errori di comprensione, di visione, di atteggiamento pratico e di comportamento, e rappresenta un passo falso nel processo decisionale e nella valutazione dei vantaggi.
Sì, la resistenza è molto importante, e un asse fondamentale del nostro progetto, ma non è l’obiettivo. È il mezzo e il modo per raggiungere lo scopo, e uno strumento strategico per la liberazione.

Terzo: “Hamas” non è un gruppo militare, ma un movimento di liberazione nazionale che copre ogni ambito, e il cui asse principale e mezzo strategico per la liberazione e la realizzazione del progetto nazionale palestinese è la resistenza. Allo stesso tempo, il movimento lavora in altre aree, e ha una visione politica e degli scopi propri. È un movimento dal basso, consapevole dei problemi del suo popolo in patria e fuori, che difende gli interessi del suo popolo e cerca di servirlo il più possibile in tutti gli aspetti della vita quotidiana.

Quarto: abbiamo limitato la nostra resistenza alla sola occupazione israeliana. La nostra lotta è contro il nemico che occupa la nostra terra, abusa del nostro popolo e invade i nostri luoghi sacri – e contro nessun altro. Non abbiamo fatto resistenza nemmeno a chi sosteneva i nostri nemici e forniva loro tutti i mezzi di forza e le armi mortali che uccidono il nostro popolo. Abbiamo anche adottato la politica di confinamento della resistenza alla Palestina, e non al di fuori – non per esserne incapacitati, ma sulla base di un’accurata stima dei vantaggi, e un bilanciamento delle diverse considerazioni.

Quinto: adottiamo chiaramente la politica di fare uso delle armi e della forza solo contro l’occupante e il nemico esterno che ci attacca; questa è resistenza legittima. Ciò significa non utilizzare le armi e la forza né nelle questioni domestiche, né nell’affrontare dispute politiche e idelogiche. Le dispute a livello nazionale vanno risolte attraverso il dialogo, il consenso e l’arbitrato del popolo, attraverso la democrazia e l’urna elettorale.

I tragici eventi verificatisi qualche anno fa nella Striscia di Gaza non rappresentarono un allontanamento da questa politica, trattandosi di un caso del tutto diverso. Allora vi fu un partito palestinese che respinse il risultato delle elezioni e cercò di capovolgerlo, e cioè di capovolgere la legittimità palestinese, e purtroppo collaborarono con il nemico sionista e gli americani e fecero uso delle armi contro di noi. È nostro diritto naturale difenderci quando vi siamo costretti, soprattutto considerando che lo facevamo dalla posizione di un governo legittimo, formato in seguito a elezioni giuste e democratiche, che furono approvate dall’eletto Consiglio legislativo.

Dall’altro lato, quando fummo all’opposizione dal 1994 al 2006, e nonostante l’Anp avesse arrestato migliaia dei nostri membri e li avesse crudelmente torturati, sebbene avesse perseguitato la resistenza, le sue armi e i suoi uomini, e avesse coordinato (come continua a coordinare) le operazioni di sicurezza con il nemico sionista, noi non reagimmo facendo uso delle armi o della forza contro di essa, e concentrammo la nostra resistenza sul solo nemico sionista. Adottammo una politica delle mani basse e limitammo la nostra opposizione all’Anp ai soli mezzi pacifici politici e popolari.

Sesto: abbiamo adottato la politica di non impegnarci in guerre territoriali nella regione, contrariamente a quanto altri hanno fatto in precedenza. Non abbiamo mai impiegato la forza e le armi contro alcuno Stato o partito arabo, anche se ci avevano nuociuto e assediato, o se avevano arrestato o torturato i nostri fratelli, o pugnalato la resistenza alle spalle, o incitato a combattere contro di noi. Gli arabi sono i nostri fratelli e la nostra famiglia, e rappresentano la nostra profondità strategica; non possiamo quindi far loro del torto, anche se loro ne hanno fatto a noi. Ci siamo impegnati in questa politica negli ultimi anni, e vi rimarremo impegnati, se Dio vorrà, perché la nsotra battaglia è esclusivamente contro il nemico sionista.

Settimo: nel costruire la resistenza, ci siamo affannati a focalizzarci sulla formazione religiosa, educativa, psicologica e intellettuale degli attivisti, assicurando un alto grado di disciplina nella capacità organizzativa e nel comportamento, oltre a un forte impegno nelle regole religiose e morali della resistenza, e sviluppando in loro la tenacia e l’abnegazione in circostanze estreme. Abbiamo inoltre formato la loro coscienza e chiarezza d’intenti, la loro sincerità negli scopi e l’unione delle dimensioni della religione e della nazione, in modo da sviluppare un forte incentivo nell’intraprendere il percorso del jihad e della resistenza. Il combattente lotta contro il nemico occupante, a difesa della sua patria e dei luoghi sacri, del suo popolo e della sua nazione, della sua famiglia e del suo onore.

Per quanto riguarda il contributo del movimento al jihad e alla lotta, occorre notare un punto fondamentale: il movimento di Hamas, grazie a Dio, è riuscito a costruire e a rinforzare la sua attività di resistenza pur essendo nato in un periodo difficile, in un momento nel quale molte condizioni obiettive e  molti fattori necessari al successo delle rivolte e dei movimenti di liberazione stavano venendo meno. Il più rilevante di questi è la fine della Guerra Fredda, l’assenza di un alleato internazionale e l’emergere di un sistema internazionale basato sull’unipolarità degli Stati Uniti d’America, il principale alleato dello Stato sionista, seguito dall’entrata del mondo nella “guerra al terrore”, e dall’accordo sull’incolpare l’Islam e i movimenti di resistenza.

Oltre a ciò, anche se questo ha diverse altre implicazioni, vi è il fatto che la resistenza in Palestina sta subendo da tempo un assedio soffocante, e viene privata di un vicinato amichevole che possa fornire profondità strategica e logistica, oltre a una base sicura che permetta la libertà di movimento. Tutto questo ha portato a difficoltà estreme nella continuazione della lotta armata tale qual era prima, e nella disponibilità di sostegno logistico alla resistenza in patria e fuori.

Alla luce di questa grande sfida, e al fine di proseguire nel progetto di resistenza e superare gli ostacoli e gli embargo, il movimento si è concentrato su una strategia di estensione della partecipazione del popolo palestinese in patria, e sul suo coinvolgimento nella resistenza e nel confronto [con il nemico]; cominciando con i lanci di pietre, per passare alla creazione di nuovi metodi durante la prima e seconda Intifada – alle quali parteciparono tutti, dando così il via a una nuova fase della lotta palestinese – e a nuove forme di resistenza e di confronto aperto con l’occupazione.

Un’altra strategia di autosufficienza in patria è stata ugualmente adottata in termini di reclutamento, addestramento, fornitura di armi e manovre, facendo intanto ogni sforzo per ricercare quanto più possibile armi e sostegno finanziario e tecnico dall’estero. Poi, quando l’embargo si è intensificato ulteriormente, è emersa l’idea di fabbricare gli armamenti all’interno, dai materiali grezzi disponibili.

Così abbiamo accettato il nostro compito di fronte a queste sfide enormi, a quest’assedio e a queste persecuzioni, e l’abbiamo affrontato in modo coraggioso e risoluto tramite l’innovazione, la creatività, la diversificazione, l’autonomia e la fiducia in Dio in ogni circostanza, continuando a cercare amici e alleati. Ci siamo detti che, pur essendo rimasti soli sul campo e pur avendo perso ogni sostegno da parte degli altri, avremmo persistito nella nostra resistenza, senza rinunciarvi né porvi fine, e continuato a sollecitare la nostra nazione ad appoggiarci e ad adempiere insieme a noi a questo dovere onorevole, citando le parole di Dio Onnipotente al Profeta (pace su di lui): “Tu lotterai per la causa di Dio; tu sei responsabile solo di te stesso; e ispirerai i fedeli a fare ugualmente. Potrebbe accadere che Dio neutralizzi il potere di coloro che non credono. Dio è molto più potente, e molto più forte nella sua capacità dissuasiva” (Sura 4, versetto 84). Questo lo dicevamo pur essendo convinti e certi della fedeltà della nostra nazione e del suo impegno a non abbandonare le sue responsabilità nei confronti del problema centrale della Palestina e del confronto con il sionismo. La nostra nazione si rende chiaramente conto dell’essenza del movimento di Sion e del pericolo che pone alla regione e al mondo.

Un altro apporto di Hamas, in termini di jihad e di lotta, è l’innovazione nella resistenza e nei suoi metodi, nelle sue tattiche e nei suoi strumenti, come l’estensione delle operazioni di martirio e il loro sviluppo in armi letali contro il nemico, che colpiscono nel cuore della sua sicurezza. Un altro esempio è la fabbricazione di armi a livello locale e la sua trasformazione in un progetto reale su cui fare affidamento, anche se in via provvisoria, vista la difficoltà di ricevere armi dall’esterno. L’esempio più notevole al riguardo è la fabbricazione di armi che in precedenza erano facili da eludere, a causa della loro semplicità e del raggio e dell’efficacia limitati, ma che poi sono evolute, diventando un vero disturbo per il nemico, e accrescendo il loro impatto sulla sua sicurezza.

Un altro contributo importante è lo sviluppo delle capacità della resistenza di fronte alle incursioni israeliane, e il successo nel difendere le aree e le città palestinesi seguendo l’illustre modello di Gaza e il tentativo eroico del campo di Jenin, dove tutti i metodi convenzionali furono impiegati e coadiuvati dall’uso delle gallerie su larga scala, a scopo di difesa e di offesa. La tattica si è così evoluta in una vera e propria guerra, dove il nemico ha subito una disfatta e i suoi obiettivi sono stati frustrati – come nella guerra lanciata sulla Striscia dal nemico sionista nel 2008-2009, che fu la guerra più grande combattuta da Israele su terra palestinese.

Da citare è anche il miglioramento dei tentativi di conquistare e liberare parte dei territori. La resistenza palestinese, con le sue ali militari, le sue operazioni di martirio e l’impatto significativo della seconda insurrezione del nostro popolo, è stata in grado di costringere il nemico sionista a lasciare la Striscia di Gaza e a smantellare gli insediamenti per la prima volta nella sua storia.

Questo significa chiaramente che la rivolta palestinese, attraverso lo sviluppo di capacità, peso e strumenti, l’innovazione e la diversificazione dei metodi e delle tattiche, la determinazione e la pazienza, è divenuta un’opzione reale e affidabile. La gente può ora fidarsi della propria capacità di ergersi, difendere e conquistare, anche se passo dopo passo, e nonostante l’enorme squilibrio di potenza con il nemico.

La resistenza ha inoltre voluto sviluppare un aspetto importante della propria esperienza, ovvero l’alternanza tra l’escalation e la distensione, in linea con le circostanze che sta vivendo il nostro popolo, servendo l’interesse pubblico e il buon senso politico. La situazione di calma può essere scelta in modo autonomo, e persino non dichiarato se necessario, come parte delle decisioni del movimento, oppure potrebbe essere annunciata pubblicamente da un accordo delle forze di resistenza, in cambio di richieste specifiche quali l’interruzione delle aggressioni sioniste, la fine dell’assedio e così via.

Noi, insieme ad altre fazioni della resistenza, abbiamo messo in pratica tutto questo in tutta coscienza e con tutto il coraggio, e ci siamo presi la responsabilità di salvaguardare il nostro popolo e i suoi interessi. Tuttavia, lo abbiamo fatto sulla base dell’adesione alla resistenza e del suo ulteriore sviluppo in quanto opzione strategica per la liberazione. Sia sul campo di battaglia che sul percorso della resistenza, il movimento – così come altri hanno fatto tra le fila del nostro popolo – ha offerto un’importante costellazione di martiri provenienti tra i suoi leader migliori, le sue icone e i suoi quadri, a partire da shaykh Ahmad Yassin, fondatore del movimento, e per proseguire con Abd al-Aziz ar-Rantisi, Jamal Mansur, Jamal Salim, Ibrahim al-Makadmeh, Isma’il Abu Shanab, Salah Darwazeh, Yusef Sarakji, Saed Siam, Nizar Rayyan e migliaia di altri illustri caduti.

Il movimento ha anche offerto personaggi celebri alla storia dell’attività militare palestinese, come Imad Akel, Yahya Ayyash, Salah Shehadeh, Mahmud Abu Hannud e decine di altri martiri che non possono essere tutti citati qui, anche se i loro nomi rimarranno nella memoria palestinese e nella storia della lotta.

Un altro aspetto, e un apporto molto importante, è rappresentato dall’introduzione della dimensione religiosa islamica alla battaglia, insieme a quella nazionale, con tutto il significato che ha l’Islam nella vita del popolo e della nazione araba, e lo spirito, la forza e il vigore che conferisce ai combattenti. Inoltre, rinforza le motivazioni che spingono alla militanza e la capacità di resistere e perseverare, per non parlare del potere che ha l’Islam di mobilitare le masse e infiammare i loro sentimenti contro gli occupanti.

Inoltre, questa dimensione essenziale ha incoraggiato il radunarsi delle masse arabe e islamiche e il loro sostegno al popolo palestinese e alla resistenza, soprattutto durante gli eventi più importanti, quali la guerra e l’assedio di Gaza, oltre a tutte le questioni collegate a Gerusalemme e alla moschea di al-Aqsa. I sentimenti islamici sono tra gli elementi più importanti che legano le masse alle loro elite e alla Palestina. Per questo, l’energica entrata di Hamas – con la sua chiara identità islamica – nel campo di battaglia ha rappresentato un fattore decisivo nel sollevare il vasto impeto arabo e islamico, e nell’invocarlo a favore della causa palestinese e della resistenza.

Qual è il suo punto di vista sulla questione dell’eccessiva facilità con cui viene versato del sangue?

Esistono delle condizioni stabilite in modo rigido che riguardano il sangue e le vite delle persone, e che vengono sottolineate nel Corano e nella Sunna. Il Profeta (pace su di lui) non ha mai dato tanta importanza a nessun altro argomento. Lo ha evidenziato più volte, soprattutto nel suo Discorso d’Addio, ed è quindi diventato centrale nella legge della nazione. Esistono codici morali e costumi nazionali a cui le persone aderiscono per mantenere la pace all’interno delle loro società, e tutti dovrebbero rispettare queste regole.

Noi del movimento desideriamo rispettarle in modo attento, instillando questi vincoli e queste norme legali, etiche e nazionali, sensibilizzando i membri del movimento, educandoli, spingendoli ad attenervisi nei loro comportamenti, e a rispondere di ogni infrazione.

Un simile insegnamento dev’essere rivolto in particolare a chi lavora in campo militare e porta le armi, in modo che queste vengano impiegate solo nel loro campo naturale, contro il nemico occupante; poiché la loro sensazione di potenza potrebbe tentarli ad utilizzarle senza che ve ne sia bisogno. Più s’intensifica la tensione interna ad una società, più sarà probabile che s’indulga a un eccessivo uso delle armi.

A questo punto, bisognerebbe ricordare che la gravità dell’esperienza delle questioni di sicurezza con l’Anp negli anni ’90, lo scarso rendimento del suo apparato, la corruzione, le vessazioni ai danni delle persone – e in particolare dei movimenti di resistenza, primo fra tutti Hamas – e le torture e gli insulti ai danni dei leader del nostro movimento hanno creato sentimenti d’indignazione e profondo dolore, e provocato negli animi ferite che non si rimargineranno mai. Tutto ciò ha reso l’ambiente interno della comunità palestinese poco solido e salutare, e molto teso e irascibile, ed ha accresciuto le mini-frammentazioni e la fedeltà a se stessi o alla fazione, alle spese dell’interesse generale della nazione. Sono problemi a cui dobbiamo lavorare tutti quanti; dobbiamo prenderci le nostre responsabilità e risolverli, perché sarebbe nell’interesse del Paese, della nostra causa unanime, e perché lasciar stagnare simili fenomeni è dannoso per tutti.

Il possesso di armi, il senso di potere e le ingenti forze militari spesso trasmettono ai loro proprietari vanità e auto-ammirazione, li spingono all’indulgenza nel fare uso delle armi, e potrebbero indurli a sbagliare e a violare i diritti altrui. Per natura, l’uomo supera il limite quando diventa ricco e potente, come dichiara Dio Onnipotente: “Ma l’uomo trasgredisce tutti i confini, poiché considera se stesso autosufficiente” (Sura 96, versetti 6-7). Impedire simili trasgressioni richiede disciplina e controllo attraverso l’impegno religioso, morale e patriottico e attraverso l’applicazione di vincoli, norme e pene, oltre che facendo rispondere i trasgressori degli abusi e delle irregolarità.

Noi del movimento utilizziamo quest’approccio nei suoi due aspetti: i valori religiosi, morali e patriottici, che scoraggiano dal commettere reati; e le pene da comminare, nel caso vengano commessi. Questi sono problemi legati alla religione, all’interesse nazionale e ai diritti delle persone. Vogliamo inoltre mantenere l’integrità delle intenzioni e la genuinità delle motivazioni dei combattenti, in modo che il jihad, gli sforzi e i gesti tendano sempre e solo a Dio, alla patria e all’interesse di questa, lontano dalla passione per la vendetta e dalle motivazioni personali. Ciononostante, vengono ancora commessi degli sbagli: fa parte della natura umana.

Errori e abusi si ritrovano nelle esperienze di tutti i popoli e le nazioni, come possiamo vedere ad esempio nel fatto che gli eserciti del mondo si stanno scagliando e stanno commettendo ogni sorta di brutture contro i vulnerabili popoli occupati dell’Iraq e dell’Afghanistan. Tuttavia, come nazione araba e musulmana, e in virtù dei principi della nostra religione, della nostra morale e del nostro patrimonio culturale, dobbiamo sempre puntare agli standard più alti di disciplina morale e alla fermezza di fronte agli errori e agli abusi, dal momento che la nostra morale non va praticata solo tra di noi, ma è universale e umana e andrebbe adottata da tutti, indipendentemente dalla religione o dalla razza.

Perfino ai tempi del Profeta Muhammad (pace su di lui) vi erano eccessi e sbagli, anche se venivano affrontati in modo fermo e rapido. Il Sacro Corano si riferiva a uno di questi casi nel versetto: “O voi che credete! Quando viaggiate lontano dal vostro Paese sostenendo la causa di Dio, investigate attentamente e non dite a chiunque vi offra il suo saluto: ‘Tu non sei un credente!’, continuando a bramare i beni caduchi della vita terrena: con Dio, i profitti sono abbondanti. Anche voi eravate un tempo nelle stesse condizioni, finché Dio non vi conferì i Suoi favori. Dunque, investigate attentamente. Poiché Dio è a conoscenza di tutto ciò che fate.” (Sura 4, versetto 94).

Il Profeta (pace su di lui) era irremovibile nel correggere simili infrazioni – per quanto fossero limitate – e le tradizioni profetiche al riguardo sono ben note, dal momento che il sostegno dei principi, dei valori e della morale è la base della religione e il fondamento della nazione.
Per questo, in osservanza dell’etica e delle norme islamiche, secondo l’esempio del Sacro Corano e della Sunna – poiché consideriamo l’adesione a questi un obbligo religioso e una fonte di felicità e bontà – e nell’interesse del nostro popolo, la politica del nostro movimento è basata sul non incoraggiare gli errori e le violazioni, e sul non legittimarli, a prescindere dalla loro origine. Al contrario, li consideriamo distanti dall’approccio del movimento, dal suo pensiero e dal suo impegno, e puniamo con decisione i colpevoli e i responsabili degli abusi.

Il futuro della regione

Qual è il suo punto di vista sul futuro della regione nei prossimi cinque anni?

La regione oggi è nel pieno del travaglio, e i prossimi cinque anni conosceranno probabilmente il proseguimento e il peggioramento di questo. Speriamo che tutto ciò, alla fine, produca cambiamenti positivi e frutti promettenti, a Dio piacendo – anche se sarà difficile. Speriamo e confidiamo che il futuro dei prossimi anni beneficerà la nazione araba e la causa e la resistenza dei palestinesi. Non vi è dubbio che la nazione oggi stia attraversando una fase di progresso, ma si tratta – inevitabilmente – di una fase difficile, che potrebbe essere accompagnata da molto dolore, e richiede quindi maggior pazienza, maggior determinazione e il raddoppiamento degli sforzi da un lato, e l’intensificazione della resistenza e del confronto con il nemico occupante dall’altro.

Alcuni ritengono che questa sua lettura sia ottimistica e infondata. Su quale base costruisce le sue aspettative?

La nostra lettura non è fantasiosa, e certamente non è disfattista. La nostra lettura è realistica e si basa su numerosi fatti, prove ed indici. Uno di questi è che i tentativi di resistenza nella regione si sono evoluti in modo significativo, dimostrando la loro presenza ed efficiacia. Non solo: si sono anche rivelati duraturi, e hanno riscosso importanti successi, pur trovandosi ad affrontare condizioni sfavorevoli e sfide enormi, le più importanti delle quali sono lo squilibrio di potenza a livello regionale e internazionale e lo stato di debolezza e divisione in cui operano gli stati arabi e islamici.
Chi conosce la realtà della resistenza in Palestina, Libano, Iraq e Afghanistan si renderà conto che essa è diventata l’unica vera opzione dalla quale possono dipendere i popoli della regione per affrontare le forze egemoni, resistere all’occupazione, difendere le loro terre e i loro interessi, salvaguardare la loro indipendenza e respingere l’aggressione di qualsiasi nazione del mondo, anche se questa dovesse essere potente quanto gli Stati Uniti d’America.

La resistenza nella regione non solo è riuscita a fare passi da gigante nella liberazione dei territori – come a Gaza e nel sud del Libano -, non solo è sopravvissuta a grandi guerre, ma ha anche causato tanti problemi e tanti dilemmi alle forze che cercavano d’invadere e controllare direttamente le terre, al punto che ora tali forze sono costrette a rivedere i loro calcoli. La gente della regione e la sua resistenza – grazie a Dio – hanno costretto queste grandi potenze e nazioni ad accordare loro un po’ di considerazione, dopo che le deboli politiche dei governi arabi le hanno tentate ad accrescere la propria avidità e ad ignorarci nel formulare la politica estera e le decisioni importanti che coinvolgevano la regione.

La guerra sionista contro Gaza e l’episodio della Freedom Flotilla hanno rivelato un fattore importante per il corso del conflitto, e cioè che la nazione vede ancora la Palestina come la sua prima causa, e che la gente, per quanto frustrata, è ancora in grado di riprendersi e mobilitarsi a tempo di record, affrontando problemi reali e veri e propri faccia-a-faccia con il nemico. Questa vitalità intrinseca della nazione, manifestatasi in diversi momenti critici, è uno dei fattori e delle cause – per quel che ne sappiamo – che ha spinto i paesi occidentali a fare pressioni su Israele ed accelerare la fine della recente guerra di Gaza, temendo le ripercussioni dell’indignazione degli arabi e dei musulmani nei confronti dell’attuale realtà politica e degli interessi occidentali nella regione.

Si sono anche avute importanti trasformazioni negli ultimi anni per quanto riguarda le posizioni di diversi paesi arabi e islamici che, insieme alle forze di resistenza, hanno creato una situazione di potere crescente e d’indipendenza, una tendenza al sostegno degli interessi della nazione araba e un rifiuto delle condizioni e delle pressioni esterne. Esiste anche uno schieramento di paesi “contro”, alleati con la resistenza stessa, i quali hanno conosciuto un progresso notevole per quanto riguarda il loro ruolo nella regione, e lo stesso vale per altri stati arabi che hanno sviluppato la propria posizione ed espresso onestamente e coraggiosamente il proprio appoggio alla militanza palestinese e alla scelta democratica, manifestatasi nelle elezioni del 2006.

Ad esempio, abbiamo visto di recente l’emergere del ruolo regionale della Turchia, che ha intrapreso un percorso positivo in direzione dell’indipendenza delle decisioni politiche e dell’avanzamento economico, della promozione dell’esperienza democratica, dell’apertura nei confronti della nazione araba e islamica, del notevole ed effettivo impegno nella questione della Palestina e in altri problemi regionali, e dell’adozione di posizioni forti e coraggiose; tutti elementi che indicano una trasformazione sia in Medio Oriente che all’interno della nazione, e una maggior propensione al progresso e al miglioramento.

Non vi è dubbio che vi sia un riconoscimento da parte di tutti – anche di chi lo nega testardamente – che la strategia della stabilizzazione e delle negoziazioni è fallita miseramente e ha raggiunto un punto morto, dopo essere stata adottata per quasi vent’anni quale sola opzione per l’intera politica araba ufficiale basata sulla cosiddetta “moderazione”. [Viene anche riconosciuto] che tutte le varie amministrazioni Usa sul cui aiuto gli stati arabi hanno contato per la riuscita di questa strategia non hanno fatto che metterli in imbarazzo, concedendo loro semplici promesse e parole, rinviando le date di scadenza e continuando nel frattempo a dare sostegno pratico e politico allo stato sionista.

Nonostante i difensori di questa strategia non siano disposti ad ammettere formalmente il fallimento, onde evitare che si formi un vuoto e si ricerchi una strada alternativa, i lavori nella regione devono decisamente portare tutti a cercare una strategia diversa, più seria e rispettosa di sé, che sia meglio in grado di affrontare le realtà di fatto che Israele impone sul campo ogni giorno sfidando tutti – moderati e non-moderati. La politica dell’attendere, del temporeggiare, dello sperimentare scelte fallimentari e del ripeterle in continuazione non può più essere intrapresa.

A parte questo, purtroppo, la politica araba ufficiale sembra incapace di stare al passo con i cambiamenti che si verificano nella regione, con il sorgere di nuovi attori, la crescente importanza del ruolo di altri, e le sfide che ne risultano nei confronti degli arabi, della loro sicurezza e dei loro interessi – soprattutto quelli dei paesi più importanti.

Sebbene l’influenza degli Usa continui a pesare su diversi paesi della regione, esiste un risentimento nascosto nei suoi confronti che comincia a crescere in questi paesi. Anche gli amici degli Stati Uniti ne sono inclusi, semplicemente perché questi ultimi li deludono, non li aiutano con le questioni che riguardano la nazione araba – e in particolare il conflitto arabo-israeliano – e favoriscono lo Stato sionista e altri paesi della regione a loro spese. Chi sta dalla parte dell’America si trova così in imbarazzo di fronte ai propri cittadini, e vede indebolita la propria capacità di continuare a negoziare e a difendere la strategia di moderazione politica, basata sulle colonie e sulle trattative.

Uno degli elementi che rinforzano la nostra certezza che il futuro della regione sia a nostro favore è la posizione sempre più debole dello Stato sionista. Questo sarà anche più avanzato militarmente, e lo squilibrio di potenza penderà pure dalla sua parte, ma al momento sta incorrendo in un gran numero di fallimenti. Sì, è in grado di fare la guerra, ma da tempo non riesce a vincere.

Tutti i fatti citati sopra, le prospettive che rispecchiano – a volte amare a volte promettenti -, la crescente consapevolezza dei popoli della regione – soprattutto quelli arabi -, lo spazio mediatico aperto e l’impossibilità di nascondere i fatti, un ritorno dei popoli della nazione araba alla loro autentica identità arabo-islamica e alle loro radici culturali, le loro crescenti preoccupazioni sulle attuali condizioni e sul destino della nazione, sulla sicurezza nazionale, sui ruoli internazionali e regionali e sui problemi principali, in cima ai quali vi è il conflitto arabo-sionista… Tutto questo, a mio avviso, spinge la nazione verso un cambiamento reale e significativo, divenuto inevitabile. È questo che infonde in me (e in quelli che la pensano in modo simile a me) la certezza che il futuro dei prossimi anni sarà, a Dio piacendo, benefico per la nostra nazione – a dispetto delle amarezze, dei dolori e dei tormenti di adesso. Questo punto di vista è rinforzato dal fatto che la regione, come hanno dimostrato i fatti storici, è sempre riuscita a riconquistare l’iniziativa e a sconfiggere le forze che l’aggredivano.

Futuro dell’impresa sionista

Attraverso la sua lettura del percorso dell’impresa sionista e della sua realtà attuale, qual è il suo punto di vista sul futuro di quest’impresa? Si sta muovendo verso la realizzazione della “Grande Israele”, o è in declino?

I dati concreti rinforzano la convinzione che l’impresa sionista non abbia futuro nella regione, e che anzi stia conoscendo un vero e proprio declino. Per quest’impresa, l’espansione era un elemento importante, e non può più essere perseguita. La costruzione del Muro (che pure ha ripercussioni negative sul popolo palestinese) e la ritirata dal sud del Libano e dalla Striscia di Gaza non sono che alcuni esempi concreti della sua regressione.

Israele, che un tempo dichiarava guerra ai suoi vicini e vinceva con grande facilità, era in grado di portare la lotta nel territorio del suo nemico e colpiva dappertutto; ora, il cuore della sua terra è il campo in cui combatte la resistenza palestinese. È un ciclo. Il cosiddetto “fronte interno israeliano” è ora minacciato in ogni guerra e in ogni confronto, e paga il prezzo delle mosse azzardate dei suoi leader. Oltre a ciò, l’attuale classe dominante israeliana – formata da molti militari, politici e leader della sicurezza – non ha le stesse capacità della prima generazione che costruì questo Stato, né la stessa volontà di lottare, per non parlare della corruzione che serpeggia al suo interno, i suicidi in aumento, le diserzioni del servizio militare e il rendimento sempre più insoddisfacente degli apparati di sicurezza.

Israele non vince una vera guerra dal 1967, a parte l’invasione di Beirut del 1982. Si tratta di un indice importante del declino delle capacità dell’impresa sionista, e del fatto che non ha futuro. A mio parere, il progetto della “Grande Israele” è giunto al termine, semplicemente perché il nemico sionista non è più in grado di portarlo a compimento, e perché continua a percorrere la stessa strada dell’apartheid in Sudafrica. Molti politici e osservatori neutrali la pensano allo stesso modo.

A più di sessant’anni dalla fondazione di quest’entità, e nel momento in cui le domande che ci si pone in Israele non riguardano più la sicurezza dello Stato, ma anche il suo futuro, siamo di fronte a uno sviluppo importante. Se la comunità israeliana mette in dubbio la base della propria esistenza e la fattibilità della propria impresa, allora il conto alla rovescia dev’essere iniziato, se Dio vuole.

Ad ogni modo, non basta dire queste cose: bisogna costruire. Noi non incoraggiamo a sottovalutare la forza e le capacità dello Stato sionista (sono le persone acute quelle che non sottovalutano il proprio nemico), il quale ha ancora molti fattori di potenza. Ciononostante, questa lettura realistica, basata su molti fatti e indici, dovrebbe indurci a non soccombere alle minacce d’Israele, o alle sue condizioni per la stabilità politica, e a non trattare l’impresa sionista come un destino inevitabile. La vera alternativa alla politica di sottomissione e allo stato di disperazione, all’attesa e all’impantanamento nelle negoziazioni, è la resistenza. Se Dio vuole, il popolo palestinese è in grado di portare avanti questa resistenza, anche se gli occorrono il sostegno e la partecipazione della nazione araba.

Esiste un dibattito tra molti attori internazionali riguardo al perdurare del ruolo d’Israele in quanto elemento strategico degli interessi occidentali nella regione. Lei crede che vi sia la possibilità che alcuni attori possano riconsiderare l’utilità di appoggiare ancora e illimitatamente lo Stato sionista?

Uno dei punti forti d’Israele è stato la sua capacità di promuovere se stessa in Occidente in quanto parte della civiltà occidentale ed estensione di questa, portatrice dei suoi valori, del suo stile di vita e del suo sistema politico democratico. Un tempo si presentava anche come vittima del Nazismo, allo scopo di attirare simpatie. Oggi Israele non si comporta più così, soprattutto dopo il Rapporto Goldstone, i suoi crimini nella guerra di Gaza e prima ancora in Libano, e i suoi misfatti ai danni della Freedom Flotilla, con le sue aggressioni nei confronti di centinaia di cittadini provenienti da dodici paesi diversi, inclusi alcuni dell’Occidente. Oggi Israele viene denunciata, e vive in una situazione dove il fondamento morale che rivendicava e promuoveva in precedenza viene ora fatto traballare. Israele è in declino morale, e il suo vero volto malvagio è stato smascherato. Questo è un passo in avanti molto importante.

Il sostegno occidentale a Israele ha sofferto un grande shock – soprattutto tra i popoli e le elite dell’Occidente – a causa dei suoi abominevoli crimini e della fermezza dei palestinesi, i quali l’hanno denunciata per quello che è, portando in primo piano la giusta causa palestinese e il volto umano di questa. I negoziati daranno come risultato Israele che dà lustro alla sua immagine a scopi di pubbliche relazioni. Ma se Israele perde la sua “incubatrice” internazionale, infligge su di sé una perdita pesante, poiché essa stessa non è parte autentica della regione, ma sopravvive grazie al sostegno della comunità internazionale. La mentalità occidentale, d’altra parte, premia la forza, la adora, e basa su di essa le proprie politiche. Oggi, tuttavia, lo Stato sionista non appare più all’Occidente come uno Stato in grado d’imporre ciò che vuole nella regione. Un simile cambiamento ha senza dubbio mutato l’immagine d’Israele e il suo ruolo funzionale in Occidente da investimento proficuo a peso oneroso, e nel futuro avrà un impatto graduale sulle relazioni tra le due parti.

Tutti questi fattori dimostrano l’invecchiamento precoce di quest’impresa. Di solito, quando la senilità appare presto in una struttura biologica, è indice di un difetto di formazione o di una mancanza d’immunità, così come di un rigetto dell’ambiente circostante. Senz’ombra di dubbio, la fermezza e la resistenza palestinesi – così come la fermezza e il sostegno della nazione araba -, i continui confronti con l’impresa sionista e la continua smentita delle aspettative di questa hanno portato alla luce i suoi punti deboli. Per questo motivo, l’impresa ha mostrato presto i segni del logoramento e non è più riuscita a lanciarsi nelle stesse avventure e a registrare lo stesso successo del passato. In poche parole, l’impresa sionista – come tutte le imprese che si sono storicamente realizzate per mezzo dell’occupazione, la colonizzazione e la violenza –  non gode di alcuna legittimità, in quanto è estranea alla nostra regione e non ha i requisiti per sopravvivere. Per questo giungerà al termine, come altre imprese dello stesso genere.

Noi siamo una grande nazione, orgogliosi di noi stessi, della nostra religione, della nostra terra, della nostra storia, della nostra cultura e della nostra identità; il nostro cuore pulsante e indice della nostra vita e sopravvivenza sono la Palestina e Gerusalemme. Per questo, non tollereremo a lungo lo Stato sionista, e anzi lo sconfiggeremo, proprio come in passato abbiamo sconfitto le Crociate e l’avanzata dei mongoli.

“Perché è a turno che assegniamo alle persone tali giorni (di buona e cattiva sorte)” (Sura 3, versetto 140).

da Memo (Middle East Monitor)

Fonte:
http://www.middleeastmonitor.org.uk/articles/middle-east/1491-khaled-meshal-lays-out-new-hamas-policy-direction