Con il titolo “Un bilancio in rosso per Obama”, il manifesto del 18 novembre ha pubblicato un’anticipazione del libro “America, no we can’t” di Noam Chomsky. Qualcuno ricorderà ancora le illusione diffuse a piene mani dai sinistrati di casa nostra in occasione delle presidenziali del novembre 2008. A soli due anni da quell’evento, senza che si registri peraltro alcuna autocritica, gli obamiani battono in ritirata. Al di là dell’evidente debolezza delle sue conclusioni, il pezzo di Chomsky, che pubblichiamo di seguito, mostra con chiarezza come la “svolta di Obama” sia stata più che altro una mascheratura della solita politica americana, non solo in politica estera, il che è fin troppo evidente, ma anche in politica interna, laddove cioè si erano concentrate le illusioni più grandi.
“Un bilancio in rosso per Obama”
di Noam Chomsky
L’azione più importante di Barack Obama prima di assumere la carica è la scelta dello staff dirigente e dei consiglieri. La prima scelta è stata per la vice-presidenza: Joe Biden, uno dei sostenitori più tenaci dell’invasione in Iraq tra i senatori democratici, da lungo tempo addentro al mondo di Washington, che vota coerentemente come i compagni democratici – sebbene non sempre, come quando ha portato allegria negli istituti finanziari appoggiando un provvedimento per rendere più difficile agli individui cancellare i debiti dichiarando la propria condizione di insolvenza.
Il primo incarico post-elettorale è stata la nomina cruciale del capo di gabinetto: Rahm Emanuel, anch’egli uno dei più strenui sostenitori dell’invasione in Iraq tra i deputati democratici e, come Biden, buon conoscitore di Washington. Emanuel è anche uno dei maggiori beneficiari dei contributi di Wall Street alla campagna elettorale. Il Center for responsive politics riferisce che «è stato il massimo beneficiario, tra i rappresentanti, dei contributi per la campagna del 2008 provenienti da fondi a rischio, società private con capitale di rischio e le maggiori società finanziarie e di assicurazione». Da quando è stato eletto al Congresso nel 2002, «ha ricevuto più soldi da singoli e da comitati di sostegno elettorale nel mondo degli investimenti e delle assicurazioni che da altri settori dell’industria»; che sono anche quelli che hanno dato i contributi più consistenti ad Obama. Il suo compito era quello di controllare il modo in cui Obama affrontava la peggiore crisi finanziaria mai verificatasi dagli anni ’30, per la quale i suoi finanziatori e quelli di Obama condividono ampie responsabilità.
La sinistra ai margini
In un’intervista di un editorialista del Wall Street Journal ad Emanuel fu chiesto che cosa avrebbe fatto la nuova amministrazione Obama riguardo alla «leadership democratica al Congresso, piena di baroni di sinistra con il loro proprio programma»; che contempla il taglio delle spese per la difesa e le «manovre per applicare esorbitanti tasse sull’energia per combattere il riscaldamento globale»; per non parlare dei pazzi totali che in Congresso si trastullano con i risarcimenti per la schiavitù e simpatizzano anche con gli europei che vogliono mettere sotto processo l’amministrazione Bush per crimini di guerra. «Barack Obama si opporrà», ha assicurato Emanuel al giornalista. L’amministrazione sarà «pragmatica», schiverà i colpi degli estremisti di sinistra.
L’esperto di diritto del lavoro e giornalista Steve Early ha scritto che «durante la campagna elettorale, Obama ha detto che appoggiava fermamente l’Employee free choice act, una riforma legislativa sul lavoro, a lungo attesa, che dovrebbe essere parte integrante del piano che ha promesso per stimolare l’economia». Tuttavia, quando Obama presentò i suoi massimi consiglieri economici al momento dell’insediamento «e parlò dei passi da fare per dare una “scossa” all’economia (…) la legge di riforma non faceva parte del pacchetto».
Continuando a passare in rassegna le nomine di Obama, il suo Transition board, l’équipe che si occupa di introdurre i nuovi incaricati nel governo, fu guidato da John Podesta, capo di gabinetto di Clinton. Le figure di punta della sua équipe erano Robert Rubin e Lawrence Summers, entrambi entusiasti della deregolamentazione, il principale fattore scatenante della crisi finanziaria attuale. Come segretario del tesoro Rubin ha lavorato duramente per abolire la legge Glass-Steagall, che aveva separato le banche commerciali dagli istituti finanziari esposti ad alto rischio.
Conflitto di interessi nello staff
La stampa economica esaminò i documenti del Transition economic advisory board di Obama, che si riunì il 7 novembre 2008 per definire le linee di intervento sulla crisi finanziaria. L’editorialista di Bloomberg News, Jonathan Weil concluse che «molti di loro dovrebbero ricevere immediatamente una convocazione in tribunale come persone informate sui fatti, non un posto nel circolo ristretto di Obama». Circa metà «ha avuto incarichi fiduciari in società che, in qualche misura, o hanno bruciato i loro bilanci o hanno contribuito a portare il mondo al collasso economico, o entrambe le cose». È plausibile pensare che «non scambieranno i bisogni della nazione per gli interessi dei loro consoci?» Weil ha anche precisato che il Capo di gabinetto Emanuel «era amministratore alla Freddie mac nel 2000 e 2001, mentre la finanziaria commetteva frodi in bilancio».
La preoccupazione primaria dell’amministrazione è stato il tentativo di arrestare la crisi finanziaria e la parallela recessione nell’economia reale. Ma c’è anche un mostro nell’armadio: un sistema sanitario privatizzato notoriamente inefficiente e scarsamente regolato, che minaccia di mettere in difficoltà il bilancio federale se la crisi persiste. La maggioranza della gente è da lungo tempo a favore di un servizio sanitario nazionale, che dovrebbe essere molto meno costoso e più efficace, come prove comparative (e molti studi) dimostrano.
Appena nel 2004, qualunque intervento del governo nel sistema sanitario era descritto sulla stampa come «politicamente impossibile» e «privo di sostegno politico» – che vuol dire: contrastato dalle compagnie di assicurazione, dalle grandi aziende farmaceutiche e da altri che contano, qualunque cosa ne pensi la popolazione, del tutto irrilevante. Nel 2008, tuttavia, prima John Edwards, poi Obama e Hillary Clinton, hanno avanzato proposte che si avvicinavano a quello che la gente ha a lungo desiderato. Queste idee ora hanno un «sostegno politico». Che cosa è cambiato? Non l’opinione pubblica, che resta come era prima. Ma nel 2008 i settori di potere più potenti, in prima fila l’industria, era arrivata a riconoscere che subivano gravi danni dal sistema sanitario privatizzato. Di conseguenza, la volontà popolare comincia ad avere «sostegno politico». Lo spostamento ci dice qualcosa sulle disfunzioni della democrazia e sulle lotte che si prospettano.
Quello che è accaduto dopo dice ancora di più.
Obama ha abbandonato subito l’opzione popolare e sensata dell’assistenza medica da parte di un unico ente, che aveva detto di voler appoggiare. Ha anche raggiunto un accordo segreto con le aziende farmaceutiche secondo il quale il governo non avrebbe «negoziato il prezzo dei medicinali e non avrebbe richiesto rimborsi addizionali» a seguito delle pressioni delle lobby e contro l’opinione di un netto 85 per cento della popolazione. Una «opzione pubblica» – nella sostanza l’opzione di «medicare per tutti» – rimase, ma fu sottoposta ad un intenso attacco in base alla motivazione, interessante, che gli assicuratori privati non sarebbero stati in grado di competere con un piano governativo efficiente (pretesti più sofisticati non erano meno bizzarri). Nel giugno 2009 il 70 per cento della popolazione era a favore del piano, nonostante l’instancabile e spesso isterica opposizione di gran parte del settore assicurativo.
Due mesi dopo, l’articolo di fondo di Business Week era titolato: «Le assicurazioni sulla salute hanno già vinto: come United health e Rival carriers, manovrando dietro le quinte a Washington, hanno modellato la riforma sanitaria a loro beneficio». Il settore assicurativo «è riuscito a ridefinire i termini della discussione sulla riforma in misura tale che non contano i dettagli del voluminoso progetto di legge che il Congresso manderà al presidente Obama l’autunno prossimo, il settore riemergerà ancora più redditizio (…) i manager delle assicurazioni dovrebbero sorridere di piacere».
A metà settembre, quando i progetti di legge stavano arrivando sul tavolo del Congresso, il mondo degli affari manifestò il suo appoggio alla versione della Commissione finanze del senatore Max Baucus, che aveva lavorato «in stretto contatto con i gruppi imprenditoriali», più che con altri, si dice con approvazione. Le proposte della Camera furono respinte perché non sufficientemente a favore dei gruppi affaristici. Il presidente della Business Roundtable definì la proposta della Commissione finanze del Senato «molto in linea» con i suoi principi, specialmente per il fatto che «non richiede la creazione di un piano pubblico».
Una riforma dimezzata
Naturalmente nessuna vittoria basta di per sé. Perciò, mentre la lotta per la riforma del sistema sanitario paralizzò virtualmente il Congresso alla fine del 2009, le lobby affaristiche iniziarono una grande campagna per ottenere ancora di più, e ci riuscirono. L’opzione pubblica fu alla fine «fatta naufragare» insieme con un connesso «medicare buy-in» che avrebbe permesso alle persone di 55 o più anni di avere il servizio sanitario nazionale. A quel punto la gente era a favore dell’opzione pubblica dal 56 al 38 per cento e il Medicare buy-in in percentuale anche maggiore, tra il 64 e 30 per cento. Il sondaggio che mostrava questi risultati fu reso pubblico, ma i fatti furono omessi: il titolo diceva «Sondaggi: la maggioranza non approva le leggi per il servizio sanitario». L’articolo lascia l’impressione che la popolazione si unisca all’attacco della destra contro il coinvolgimento del governo nell’assistenza sanitaria, assalto condotto dagli interessi affaristici, contrari a quello che proprio il sondaggio rivela e che altri sondaggi mostrano da decenni.
E che hanno continuato a mostrare nel 2010. Un sondaggio della Cbs reso pubblico l’11 gennaio ha rilevato che il 60 per cento degli americani non approvava il modo in cui il Congresso stava affrontando il problema del sistema sanitario. Le cifre dettagliate mostrano che, tra quelli che sono contro il modo in cui la proposta regola il rapporto con le compagnie di assicurazione, la grande maggioranza pensa che non si spinga abbastanza avanti (il 43 per cento di «non abbastanza», contro il 27 per cento di «troppo»). L’assistenza sanitaria è stata una questione cruciale nelle elezioni al senato nel Massachusetts nel gennaio 2010, in cui ha vinto il repubblicano Scott Brown. Tra i Democratici che si sono astenuti o hanno votato per Brown, il 60 per cento pensava che il programma sanitario non si spingeva abbastanza avanti (l’85 per cento di quelli che si astennero). Tra gli astenuti e i democratici che hanno votato per Brown, circa l’85 per cento era a favore dell’opzione pubblica.
In breve, l’evidenza mostra che in realtà cresceva la rabbia popolare contro il progetto di legge sulla sanità di Obama, prima di tutto perché era troppo limitato.
Mentre il settore finanziario aveva tutte le ragioni per sentirsi soddisfatto dei risultati ottenuti dopo gli sforzi per far eleggere il suo uomo, Obama, la storia d’amore ha cominciato a volgere alla fine nel gennaio 2010, quando Obama ha deciso di reagire al montare della rabbia popolare contro gli «stipendi d’oro» per i finanzieri, mentre altri erano impantanati in una «triste strada tutta in salita per i lavoratori». Ha dunque adottato una «retorica populista», criticando le enormi gratifiche per chi era stato salvato dall’intervento pubblico, e proponendo anche delle misure per limitare gli eccessi delle grandi banche (inclusa la «regola Volcker», che avrebbe in parte ristabilito la legge Glass-Steagall, impedendo alle banche commerciali con garanzia governativa di usare i depositi per investimenti a rischio). La punizione per la sua deviazione è stata rapida.
In nome del libero mercato
Le grandi banche hanno annunciato con rilievo che avrebbero spostato i finanziamenti verso i repubblicani, se Obama avesse insistito con i discorsi sulla regolazione e la retorica contro i finanzieri.
Obama ha capito il messaggio. In pochi giorni ha informato la stampa economica che i banchieri sono bei «tipi», scegliendo Dimon e il presidente Lloyd Blankfein della Goldman Sachs come persone degne di lode e, per rassicurare il mondo degli affari, ha spiegato: «Io, come la maggior parte del popolo americano, non provo invidia per chi ha successo e ricchezza», nella forma delle enormi gratifiche e profitti che fanno infuriare la gente. «Fanno parte del sistema di libero mercato», ha continuato Obama; e non sbagliava, considerato il modo in cui il «libero mercato» è interpretato nella dottrina del capitalismo di stato.
Osservazioni come queste suggeriscono un interessante esperimento mentale. Che cosa sarebbe il contenuto del «marchio Obama» se la popolazione dovesse diventare «partecipe» piuttosto che semplice «spettatrice dell’azione»? È un esperimento degno di essere tentato, non solo in questo caso, e c’è qualche ragione per supporre che il risultati potrebbero indicare la via per un mondo più sensato e decente.