La complessa gestazione di una stagione di sacrifici che farà impallidire quelle degli ultimi decenni

Lunedì scorso in Lussemburgo i ministri dell’economia dei 27 paesi dell’Unione Europea hanno siglato uno di quei compromessi che preludono alle peggiori decisioni. In ballo la questione del rientro del debito pubblico al di sotto della soglia del 60% del Pil, com’era già previsto dal trattato di Maastricht. Nel Granducato, la posizione ultra-rigorista della Bce, della Commissione Europea e della Germania ha dovuto raggiungere un compromesso con l’insostenibilità di un rientro rapido (5% all’anno era la proposta della commissione) con i paesi che in quel modo sarebbero stati scaraventati di brutto in una recessione ancor più pesante di quella del 2008-2009. Tra questi ultimi, particolarmente delicata la posizione dell’Italia: se l’obiettivo del 5% annuo fosse stato assunto il nostro Paese sarebbe stato costretto a finanziarie con tagli da 50 miliardi all’anno per quasi 20 anni!

Il compromesso lussemburghese ha invece evitato di indicare per ora rigide tabelle di marcia, facendo gridare “vittoria” a Tremonti, che ha potuto così trincerarsi dietro alla fumosità dei comunicati ufficiali. Comunicati in realtà assai ambigui, che lasciano aperte diverse possibili interpretazioni. Vedremo cosa accadrà la prossima settimana, quando a riunirsi saranno i capi di stato e di governo. Quel che è certo è che l’interpretazione dell’asse Parigi-Berlino, laddove Berlino conta assai più di Parigi, non lascia molti spazi a chi vorrebbe sottrarsi al rigorismo ispirato principalmente dalla Bce e dal governo tedesco.

Quel che è altrettanto certo è che anche in Lussemburgo la linea è stata dettata  dall’asse franco-tedesco. Leggiamo cosa ha scritto in proposito La Stampa del 19 ottobre: «La partita lussemburghese in cui i Ventisette erano impegnati per riformare le sacre leggi della governance economica europea si è sbloccata quando è spuntato un comunicato scritto a 600 chilometri di distanza a Deauville, sulla costa normanna, da due leader, i soliti, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy».
Per essere più precisi, La Stampa chiarisce che: «Sarkozy ha spiegato che i comuni intenti spingono per una revisione del trattato di Lisbona entro il 2013, in modo da creare le condizioni per un più efficace controllo della stabilita finanziaria Ue. In chiave tedesca vuol dire rafforzare le sanzioni. La Merkel sogna misure gravi come la sospensione del diritto di voto in Consiglio per chi esagera con deficit e debito eccessivi».

Il compromesso dunque c’è stato, ma più che altro somiglia ad un semplice rinvio delle decisioni più difficili. A fronte di un Tremonti che vanta l’introduzione – in sede di valutazione delle dinamiche del debito delle singole nazioni – di ulteriori criteri, rispetto a quello classico del rapporto debito/Pil, quali l’indebitamento privato, la struttura delle scadenze del debito, la qualità dei bilanci pubblici, il Corriere della Sera (19 ottobre) osserva che: «Il problema è l’interpretazione franco-tedesca, della Commissione europea e della Banca centrale di Francoforte, che sembra essere molto più rigorosa».

Nelle stesse ore in cui si teneva il vertice nel Granducato, le piazze francesi si riempivano di milioni di manifestanti contro l’ennesima controriforma delle pensioni. Si tratta in larga parte di quegli stessi settori popolari che decretarono il no alla costituzione europea nel 2005. Almeno nel caso francese dobbiamo dunque supporre che vi sia una discreta consapevolezza del legame esistente tra l’attacco alle condizioni di vita delle classi popolari e le politiche che vengono elaborate nelle sedi della Ue. Una consapevolezza che manca invece in altri paesi, ed in maniera gravissima in Italia. Eppure a quasi vent’anni dal Trattato di Maastricht sarebbe l’ora di fare un bilancio di cosa ha significato per l’Italia, ed in particolar modo per i ceti popolari italiani, il mitico “ingresso in Europa”.

Sappiamo che questo bilancio è semplicemente improponibile per le oligarchie dominanti, per il ceto politico al loro servizio e per il circo mediatico che gli fa da contorno. Per tutti costoro l’Europa, cioè la Ue, è semplicemente un dogma intoccabile.
A livello popolare questo dogma è assai meno forte, ma prevale però una sorta di rassegnazione dettata dalla solita idea secondo cui “indietro non si torna”. Ecco perché è urgentissimo iniziare una campagna contro l’Unione europea, per disvelarne fino in fondo la natura classista, autoritaria ed antidemocratica.

Per le masse popolari l’Unione europea ha significato solo sacrifici ed ancora peggio sarà nel futuro. Ricordiamoci le finanziarie per Maastricht e per essere ammessi nel club dell’euro, ricordiamoci l’effetto taglia-salari del passaggio dalla lira all’euro. E solo per rimanere all’anno in corso, ricordiamoci della manovra finanziaria varata a maggio su richiesta della Ue, ma anche dei diktat europei per innalzare l’età pensionabile delle donne.
Come se tutto ciò non bastasse ecco in arrivo il nuovo “Piano di stabilità” e di rientro dal debito. Molti, a sinistra, pensano che non si possa dire di no all’Europa, che al massimo si debba esigere maggiore equità ma non un cambio radicale nella politica economica. Ed invece il punto è proprio questo, e non solo in Italia.

L’adesione alla Ue ed alle sue politiche, contrapposta alla lotta per l’uscita dall’Unione, sarà il grande discrimine che dividerà nei prossimi anni la sinistra sistemica (cioè interna alle logiche del sistema capitalistico) dalle forze che si muoveranno per ricostruire un’alternativa. I vincoli europei non sono solo antipopolari, sono anche totalmente antidemocratici. La riconquista della sovranità nazionale è condizione certo non sufficiente, ma assolutamente necessaria affinché possa affermarsi una rivoluzione democratica in grado di assoggettare il mercato alle esigenze sociali, ridando così alla politica il senso che gli è proprio.

Fuori dall’Europa, dunque. Fuori al più presto, senza attendere gli sviluppi del processo disgretativo che l’attraversa al suo interno. Fuori per ricostruire un’alternativa. Fuori, per smettere di chiedere alla Ue di essere quel che non può essere, prendendo atto piuttosto di ciò che è e della sua irriformabilità.

E’ così difficile fare questo passo, certo inviso alle classi dominanti, ma sicuramente non incomprensibile agli occhi delle masse? E’ difficile per i pigri, impossibile per gli opportunisti di ogni specie, ma assolutamente necessario se vogliamo cominciare a mettere le carte in tavola in vista del tremendo scontro di classe che si profila all’orizzonte. Uno scontro che non si deciderà solo nelle piazze, ma che dipenderà anche dalla capacità di elaborare una proposta politica complessiva credibile, efficace oltre che mobilitante.

Le prospettive indicate dai tecnocrati della Bce, e riprese dalla Commissione europea, al di là delle momentanee battute d’arresto, parlano solo di sacrifici. Sacrifici per che cosa, poi? Solo ed esclusivamente per tenere a galla un sistema che affonda, che non ha più nulla da offrire all’umanità, che potrà salvarsi solo con un gigantesco massacro sociale.

Diciamogli di no. Un no all’Europa che è il no al dominio capitalistico, alle sue ingiustizie, alla sua mostruosità. Un no al sistema antidemocratico su cui si regge, un sì alla riconquista ed all’allargamento degli spazi democratici.

Per riprendere lo slogan un po’ ingenuo del movimento no global, chiediamoci: “un nuovo mondo è  davvero possibile”? Certo che sì, ma bisogna ricominciare a pensare in grande, fuori dai vincoli e dalle compatibilità sistemiche e – ritornando al nostro caso – fuori dalla gabbia disegnata dai signori dell’Unione Europea. L’attuale dibattito sul rientro del debito pubblico mostra come a Francoforte, a Bruxelles e a Strasburgo si elaborino solo le politiche dei sacrifici da imporre ai singoli stati, che poi provvederanno a scaricarli su lavoratori e pensionati.

“Noi la crisi non la paghiamo!”, è lo slogan più gettonato dai manifestanti a Parigi come ad Atene e nel resto del continente. Se questa parola d’ordine ha un senso è proprio quello di indicarci che bisogna dire addio all’Europa, un dogma che serve solo agli interessi delle oligarchie finanziarie. Occorre prenderne atto ed agire di conseguenza. Al più presto.