Tempi lunghi e modalità incerte nel documento Nato sul “processo di transizione in Afghanistan”

Come noto, la seconda giornata del vertice Nato di Lisbona è stata dedicata all’Afghanistan. All’incontro hanno partecipato ben 52 paesi. Ai 29 stati membri dell’Alleanza Atlantica, si sono infatti aggiunti la Russia, il Giappone e l’Afghanistan, più i 20 paesi non Nato che fanno però parte della Isaf.
Scopo dichiarato di questo summit, quello di varare l’attesa “exit strategy” dall’Afghanistan. Ma questa “strategia d’uscita” non poteva non risentire degli insuccessi politici e militari degli occupanti; ne è dunque uscito un documento che contiene un dispositivo a geometria variabile, suscettibile di modifiche e correzioni anche consistenti in corso d’opera.

In primo luogo, come da copione, il documento non parla di ritiro – parola tabù per chi ancora si considera padrone indiscusso del mondo – bensì di “processo di transizione”. In secondo luogo, la data entro cui questo “processo” dovrebbe (ma non è detto) concludersi è stata fissata per il 31 dicembre 2014.
Gli occupanti si sono presi dunque altri 4 anni abbondanti, un lasso di tempo grosso modo equivalente a quello che è intercorso tra lo scoppio e la conclusione della Prima Guerra Mondiale!
Un fatto che la dice lunga sulle incertezze e sulle riserve con le quali questo documento è stato concepito e partorito.

Leggiamo da la Repubblica del 21 novembre i passaggi chiave della conferenza stampa conclusiva del vertice, tenuta dal segretario generale della Nato, Rasmussen:
«Transizione non equivale a ritiro. La transizione del controllo della sicurezza dalla Nato alle autorità afghane “non equivale al ritiro delle truppe Isaf”, “sarà basata sulle condizioni sul terreno” e non sarà governata da un rigido “calendario” provincia per provincia, si legge nel documento.  “Se i talebani o chiunque altro pensa di poterci cacciare, si sbaglia: resteremo fino a quando sarà concluso il nostro lavoro, anche dopo la fine del processo di transizione”, ha detto il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, nella conferenza stampa dopo la firma con Karzai. “Dieci anni fa, l’Afghanistan era dilaniato dalla guerra civile”, con un regime guidato “dai più pericolosi terroristi del mondo, adesso – ha aggiunto Rasmussen – al Qaeda non ha più un rifugio sicuro” nel Paese e “i talebani sono sotto pressione”».

Probabilmente Rasmussen è privo del benché minimo senso del ridicolo. In caso contrario non avrebbe potuto vantarsi, dopo 9 anni di occupazione, dopo aver aumentato a ripetizione le truppe, dopo aver messo a ferro e fuoco l’Afghanistan, che ora «i talebani sono sotto pressione».
E cosa dire delle evidenti falsificazioni storiche? L’occupazione dell’Afghanistan è stata forse messa in atto per porre fine al conflitto interno? Casomai è vero il contrario, che ci si è serviti nel 2001 di una delle parti in conflitto (l’Alleanza del Nord) per realizzare un’azione terrestre che sarebbe costata molto sangue alle truppe americane.

Ma quel che va qui sottolineata è l’incertezza degli scenari futuri. Il passaggio delle consegne alle forze afghane al comando del governo fantoccio di Kabul avverrà gradualmente, ma non si sa quando. Anzi, si esplicita l’inesistenza di un qualsiasi calendario, in ogni caso subordinato alle «condizioni sul terreno». Infine, la minaccia di Rasmussen: «resteremo fino a quando sarà concluso il nostro lavoro, anche dopo la fine del processo di transizione».
Ma allora, di quale “exit strategy” stiamo parlando? Certo, Obama, gli Usa, la Nato, vorrebbero chiudere la partita afghana, ma vorrebbero farlo da vincitori. E qui vanno ad impattare con la realtà.

A differenza dell’Iraq, e nonostante i grandi sforzi degli ultimi mesi, in Afghanistan gli occupanti non sono riusciti a portare dalla loro parte settori significativi della Resistenza. La frase che i convenuti a Lisbona hanno dedicato a questa delicata questione la dice assai lunga: «Continuiamo ad appoggiare gli sforzi guidati dagli afghani per riconciliare e reintegrare quei membri dell’insorgenza che rinunciano alla violenza, tagliano i legami con i terroristi e accettano la Costituzione afghana».
La verità è che la Resistenza si è dimostrata ben più compatta del previsto. E la reazione dei Taliban alle decisioni Nato in terra portoghese – «La Nato in Afghanistan verrà sconfitta come gli invasori che l’hanno preceduta» – appare realistica e fondata.

Quel che è certo è che la guerra continua. Ovviamente, da qui al 2014 molte cose potrebbero cambiare e gli Usa potrebbero “accontentarsi” di mantenere le basi militari. Ma questo richiederebbe comunque la stabilità di un “governo amico” (cioè asservito) a Kabul, una condizione che ben difficilmente potrà determinarsi senza la protezione delle truppe da combattimento occidentali.

Intanto, mentre si parla di “exit strategy”, l’Italietta di Berlusconi e La Russa (ma su questo non ci risulta che l’opposizione parlamentare abbia niente da dichiarare) si appresta a mandare altri 200 “istruttori” in Afghanistan, portando così il totale delle truppe al suo massimo di 4.200 unità. Evidentemente, se il governo del Cavaliere è al tramonto, la sudditanza bipartisan verso Washington non lo è affatto.