Dopo elezioni. Il PND ha usato tutti i mezzi per rimanere al potere. Ma il voto ha anche evidenziato il naufragio dell’opposizione islamica e laica e avviato la battaglia tra sostenitori e oppositori di Gamal Mubarak futuro presidente
L’altro giorno nella centralissima piazza Tal‘at Harb, era in corso nei locali del partito d’opposizione di sinistra Tagammu‘ (Ragruppamento Nazionale Unionista Progressista), una vera e propria «battaglia» tra membri della base del partito e alcuni membri della segreteria generale.
L’oggetto del contendere era la decisione della Segreteria generale di continuare a partecipare al secondo turno elettorale, mentre la base voleva fortemente che il partito, seguendo l’esempio degli altri gruppi d’opposizione, a cominciare dai Fratelli Musulmani e dai liberali del Wafd, si ritirasse in segno di protesta per le chiare irregolarità attuate dal Partito Nazionale Democratico (PND), il partito del potere, nel primo turno elettorale del 28 novembre. Al di là del declino della leadership del Tagammu‘, una volta il più rispettato partito d’opposizione in Egitto, l’accaduto dimostra sia la grande distanza tra i partiti politici legali e quella che dovrebbe essere la loro base (perfino nel caso della sinistra), sia l’errore tattico commesso da tali partiti, e qui bisogna includere pure la Fratellanza Islamica, nell’accettare il ruolo di sparring partner del regime guidato da Husni Mubarak. Il regime ha assicurato al PND una vittoria schiacciante. L’Assembla del Popolo (Maglis al-Sha‘ab), indicano i risultati quasi defintivi, sarà formata da oltre il 90% di deputati del regime e con meno che briciole per l’opposizione (zero deputati ai Fratelli Musulmani, uno al Tagammu‘, due al Wafd).
Molti, commentatori ed analisti, nonché governi occidentali, a cominciare dall’amministrazione Obama, si sono detti stupiti da questi risultati; analogamente molti si sono chiesti che senso avesse questo grande circo elettorale, se la riuscita doveva poi essere così deludente nell’auspicata «via egiziana verso la democrazia». Per cercare di rispondere brevemente a tali quesiti è forse il caso di fare un passo indietro, soprattutto per quel che concerne la relazione tra il potere e le diverse opposizioni. Se da un lato il regime ha sempre avuto bisogno di una opposizione «decorativa» per salvare una minima facciata di «apparenza democratica», dall’altro, i mesi che hanno preceduto la consultazione elettorale sono stati un chiaro indicatore che quest’anno esso avrebbe tollerato, a differenza del 2005 – quando 88 Fratelli Musulmani si erano assicurati un seggio in Parlamento – ben poca dialettica politica. I segni erano molteplici: innanzitutto il potere ha attuato la marginalizzazione dei gruppi legati al «candidato virtuale» Muhammad El-Baradei, poi è riuscito a isolarlo, facendo cadere nel vuoto il suo accorato invito alle opposizioni per il boicottaggio elettorale.
Inoltre, nelle settimane immediatamente precedenti alle elezioni, il regime, con un grande dispiego di forze, ha agito su vari fronti per sopprimere qualsiasi dibattito democratico; non solo, come al solito, ai candidati dell’opposizione è stato impedito di svolgere una campagna elettorale alla pari con i rappresentanti del PND, ma ulteriori restrizioni hanno colpito i media – dal licenziamento del giornalista indipendente anti-establishment Ibrahim ‘Issa dalla direzione di al-Dustur, attuata dalla nuova proprietà wafdista, all’oscuramento dei canali satellitari pan-arabi – a pesanti restrizioni ai danni di giornalisti, analisti e osservatori stranieri, fino all’imprigionamento ‘preventivo’ di oltre 1200 membri dei Fratelli Musulmani, proprio quando essi avevano annunciato la ‘partecipazione limitata’ alle elezioni.
Se queste erano le premesse, la violenza perpetrata dalle onnipotenti forze di sicurezza e dalla cosiddetta ‘baltaga’ (ragazzotti in abiti civili assoldati dal regime per minacciare o picchiare elettori ‘poco allineati’) nei seggi o in prossimità di essi lo scorso 28 novembre, non dovrebbe stupire più di tanto, pur nella sua inaccettabilità, chi abbia un po’ di esperienza della politica egiziana. In altre parole, se nessuno si auspicava un tale esito, esso poteva essere prevedibile.
Dal punto di vista del regime – come abbiamo cercato di spiegare a una amica italiana residente al Cairo quasi incredula – il senso di queste elezioni va cercato non nella inesistente competizione con i partitini dell’opposizione «decorativa» e forse nemmeno nella resa dei conti con la Fratellanza, quanto piuttosto nella competizione interna al PND, dove due o forse più fazioni – la «vecchia guardia», il gruppo legato a Gamal Mubarak, e gli «indecisi» – si stanno da tempo affrontando nella ben più importante battaglia delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo. In quest’ottica le elezioni appena concluse potranno offrire una prima conta delle forze in campo in vista delle prossime battaglie interne. Si è già detto che per l’opposizione, per quella parte che aveva creduto nella partecipazione elettorale, i risultati del primo turno costituiscono una perdita di credibilità che il tardivo boicottaggio non potrà far recuperare facilmente. La Fratellanza, nel suo appellarsi al ricorso a vie legali in un sistema dove la legalità è a discrezione del potere, sembra alquanto indebolita e alcuni si chiedevano in questi giorni perché non avesse optato per «l’opposizione di strada», forte della popolarità che gli si attribuisce forse con troppa generosità. Se le elezioni presentano un quadro desolante, va detto chiaramente che esse non esauriscono affatto la vita politica egiziana, né svelano l’inesistenza di una crescente opposizione reale.
Al contrario, parallelamente alla crescente repressione poliziesca, le scorse settimane hanno visto una ripresa dell’attivismo studentesco nei campus del Paese, la costante ascesa di un nuovo movimento operaio e finanche l’inedita esplosione della protesta copta, per la prima volta nelle strade in associazione ai non copti, contro la discriminazione e la repressione. Se a ciò si aggiunge l’incessante attivismo di tanti giovani e vecchi militanti che continuano a tessere la tela delle possibili alternative politiche e sociali al regime, si può affermare che il futuro dell’Egitto non è semplicemente un affare della famiglia Mubarak.
*Docente di storia e politica del Medio Oriente, American University in Cairo e Macquarie University
** Docente di relazioni internazionali e politica mediorientale, Università di Aberdeen.
da Nena news