Moreno conclude il suo scritto su Marxismo e mito ideologico della classe operaia, come sempre interessantissimo e molto stimolante, con due tesi che a suo avviso negherebbero o supererebbero due dogmi ritenuti “da sempre” fondamentali e irrinunciabili da tutte le correnti, “ortodosse” o in varia misura “eretiche”, del marxismo; o meglio, considerando come è giusto fare il marxismo una scienza (umana), due assiomi facenti parte della teoria “originaria” o classica del materialismo storico che sono stati falsificati dall’esperienza successiva e dunque da abbandonare per potere progredire nella conoscenza e nell’azione volta al superamento rivoluzionario dei correnti assetti sociali iniquissimi e palesemente incompatibili con la realtà naturale oggettiva (non sostenibili, come si suol dire):
(1) Né la storia né il “progresso” procedono solo a causa della lotta di classe. Questo processo storico esiste, ed ognuno può verificarlo empiricamente, anche ove la lotta di classe sia a bassa intensità o non si manifesti affatto. Entrano in gioco altri fattori, economici, tecnici, nazionali, statali, religiosi, ideologici che il soggetto politico deve tenere in somma considerazione se, appunto, vuole assolvere alla sua missione.
(2) E’ il partito proletario che sa di avere una missione, non la classe in sé, così come la sforna il modo capitalistico di produzione. La classe in sé è una leva della rivoluzione, la sua energia, l’acqua di una macchina a vapore che per poter rilasciare la sua potenza ha bisogno, non solo del fuoco del conflitto, ma di una complessa macchina politica che la raccolga come vapore in un cilindro a pistone.
Da parte mia non posso che concordare su queste conclusioni, ma mi sembra che esse non siano affatto incompatibili con le teorizzazioni “classiche” del materialismo storico, purché correttamente intese, posto che di fatto, “fin da subito” su di esse hanno agito fortissime tendenze a fletterle o travisarle in senso meccanicistico, economicistico, banalmente “oggettivistico”; tendenze in parte dovute all’influsso del positivismo largamente corrente a quei tempi, in parte favorite dalla debolezza iniziale delle forze sociali e politiche che quelle teorie si proponevano di utilizzare come strumenti indispensabili e potenti per la realizzazione delle loro aspirazioni rivoluzionarie (debolezza oggettiva cui poteva in parte ovviare, ma solo momentaneamente e in tempi lunghi assai dannosamente, una fiducia ottimisticamente acritica e quasi religiosa nell’avvento del “sol dell’avvenire”); tendenze che personalmente, pur non essendo certo un cultore professionale della materia né tanto meno avendone una conoscenza tale da poterne parlare con la ben che minima autorevolezza, al contrario di Moreno non attribuirei ad Engels (ma oltretutto non sono un osservatore freddo ed imparziale, avendo sempre nutrito verso di lui, fin da quando in gioventù lessi La condizione della classe operaia in Inghilterra e ne fui profondamente cambiato, un’ammirazione immensa, anche maggiore che per Marx; non voglio dire una “venerazione”, da ateo e irreligioso quale sono, ma ammetto che si tratta di qualcosa che vi si avvicina alquanto).
Pur concordando sulle conclusioni dissento in varia misura da molte delle considerazioni attraverso le quali vi giunge Moreno. E credo che esporre brevemente i motivi del mio dissenso possa essere utile a chiarire ulteriormente le questioni da lui discusse, ovviamente senza pretendere di giungere ad un accordo integrale su tali argomenti, che non ritengo essere una necessità impellente al fini di compiere scelte pratiche di lotta oggettivamente corrette ed efficaci, né tantomeno un’incoercibile aspirazione soggettiva per nessuno di noi.
Per esempio negli scritti di un classico del marxismo italiano come Antonio Labriola troviamo continue critiche e messe in guardia contro la tendenza a “naturalizzare” la storia umana (alla maniera dei positivisti), a confonderla con una sorta di prosecuzione senza soluzione di continuità dell’evoluzione biologica, o a farne un deterministico ed automatico succedersi di “stadi” sempre più perfetti lungo un cammino di progresso se non garantito da una provvidenza soprannaturale comunque di fatto naturalisticamente necessario, inderogabile, inarrestabile, automaticamente derivante senza fatica, studio, lotta, dolore, eroismi dal corso oggettivamente ineluttabile della natura (umana, storica). Insistente è il suo richiamo al fatto che, secondo una concezione corretta e non superficialmente e semplicisticamente approssimativa del materialismo storico, solo in ultima istanza, attraverso un intricato e complesso insieme di relazioni e di reciproche influenze con molteplici e tutt’ altro che irrilevanti fattori sovrastrutturali (da studiare sempre con grande rigore di analisi onde evitare improvvisazioni e raffazzonature foriere di inevitabili fallimenti pratici) la struttura economica della società condiziona in maniera determinante la storia umana.
Quelle della “lotta di classe” come “Leviatano assoluto dell’evoluzione sociale, solo vero motore della storia”, o dei “rapporti di produzione” come “primigenio ed esclusivo luogo in cui si costruiscono come per necessitato riflesso, i più complessi rapporti sociali”, come dice Moreno, mi sembrano evidentemente deformazioni semplicistiche, assolutistiche e dogmatiche del marxismo già note ai e combattute dai classici (anche se sempre tendenzialmente ricorrenti e dunque da continuare doverosamente a stigmatizzare).
Ma è Moreno stesso a rilevare che anche Marx metteva in guardia dalla tentazione di stabilire un rapporto meccanico di puro riflesso automatico fra struttura e sovrastrutture; e ad affermare che “ le classi sociali esistono obiettivamente, a prescindere dalla coscienza che esse hanno dei propri interessi. Ma la teoria di Marx non si fermava a questa verità lapalissiana e sociologica (Marx stesso ebbe a dire che non fu lui a riconoscere che la società era divisa in classi). Considerata dal punto di vista obiettivo, di come il capitale la produce, la classe operaia è solo la parte variabile del capitale stesso, quella creatrice di plusvalore. Affinché essa sia creatrice di socialismo, che cioè assolva una funzione rivoluzionaria, c’è bisogno che prenda coscienza di questo suo non-essere, che prenda cioè forma come essere libero dalle catene del lavoro salariato, dallo sfruttamento e dall’alienazione. E’ quindi solo il prendere coscienza che fa eventualmente del proletariato un soggetto rivoluzionario. Senza questo atto esso resta un mesto fattore del processo capitalistico di valorizzazione”. E che “Come argutamente affermava Lenin, contestando l’economicismo e correggendo alcune illusioni affettivamente contenute nell’impianto di Marx e prendendo atto dell’evoluzione concreta dei paesi dove il capitalismo era più sviluppato: dalla pura e semplice opposizione capitale salario non sorge un movimento rivoluzionario, ma solo un tradeunionismo, o un corporativismo, i quali non solo non conducono alla rivoluzione, ma all’esito opposto: incatenano il proletariato ai piedi del capitale. Ovvero: ‘il tradunionismo è la politica borghese nella classe operaia’”.
E certamente ha anche ragione di rilevare come in Marx (che non si è mai atteggiato a profeta portatore di una verità rivelata una volta per tutte infallibilmente) vi sono oscillazioni fra un corretto riconoscimento del ruolo tutt’altro che passivo, irrilevante e semplicisticamente determinato delle sovrastrutture politiche, giuridiche, culturali, ideologiche, ecc. ed un atteggiamento alquanto banalmente oggettivistico meccanicistico. Ma allora, a questo proposito, non si tratta secondo me di realizzare una sorta di superamento scientifico di assiomi rivelatisi inadeguati, bensì di interpretare il pensiero dei classici, non privo (anche) di elementi di debolezza e di cadute ideologiche verso suggestioni positivistiche, nella maniera più corretta, adeguata, creativa e praticamente efficace nella lotta per il socialismo.
Il che non significa a mio parere che non sia davvero necessario un adeguamento di paradigma paragonabile o per certi aspetti simile al passaggio dalla fisica classica newtoniana a quella relativistica (mutatis mutandis, cioè tenendo ben ferme le differenze fra una scienza “umana” come il materialismo storico e le scienze naturali, tanto più se “esatte”, quale è la fisica).
Tuttavia personalmente ritengo che il concetto che è necessario ridefinire o “riassiomatizzare” (in senso sostanzialmente qualitativo) nel materialismo storico sia fondamentalmente quello di “sviluppo delle forze produttive” come elemento dialetticamente interagente con i rapporti di produzione nell’ambito della struttura economica delle società umane, e come tale concorrente a condizionare in ultima istanza, attraverso un complesso sistema di interazioni e interdipendenze reciproche, le sovrastrutture (le quali – le osservazioni di Moreno mi impongono di ribadirlo ancora una volta – agiscono a loro volta sulla struttura, soprattutto nei momenti di rottura rivoluzionaria che necessitano della maturazione di un’adeguata coscienza di classe, di un’adeguata organizzazione politica e di un’adeguata capacità egemonica verso altri settori sociali e le rispettive espressioni politiche da parte del soggetto – senza queste necessarie condizioni sovrastrutturali meramente potenziale – del processo rivoluzionario stesso).
Questo perché secondo me al tempo di Marx ed Engels (ma anche di Lenin, di Stalin e di Trotzky) non erano di fatto ancora evidenti i limiti delle risorse naturali effettivamente (realisticamente, e non fantascientificamente) “fecondabili” da parte del lavoro umano così da consentire appunto uno sviluppo quantitativo delle produzioni e dei consumi sociali (e di conseguenza la contraddizione insanabile fra questi limiti e l’ oggettiva, ineluttabile tendenza del capitalismo, che i classici erroneamente attribuivano anche ed anzi in ancor maggiore misura al comunismo, ad un incremento quantitativo illimitato dei beni e servizi realizzabili e fruibili dall’umanità in quanto di merci).
Questi limiti sono invece del tutto evidenti per lo meno dalla metà del secolo scorso (e comunque esistono e sono sempre esistiti), e dunque impongono un abbandono, o per lo meno una drastica, profonda ridefinizione del paradigma dello “sviluppo delle forze produttive” inteso per lo meno anche come quantitativamente illimitato.
Con almeno due conseguenze importanti per le teorie del materialismo storico:
1) Che la realizzazione del comunismo non può più essere considerata qualche cosa di prima o poi ineluttabile, una “questione di tempo”: per quanto ardua e complessa, in un tempo illimitato un’adeguata coscienza di classe ed egemonica “prima o poi” finisce inevitabilmente per essere acquisita dalle classi oggettivamente rivoluzionarie in potenza (anche se si potesse giocare alla lotteria per un tempo infinito prima o poi si imbroccherebbe il biglietto vincente); ma se il distorto sviluppo capitalistico tende a distruggere le necessarie condizioni fisiche e biologiche della sopravvivenza dell’umanità, allora o ciò avviene “prima” di un certo livello irreversibile di deterioramento dell’ambiente (e in tempi che si fanno sempre più drammaticamente ristretti!) oppure “poi” non potrà più accadere: si sarà allora realizzato l’esito considerato già nel Manifesto del 1847 come alternativamente possibile al superamento rivoluzionario di rapporti di produzione ormai inadeguati, e cioè “la rovina comune delle classi in lotta”; tuttavia coincidente in questo caso con la definitiva estinzione “prematura e di sua propria mano” dell’umanità: non ci potrà essere in questo caso nessun “nuovo medio evo” passibile di venire prima o poi superato da un “nuovo rinascimento”).
2) Che se anche il comunismo si realizzerà, sarà comunque ben diverso da quanto (piuttosto utopisticamente, loro malgrado) vagheggiato dai classici: non sarà affatto una società dell’abbondanza materiale illimitata, in cui sia in vigore il principio “da ognuno secondo le sue possibilità, a ognuno secondo i suoi bisogni” e conseguentemente svanirà la divisione del lavoro e si potrà costruire macchine al mattino, dedicarsi allo sport nel primo pomeriggio, all’arte in prima serata e alla filosofia in seconda serata secondo quanto più a ciascuno aggraderà; e conseguentemente lo Stato come insieme (anche) di apparati coercitivi verso singoli e verso raggruppamenti sociali non “si estinguerà”.
Per finire faccio una digressione a proposito delle questioni filosofiche accennate nell’articolo in questione circa monismo (o dualismo), materialismo, riduzionismo, meccanicismo, determinismo, libero arbitrio, che suppongo non siano di interesse generale per i frequentatori del blog, che invito perciò a considerare concluse le mie considerazioni più o meno di interesse generale sullo scritto di Moreno (ma potrei ingannarmi), in quanto mi preme di confrontarmi con lui su di una questione che mi sta molto a cuore, e cioè sulla mia ferma convinzione che determinismo e libero arbitrio non sono affatto incompatibili, se per libero arbitrio si intende “libertà da vincoli esterni” che impediscano l’attuazione della propria intima, personale volontà, anche se ineluttabilmente condizionata da un determinismo intrinseco; mentre d’altra parte un libero arbitrio inteso come “imprevedibile, incondizionato indeterminismo intrinseco” delle scelte e della volontà personale mi sembra incompatibile con la possibilità di attribuire una valenza etica all’agire umano: in assenza di qualsiasi forzatura o impedimento estrinseco soltanto qualora le azioni di ciascuno fossero causalmente, deterministicamente conseguenti al proprio essere, alla propria natura (più o meno buona oppure più o meno malvagia, per l’appunto!) avrebbero un autentico significato etico, sarebbero effettivamente indicative delle qualità morali (più o meno buone oppure malvagie) di chi le compie. Mentre se non fossero deterministicamente condizionate dal modo di essere di chi le compie, allora necessariamente sarebbero – è questo puramente e semplicemente un altro modo di esprimere il concetto di indeterminismo – del tutto imprevedibili, casuali, fortuite, aleatorie; sarebbe esattamente come se ogni volta che si dovesse compiere una scelta si lanciasse una moneta e si decidesse per una delle due alternative a seconda del risultato del lancio: quale merito o colpa morale se ne acquisterebbe? Che cosa mai le nostre scelte potrebbero dimostrare circa le nostre caratteristiche morali? Nessun merito né alcuna colpa, nessuna dimostrazione di presunte qualità morali, dal momento che i nostri comportamenti, del tutto casuali, non sarebbero affatto conseguenza del (e dunque non dimostrerebbero il) nostro essere eticamente buoni oppure eticamente malvagi, bensì soltanto molto banalmente ed accidentalmente del nostro essere fortunati oppure sfortunati.
Per rendere immediatamente evidente, del tutto lampante l’inconciliabilità del casualismo, ovvero del libero arbitrio inteso come indeterminismo intrinseco, con l’ etica, dell’impossibilità di valutare moralmente un comportamento (libero da coercizioni estrinseche) che non sia intrinsecamente condizionato in maniera deterministica consideriamo il caso di un’ azione di fatto (e all’apparenza) eticamente buona ma conseguente un’intenzione malvagia. Ad esempio quella di chi rubasse per mera cupidigia del frutto dell’altrui onesto lavoro del vino che fosse stato avvelenato all’ insaputa sua e del legittimo proprietario, e lo assaggiasse procurando a sé la morte ed evitandola al derubato. Ebbene, benché all’apparenza questa azione possa sembrare eticamente buona, ed anzi eroica, non v’ è dubbio che, essendo conseguenza di circostanze meramente fortuite e non delle qualità morali (negative) del suo autore, non potrebbe essere utilizzata per dare una valutazione morale positiva di costui (che avrebbe anzi agito in maniera disonesta ed eticamente spregevole): ma lo stesso si potrebbe dire altrettanto a buon diritto di tutte le scelte di qualsiasi soggetto di pensiero ed azione che fosse dotato di libero arbitrio inteso come indeterminismo intrinseco: del tutto casuali, esattamente nel modo in cui il ladro dell’esempio avrebbe salvato la vita del derubato a costo della propria e non come logiche conseguenze delle sue qualità personali più o meno moralmente elevate.
Queste considerazioni spiegano fra l’altro secondo me l’apparente paradosso per il quale di fatto molti “deterministi ferrei”, anziché comportarsi da passivi fatalisti, come verrebbe superficialmente da immaginarsi, siano anzi frequentemente attivissimi e a volte eroici combattenti per le più svariate cause, spesso intese come espressione di progresso civile e morale ritenuto (a torto) deterministicamente ineluttabile (ottimismo infondato, che comunque tende a rafforzare l’impegno attivo da essi profuso; e da essi inteso come ovviamente condizionato dal loro essere uomini probi e “virtuosi”).