I maoisti dopo il sesto pleunum del Cc

«I maoisti (così come i loro oppositori) hanno tre opzioni. La prima: tornare alla rivolta armata, che sarà dolorosa per gli altri, ma un  suicidio per loro stessi. La seconda: auto-trasformarsi, eventualità che Baidya (Kyran) e i suoi seguaci lavatori di cervelli dell’ala dura non permetteranno succeda, almeno nel prossimo futuro. La terza: guadagnare tempo, sperando che il tempo da solo sia in grado di raffreddare i bollenti spiriti dei militanti, aprendo la strada al tanto anelato consenso politico e alla riconciliazione nazionale. Tuttavia, se sarà questa terza opzione ad avverarsi, avremo che l’instabilità politica continuerà. Questo è il prezzo che il popolo nepalese dovrà pagare come risarcimento per un processo di pace imperfetto».


Così il notista politico nepalese Jainendra Jeevan su Republica del 9 dicembre scorso, tratteggia la situazione politica nepalese, dopo l’eccezionale Sesta sessione allargata del Comitato centrale dell’UCPN (maoista).

Dopo mesi di crisi politica e istituzionale acutissima, segnata dall’emersione delle divisioni interne e dallo stallo in seno al partito maoista, l’opinione pubblica nepalese e quella internazionale, si aspettava che questa riunione sciogliesse i nodi e adottasse, una volta per tutte una posizione definitiva: ritorno alla lotta rivoluzionaria o piena accettazione della via parlamentare. Così non è stato. Il tanto atteso Plenum di Palungtar, nella regione di Ghorka, ha lasciato l’UCPN (maoista) in preda alle sue divisioni interne, sostanzialmente paralizzato. Divergenze le quali, anzi, si sono  approfondite, con un fatto nuovo e forse cruciale: la leadership del leggendario Presidente Pushpa Kamal Dahal (Prachanda) è uscita dal Plenum, decisamente indebolita.

«Il sesto plenum è andato diversamente da quelli del passato, dato che Bhattarai e Baidya hanno simultaneamente ritirato il loro sostegno a Prachanda, e il conflitto interno al partito fra due linee si è trasformato in un conflitto triangolare. Senza il sostegno di Baidya o di Bhattarai, il presidente maoista è apparso debole come mai prima. Risultato: il sesto plenum ha respinto il documento politico di sintesi proposto da Prachanda». (Republica del 30 novembre 2010)

Nello scontro tra le due linee, quella della sinistra del partito guidata da Mohan Baidya (Kyran) e quella dell’ala destra guidata da Baburan Bhattarai, Prachanda è rimasto dunque come schiacciato nel mezzo. Il suo tentativo, quello di avanzare una terza mozione politica, giudicato maldestro da gran parte della base del partito perché compiuto fuori tempo massimo, non ha sortito l’effetto sperato. In realtà è emerso chiaramente, dal Plenum di Palungtar, che le linee sono due e due soltanto, e che il tentativo di Prachanda era solo un modo per evitare una frattura fatale e per guadagnare tempo al partito.

Vero è che gli avversari dei maoisti, e non lo hanno nascosto nei giorni che precedevano la riunione del Cc, si auguravano una scissione, tale che avrebbe minato in maniera irreversibile la forza e il grande consenso dei maoisti. Essi sono rimasti delusi, ma lo spettro della frattura incombe. La resa dei conti tra le due linee, prima o poi, arriverà. Nel frattempo la stampa di regime nepalese, che non nasconde la sua simpatia per Battharai, preme su Prachanda, perché esca dalla sua doppiezza, si schieri apertamente con la destra e isoli così la sinistra. Lo fa in maniera pelosa, presentandolo come un “furbacchione”, un “pragmatico”, ovvero un dirigente che dice una cosa, ma ne pensa un’altra e ne fa un’altra ancora. Uno che “tiene i piedi su due staffe”. Uno che tenta l’impossibile: conciliare il diavolo con l’acqua santa.
Chi non abbia dimestichezza col maoismo, ovvero con la teoria delle contraddizioni (principale secondarie), troverà astrusa la diatriba in seno all’UCPN (m). L’ala sinistra che sostiene che il nemico principale è rappresentato dall’espansionismo indiano, l’ala destra che dice che il nemico principale è rappresentato dal feudalesimo interno.

Se decodifichiamo questo linguaggio le cose appariranno più semplici. Dal punto di vista dottrinario dei maoisti, se fosse vero che il feudalesimo è il nemico principale, ciò renderebbe necessaria l’alleanza con la cosiddetta borghesia nazionale, anzitutto col Partito del Congresso filo-indiano, proseguendo quindi sul sentiero del processo democratico e di pace avviato nel 2006 con la cessazione della lotta armata.

Al contrario, se il nemico principale fosse l’espansionismo indiano (va detto, che Nuova Delhi considera il Nepal un suo protettorato, o meglio il suo 29° stato federato), per proprietà transitiva, non solo nessun compromesso strategico con la borghesi nazionale nepalese sarebbe accettabile, è proprio questa classe il nemico principale, e dunque i  suoi protettori esterni (l’India e i suoi amici imperialisti, americani e inglesi anzitutto). Di qui lo sguardo alla Cina come possibile garante e sponsor del riposizionamento geopolitico del Nepal.

Si capisce dunque il senso e lo spessore della divergenza tra le due linee (pace o guerra) e, di converso, l’astrattezza e la debolezza della posizione mediana di Prachanda. Il partito ha solo guadagnato tempo, ma tempo prezioso. La crisi politica nepalese si trascinerà, almeno fino al maggio 2011, il termine inderogabile entro il quale l’Assemblea Costituente dovrà sfornare finalmente la nuova Costituzione, sul cui contenuto e profilo si gioca, almeno sul piano simbolico, la partita tra chi vorrebbe un Nepal capitalistico e sotto tutela indiana e chi vorrebbe incamminarsi sulla via del socialismo, quindi della piena sovranità nazionale.

Come sostiene il noto editorialista Ameet Dhakal lo scontro decisivo, non solo nel partito maoista, ma in Nepal è solo posticipato:

«La comunità internazionale e i principali partiti, soprattutto il Congresso Nazionale, hanno indurito la loro posizione. L’India è da sempre dura con i maoisti, ma ora anche gli americani e gli inglesi sembrano aver perso la pazienza. Entrambi hanno trasmesso il loro messaggio inequivocabile a Prachanda —deve dimostrare la sua sincerità, coi fatti, e non solo a parole. A suo tempo egli aveva assicurato gli americani che i maoisti avrebbero unilateralmente, prima del Plenum, restituito i beni sequestrati e sbaraccato la Gioventù Comunista, nonché promesso di risolvere subito dopo il problema del Pla (ovvero il disarmo dell’Esercito Popolare di Liberazione).
Nulla è successo prima del plenum, e nulla è probabile che accada dopo. Prima di risolvere la questione del PLA, Prachanda vuole la garanzia che diventerà il prossimo primo ministro. Una volta ha chiesto a un diplomatico di un paese potente occidentale se il suo paese avrebbe potuto garantirglielo.
Il tentativo di Prachanda di placare gli indiani non ha fino ad ora portato alcun frutto. Egli ha pubblicamente dichiarato che si recherà a Delhi dopo il plenum, ma gli indiani non hanno confermato alcuna riunione di alto livello con lui.

Ora Prachanda sembra essere scisso tra due opzioni.
La prima: negoziare il miglior accordo possibile sul PLA; concludendo così il processo di pace; scrivere la nuova Costituzione e nel frattempo continuare a premere per un governo sotto la sua guida.
La seconda: non fare compromessi, ma al contempo non andare allo scontro con i partiti politici tradizionali e lo Stato. L’essenza di questa strategia è quella di trascinare la situazione di stallo fino al 28 maggio 2011, giorno in cui scadrà il mandato dell’Assemblea Costituente. Il 29 maggio, l’Assemblea Costituente sarà sciolta, e la validità dell’Accordo in 12 punti tra i maoisti e gli altri partiti sarà anch’esso defunto.
I maoisti daranno la colpa ai partiti al potere per la mancanza di un accordo, per il fallimento di scrivere la nuova Costituzione, e per la il fallimento dell’Assemblea.
I maoisti non torneranno nella giungla, rimarranno nelle città e nei villaggi, e chiederanno, con proteste e scioperi, un nuovo accordo, e una nuova spartizione del potere.

La seconda opzione è piena di pericoli, e Prachanda lo capisce, ma non la esclude» (Repubblica, 23 novembre 2010)