Dalla guerra delle valute a quella commerciale – Nuove avvisaglie di tempesta sul capitalismo mondiale
«Tutti a raccolta al capezzale delle monete impazzite. La guerra delle valute approda al tavolo del G20». (1) Scriviamo mentre prende il via a Gyeongju, in Corea del Sud, il summit del G20. Esso cade nel bel mezzo della cosiddetta “guerra delle valute”, definizione ormai d’uso corrente e ben poco metaforica, utilizzata per primo, a fine settembre, dal Ministro delle finanze brasiliano. Che il summit riesca a porvi fine noi dubitiamo. Esso partorirà magari una dichiarazione congiunta di pie intenzioni, mentre la guerra valutaria continuerà come prima e più di prima, approfondendo il solco tra i cosiddetti “paesi emergenti”, Cina e Bric in testa, e i vecchi ittiosauri imperialistici, è da vedere fino a che punto capaci di restare uniti.
Origini e cause della guerra delle valute
Il Brasile da inizio per primo alla danze. Ai primi di ottobre porta al 6% la tassazione sugli investimenti in titoli di stato (bond) che dall’estero stanno affluendo come un fiume in piena nel paese. Scopo? Frenare il repentino rialzo della moneta nazionale, il Real.
Perché frenarlo? Per due ragioni: la prima, non penalizzare le esportazioni, quindi non deprimere il ciclo economico espansivo; la seconda, prevenire che questo flusso di capitali degeneri presto in una bolla, ovvero in una crisi finanziaria, trasformando i loro titoli in junk bond, in titoli spazzatura.
Il 12 settembre toccava alla Thailandia: per frenare l’enorme afflusso di capitale monetario che spingeva al rialzo il bath (ai massimi sul dollaro da 13 anni), il governo introduceva una trattenuta sui bond posseduti dagli investitori esteri. (2) Negli stessi giorni misure analoghe adottavano Corea del Sud, India, Filippine e Indonesia.
I “paesi emergenti”, i cui sistemi sociali sono fortemente squilibrati e sempre a rischio di esplosioni sociali, sono terrorizzati alla prospettiva che la crescita economica (spinta dal boom delle esportazioni e dal basso costo della forza lavoro), possa fare posto alla recessione.
Da dove affluisce questa vera e propria montagna di denaro? Dai mercati finanziari di mezzo mondo, ma in primo luogo dai paesi occidentali, USA in testa, che restano pur sempre il collettore planetario della speculazione compulsiva. In pratica questi paesi, che tranne la Germania sono impantanati in una gravissima recessione, conoscono una gigantesca fuga di capitali, verso gli “emergenti” appunto. Perché questo esodo? Non sarebbe necessario, proprio per dare ossigeno alla ripresa, che questi capitali restino dove sono e vengano investiti? Certo che sì, ma… A causa della crisi generale di sovrapproduzione che attanaglia le economie occidentali, e dunque dei bassi tassi di rendimento degli investimenti nell’industria; e a causa della preponderante finanziarizzazione del capitalismo; i capitali, come mosche al miele, vanno a cercare la propria valorizzazione, una più alta remunerazione, nei luoghi dove è ottenibile in tempi brevi, malgrado l’alta soglia di rischio.
Questa corsa non è ovviamente cieca, non avviene alla rinfusa. E’ pilotata e amministrata non solo dagli Hedge e dagli Equity fund, ma dalle stesse banche, in primis quelle d’affari (che com’è noto gestiscono spericolati investimenti finanziari come i derivati, gli swap, ecc) ma pure quelle commerciali.
Chi pensava che il fallimento di Lehman Brothers e il crack del settembre 2008 avrebbero posto fine al capitalismo-casinò si è sbagliato di grosso. Tutti i dati più recenti mostrano il contrario.
Una pratica speculativa che va per la maggiore è il cosiddetto Carry Trade, ovvero il prendere a prestito denaro in paesi con tassi d’interesse bassi (e stabili), per cambiarlo in valuta di paesi con rendimento degli investimenti maggiore, così che lo speculatore non solo ripaga il debito contratto ma ottiene un lauto guadagno senza avere versato una goccia di sudore.
Dati sintomatici
Solo se guardiamo alla massa dei derivati, essa è cresciuta nel 2010 raggiungendo la soglia dei 62mila miliardi di dollari. Peggio ancora va per i junk bond, i titoli spazzatura che garantiscono altissimi rendimenti e che comportano un alto livello di rischio: «Nei primi nove mesi del 2010 in tutto il mondo sono stati collocati titoli di questo tipo per 275 miliardi di dollari: nello stesso periodo del 2009 ci si era fermati a quota 163 miliardi, dicono i dati di Dealogic, che certificano una crescita del 58%. Lo spread, la differenza, rispetto al rendimento dei titoli di stato americani è salito a 625 punti base. Nel giugno 2007, prima della tempesta, era intorno a 250». (3)
62mila miliardi di derivati e 275mila miliardi di soli junk bond, a fronte di un Pil mondiale di 55mila miliardi!
Non ci stancheremo di ripeterlo: i dati riconfermano che il grosso delle truppe capitalistiche, alle faticose salite dell’economia reale, continua a preferire le discese verso l’inferno della più sfrenata e predatoria finanziarizzazione.
Serve forse un altro esempio, eclatante. Secondo l’ultima statistica della Bri (Banca dei regolamenti internazionali) tra il 2007 e il 2010 gli scambi giornalieri (sottolineiamo giornalieri) in derivati OTC (le operazioni speculative di compravendita di titoli non quotati, oppure contrattazioni di titoli quotati, che avvengono al di fuori del normale circuito di Borsa) sui tassi d’interesse (sottolineiamo: solo sui tassi d’interesse) sono aumentati del 24%, da 1700 miliardi a 2100 miliardi di dollari. (4)
Non si capirebbe la guerra valutaria in corso fuori da questo contesto, prescindendo dal fatto che la speculazione finanziaria è diventata l’aspetto dominante e pervasivo del sistema capitalistico, non solo di quello occidentale (vedi come fanno fruttare i petro-dollari le satrapie mediorientali). Di qui la disarmante affermazione di un anonimo editorialista: «Se speculare in finanza significa “scommettere” sul rialzo o sul ribasso della quotazione di valute, bond, azioni, indici, materie prime o beni alimentari, allora cacciare gli speculatori dal mercato è impossibile. Fors’anche dannoso». (5)
E’ quindi comprensibile come i paesi vittime di acquisti massicci dei loro titoli cerchino di difendersi da questa vera e propria aggressione speculativa ai danni delle loro valute e delle loro economie, da una parte tassando le rendite per dissuadere gli speculatori, dall’altra acquistando massicciamente dollari per frenare la politica diabolicamente ribassista della Fed e della Casa Bianca.
L’iper-liquidità e l’azzardo americano
Qui veniamo ad un punto cruciale, alle specifiche responsabilità che porta il governo americano nell’aver scatenato la guerra valutaria in corso. Per bocca di alti esponenti politici o di “insigni” economisti e intellettuali, la Casa Bianca addita la Cina (anzitutto per il suo forte avanzo commerciale) come principale responsabile degli squilibri mondiali, i quali sarebbero alla base dello scontro.
E’ così? No, non è così. Non è certo la Cina a muovere i grandi flussi di capitali speculativi verso i “paesi emergenti”. Essa, al contrario, deve difendersi per contrastarlo, al pari del Brasile e degli altri paesi bersaglio.
La vera causa della guerra monetaria è da ricercarsi nell’overdose di liquidità che la Fed americana e altre banche centrali (checché se ne dica pure la Bce, seppure in minore misura) stanno iniettando, dal 2008, sul mercato. Come fanno notare molti analisti siamo in presenza di una iper-liquidità a costo ormai prossimo allo zero, la qual cosa incentiva gli speculatori a prendere soldi in prestito per poi investirli in acquisto di titoli d’ogni tipo, azioni, obbligazioni e ovviamente titoli ad alto rischio.
«La liquidità immessa nei mercati dai pesi sviluppati, Stati Uniti in testa, sta drogando le quotazioni delle monete del resto del mondo. (…) Una spirale che, nel peggiore dei casi, potrebbe convincere i governi a proteggere le proprie economie alzando barriere commerciali. Un ramo del parlamento USA ha già approvato una legge che se varata autorizzerebbe ritorsioni commerciali contro Pechino». (6)
Quantitative easing: questo è il nome che è stato dato alla spericolata politica monetaria della Fed USA. Dopo aver portato praticamente a zero i tassi d’interesse sui propri titoli di stato emessi, e non potendoli quindi ulteriormente abbassare, la banca centrale si è messa a comprarli: in questo modo, assieme ad una riduzione dei loro rendimenti essa crea di fatto moneta, iniettando quindi ulteriore liquidità sul mercato. La qual cosa, come dicevamo sopra, non solo spinge la speculazione, armata di denaro sonante, a dirigersi verso i lidi dei Bric, ma determina pure la svalutazione del dollaro.
«La Federal Reserve compra titoli di stato Usa per tenere basso il loro rendimento. E dato che questo equivale a stampare moneta, l’effetto finale è di svalutare il dollaro. Di riflesso le banche centrali degli altri paesi sono costrette a comprare dollari per cercare di contrastare l’eccessivo apprezzamento delle loro valute nei confronti del biglietto verde». (7) Spinta svalutativa due settimane fa adottata in grande stile anche dal Giappone.
Il governo americano insomma, dopo aver salvato con denaro pubblico le loro banche in base al principio too big too fail, dopo aver stampato dollari a tutto spiano, dopo aver ridotto a zero il tasso d’interesse sui loro titoli di stato, li riacquista per svalutare la propria moneta e addirittura mette in cantiere deliberate misure commerciali protezionistiche. Un mix di azioni che per i “paesi emergenti” equivale ad una vera e propria bomba atomica. L’afflusso dei capitali speculativi determina un apprezzamento della loro moneta che va a danno delle loro economie (meno export più import), danno raddoppiato nel caso gli Usa (che restano il principale mercato di sbocco) erigessero barriere protezionistiche.
Se questo accadrà si potrà mettere l’epitaffio sulla tanto declamata globalizzazione, issando al contempo un cartello di pericolo: “Attenzione: state oltrepassando la linea che divide la guerra delle valute da quella commerciale. Che Dio ve la mandi buona”.
Che poi la strategia della Fed e della Casa Bianca serva davvero, pur se a spese dei concorrenti, a rimettere in carreggiata l’economia americana, questo, è tutto da vedere. «Un buon medico non amministra antidolorifici pericolosi per dare euforia a chi non ne ha bisogno. Un banchiere centrale responsabile non usa la politica monetaria come il medico di Michael Jackson usa la medicina». (8)
Il deprezzamento del dollaro, la politica turbo-monetaria, che altro non sono se non due artigli di una politica protezionista, spingono sì in alto le esportazioni, possono sì rilanciare momentaneamente il ciclo, ma da soli non risolvono i problemi strutturali dell’economia americana.
Di certo si tratta della stessa politica che gli USA imputano alla Cina, che viene accusata di manipolare il tasso di cambio.
Nouriel Rubini, che tra i numerosi sciamani della scienza economica è stato il solo a prevedere il collasso del 2008, è uno dei più severi critici della politica economica e monetaria dell’amministrazione Obama, pur con linguaggio affettato, afferma: «E’ arrivato il momento per gli istituti finanziari statunitensi di diventare responsabili e rispondere del loro operato. Quelle stesse aziende che hanno tratto vantaggi dai milioni di dollari degli stimoli dei contribuenti stanno accumulando enormi riserve di contanti e investono troppo nel capitale [speculativo aggiungiamo noi, Nda] a spese dei posti di lavoro. Occorre tassare questi capitali per spingere le imprese ad assumere». (9) Altrimenti, dice Rubini, si avvererà la sua profezia: quella sul futuro collasso degli Stati Uniti.
Divisioni euro-atlantiche
Che la strategia americana sia avventurosa e foriera di gravi contrasti economici e, sul lungo periodo, anche geopolitici, si capisce anche dal dissenso europeo (fatto salvo, come al solito, il Regno Unito). I grandi guru della Bce, come pure i governanti si tengono abbottonati, lasciano parlare in loro vece, gli analisti e gli specialisti.
«Proprio il quantitative easing, ossia l’iniezione di forte liquidità sul mercato grazie all’acquisto di titoli di stato (e forse anche di cartolarizzazioni sui mutui casa), è all’origine della guerra delle valute scatenatasi negli ultimi due mesi. Gli economisti più maligni avanzano il sospetto che tutta la nuova liquidità, lungi dal soccorrere l’economia reale, avrà il solo effetto di drogare ulteriormente i mercati finanziari e magari creare bolle speculative. (…) E’ intuitivo: più moneta si crea, più la valuta s’inflaziona. Le affermazioni di Geithner su un dollaro forte, in sintonia con la retorica delle precedenti amministrazioni, non convincono nessuno». (10)
Non sarà quindi per caso che, prima del G20, si è riunito in camera caritatis il G7. Se è stato resuscitato è proprio a causa, noi riteniamo, delle divergenze tra i grandi predoni imperialisti, allo scopo di trovare un punto di incontro e, come sperano gli americani, di fare fronte comune. Staremo a vedere. Noi sospettiamo che la politica economica americana, non solo aumenta i fattori di contrasto, per ora solo valutari e commerciali, con la Cina, i Bric e il resto degli “emergenti”, ma rischia di approfondire il solco con l’Unione europea, che anch’essa rischia di pagare un prezzo salato per puntellare lo zoppicante impero americano.
NOTE
(1) «Tutti a raccolta al capezzale delle monete impazzite. E’ stata convocata per oggi a Gyeongju, in Corea del Sud, una riunione straordinaria del G7, che anticipa l’apertura del G20, che entra nel vivo ufficialmente domani. Sarà la guerra delle valute l’argomento principale che i Grandi del mondo dovranno affrontare in un fine settimana che si annuncia di fuoco. L’incontro odierno ha un sapore “strategico”: è stato messo in calendario per arrivare a una posizione comune e coordinata prima del confronto con le nazioni del quartetto Bric, ossia Brasile, Russia, India e Cina, dove di fatto i primi due paesi hanno apprezzato le loro valute, mentre Pechino è rimasta sulle sue posizioni, bloccando di fatto ogni oscillazione dello yuan, scatenando le reazioni del Grandi del mondo».
Finanzaonline.com – 22.10.10/09:14
(2) Dichiarava il Ministro delle finanze thaliandese Korn Chatikavanij: « Siamo preoccupati per l’innaturale incremento dei bond in mano agli stranieri, balzati al 10% del totale». (Il Sole 24 Ore del 13 ottobre)
(3) «I trader sono concordi: “Dal 1988 in poi questo è il momento migliore che si sia mai visto. Il mercato dei titoli ad alto rischio sembra orientato a crescere ancora”. E ciò si deve al fatto che le contromisure prese per la grande crisi hanno mostrato che i governi non hanno intenzione di permettere il fallimento delle grandi istituzioni finanziarie.» La stampa del 11 ottobre 2010
(4) Il Sole 24 Ore del 12 ottobre 2010
(5) Articolo a firma di I.B., Il Sole 24 Ore del 12 ottobre 2010
(6) Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore del 13 ottobre 2010
(7) Morya Longo, Il Sole 24 Ore del 15 ottobre 2010
(8) Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore del 5 ottobre 2010
(9) Il Sole 24 Ore del 15 ottobre 2010
(10) Walter Riolfi, Il Sole 24 Ore del 22 ottobre 2010