Il «caso Battisti» ci parla dell’Italia, di questo strano paese appena entrato in un 2011 alquanto incerto. Parlandoci dell’Italia – un paese semiserio da Capodanno a San Silvestro – si presta a considerazioni ora serie, ora umoristiche. Fin qui niente di nuovo. Il problema è che non sempre è facile stabilire se siano più importanti, più rivelatrici del nostro presente, le une piuttosto che le altre.

Per non disperderci in mille rivoli, limitiamoci allora a segnalare tre aspetti: quello giuridico, generalmente ignorato ed invece degno di qualche annotazione; quello culturale, che continua a parlarci del paese forcaiolo che conosciamo; quello politico, che mette in luce il dilettantismo e lo sbando dell’intera classe politica nazionale.

Prima, però, dobbiamo rispondere ad una domanda: chi è Cesare Battisti? Vista l’importanza che viene assegnata alla sua vicenda, molti penseranno che si sia trattato di un personaggio particolarmente importante del periodo caldo della lotta armata in Italia. Niente di tutto questo. Battisti passa alla militanza politica dopo aver conosciuto il carcere per reati comuni, per aderire ad un gruppo del tutto marginale – i Proletari Armati per il Comunismo (PAC) – in quella che era allora la galassia della lotta armata. 

Come noto, Battisti riesce a riparare in Francia dopo essere fuggito dal carcere di Frosinone il 4 ottobre 1981. Per anni fa la vita del rifugiato grazie alla cosiddetta “dottrina Mitterand”, e nell’aprile 1991 la Chambre d’accusation di Parigi lo dichiara “non estradabile”. Ma l’Italia non s’arrende, e grazie al patto Castelli-Perben (dal nome dei due ministri della giustizia che lo siglarono nel 2002), Battisti viene di nuovo arrestato nel 2004. Al momento dell’estradizione, però, Battisti riesce di nuovo a  far perdere le sue tracce, per ricomparire in Brasile dove verrà arrestato il 18 marzo 2007.
Il resto è storia recente.

Nei lunghi anni della permanenza parigina, Battisti diventa uno scrittore noir di qualche successo. Soprattutto da qui viene l’ampia rete di solidarietà che si mobilita sul suo caso. In Brasile 500 intellettuali (tra i quali Gabriel Garcia Marquez) chiedono che gli venga concesso asilo politico. In Europa sono 1500 le firme (raccolte prevalentemente in Italia ed in Francia) per la sua liberazione. Tra queste vi era inizialmente anche quella di un giovane Roberto Saviano, che successivamente penserà bene di ritirarla con motivazioni a dir poco miserevoli. E’ probabile che questa rete di sostegno sia stata decisiva nel percorso che ha portato alla fatidica decisione annunciata il 31 dicembre dal presidente brasiliano Lula.

Dopo queste brevi informazioni, probabilmente già note al grosso dei lettori, e tuttavia utili per inquadrare la particolarità di questo caso, entriamo ora nel merito delle considerazioni da farsi sulla cagnara che si è scatenata nel mondo della politica e dei media italiani.

La vendetta, l’ergastolo e i pentiti

Nei commenti della stampa italiana poco si dice sulle motivazioni giuridiche della decisione di Lula. Certo, di decisione politica si è trattato, ma pur sempre basata sulle considerazioni giuridiche dell’Avvocatura dello Stato brasiliano. In primo luogo Battisti – al pari della generalità dei detenuti politici presenti nelle carceri italiane – è stato condannato in base alle dichiarazioni di “pentiti” ben incentivati a farlo. In Italia questa appare (e purtroppo è) la normalità. Ma la normativa italiana in materia non ha riscontro nel resto del mondo. Si tratta di un’aberrazione giuridica di cui fa comodo dimenticarsi, ma in Brasile (e prima in Francia) questo aspetto ha avuto il suo peso.

In secondo luogo la costituzione brasiliana non prevede l’ergastolo, la pena che invece avrebbe dovuto scontare Battisti qualora fosse stato estradato in Italia. Un tempo quella dell’abolizione dell’ergastolo era una bandiera della sinistra, una bandiera di civiltà. Oggi evidentemente non è più così, almeno in Italia. Ma leggiamo le impeccabili considerazioni dell’Avvocatura dello Stato di Brasilia: «La decisione da prendere dev’essere basata su criteri umanitari. La pena inflitta è superiore a trent’anni, e dovrà essere ridotta. Ma per un condannato con oltre cinquant’anni di età sarebbe comunque simile ad una pena perpetua». Ed ancora, anche se l’Italia mantenesse la promessa di ridurre la pena a 30 anni, la sua liberazione sarebbe quella di «una persona di oltre ottant’anni a sessant’anni di distanza dai presunti fatti».

Ma il punto sul quale ha insistito l’Avvocatura dello Stato – e che ha fatto gridare allo scandalo l’italietta manettara – è quello sul concetto di vendetta insito nelle prese di posizione italiane. Anche per quelle martellanti pressioni sul Brasile, l’Avvocatura conclude che: «Ci sono ponderate ragioni per ipotizzare che il detenuto potrebbe soffrire forme di aggravamento della sua situazione». Un concetto che fa riferimento al trattato di estradizione tra Italia e Brasile laddove si afferma che: «L’estradizione non sarà concessa se la parte richiesta ha fondati motivi per ritenere che la persona sarà oggetto di atti di molestie e discriminazioni basate su razza, religione, sesso, nazionalità, lingua, opinioni politiche, condizione sociale o situazione personale, o la sua posizione potrebbe essere aggravata da uno degli elementi di cui sopra». Una preoccupazione infondata, nell’Italia di oggi, quella dell’«aggravamento» a causa delle opinioni politiche del condannato? Non ci pare proprio, e la canea forcaiola che non ha perso questa ghiotta occasione per mettersi in mostra sta lì ad evidenziarlo.

Una Repubblica fondata sulle manette

Quella italiana è da almeno un trentennio, ma potremmo andare anche più indietro, una Repubblica fondata sulle manette. Non a caso, tutta la legislazione emergenzialista, varata alla fine degli anni ’70, vide la luce con un larghissimo consenso che includeva sostanzialmente anche il Pci. Nel tempo la “sicurezza” è diventata una vera ossessione nazionale. Un’arma di distrazione di massa da usare in ogni passaggio delicato della vita nazionale. Ma anche un’arma sempre utile per un potenziamento continuo degli strumenti repressivi dello Stato. Difficile dimenticarsi, ad esempio, la riunione d’emergenza del gabinetto Prodi, tenutasi in una sera dell’autunno 2007, per varare misure eccezionali a seguito dell’omicidio di una donna ad opera di un immigrato romeno.

L’ossessione della “sicurezza” sta riempiendo le carceri italiane, ormai vicine alla soglia dei 70mila detenuti, ma anche le pagine dei quotidiani e dei servizi dei telegiornali. Abbiamo così il paradosso – solo apparente, come quasi tutti i paradossi – che la classe politica più malavitosa dall’unità d’Italia si faccia forza proprio della cosiddetta “lotta al crimine”. Ed abbiamo, a disvelare la complicità che tiene unito il sistema politico, un’opposizione parlamentare che fa a gara con la maggioranza per chi è più manettaro dell’altro. Se questo è vero in generale, il parossismo viene raggiunto quando si parla di reati politici, cioè, nella terminologia che si è imposta, di “terrorismo”.

Si discute di Cesare Battisti per fatti compiuti tra il 1978 ed il 1979. Ma quel che vale per Battisti, vale a maggior ragione (dato che sono in carcere da alcuni decenni) per i militanti politici detenuti nelle carceri italiane. La testardaggine con la quale non si vuole riconoscere la dignità politica a questi prigionieri, che va di pari passo con il disconoscimento del carattere politico dei fatti che costellarono quella che altro non fu se non una guerra civile a bassa intensità, è una prova tra le tante della miseria e della disonestà intellettuale, prima ancora che politica, di un’intera classe dirigente. Una classe dirigente che non solo non vuol prendere neppure in considerazione l’ipotesi dell’amnistia, ma che continua ad arroccarsi – ormai da 35 anni! – dietro alle solite frasi di rito, aiutata in questo da un sistema mediatico allergico ad ogni riflessione, il cui infimo livello non ha eguali in Europa.

Dilettanti allo sbaraglio

Fin qui le considerazioni serie. Ora potremmo anche farci qualche grassa risata sul dilettantismo di una classe politica definitivamente allo sbando. Ci capita, ormai con una certa frequenza, di dover segnalare questo aspetto peculiare dell’Italia di oggi. Capita di doverlo fare parlando delle vicende parlamentari, della vita dei partiti, dei criteri di selezione del personale politico, della subalternità assoluta alle oligarchie finanziarie come all’Unione Europea ed agli Stati Uniti. Capita di doverlo rilevare per come si gestiscono le “emergenze”, recentemente perfino quella provocata da qualche centimetro di neve; mentre per rimuovere dalle strade di Napoli qualche centinaio di tonnellate di rifiuti si è addirittura riunito il Consiglio dei ministri e si è mobilitato l’esercito. Ma il dilettantismo arrogante quanto impotente, mostrato nella vicenda Battisti, ci parla di una classe politica davvero alla frutta.

Quando mai si sono viste pressioni come quelle esercitate sul Brasile? Quando mai si è visto un ministro della difesa occuparsi di una questione di estradizioni? Quando mai si è visto un partito (il Pd) intimare al presidente di un altro stato una scelta di natura giuridica? E a che cosa poteva portare questo florilegio di assurde pretese se non all’irrigidimento del Brasile? La cosa è talmente evidente che il ministro degli esteri brasiliano, Celso Amorim, dopo aver definito «impertinenti» le dichiarazioni italiane, ha detto che esse: «hanno rafforzato l’idea che l’estradizione potrebbe aggravare la situazione di Battisti in Italia». Insomma, se i geni che guidano il governo come l’opposizione parlamentare credevano di ottenere dei risultati con le minacce e le grida messe in campo, il risultato non poteva che essere quello che è stato: una sonora botta nei denti. Una botta che dimostra che costoro non solo hanno dimenticato le più elementari regole della diplomazia, ma che non dispongono neppure di aggiornate mappe geopolitiche. Se ne avessero consultato una, anche la più superficiale, avrebbero subito capito che quella non era la strada. Perlomeno non con il Brasile.

Ora, a botta giustamente ricevuta, fanno i gradassi. Ritirano l’ambasciatore, congelano il Trattato strategico con il Brasile, annunciano ricorsi alla Corte costituzionale brasiliana ed addirittura a quella dell’Aja. In una parola, hanno perso la testa. Ed in attesa di rientrarne in possesso fanno a gara a chi la spara più grossa. Se per lo sfiatato Gasparri non ci si poteva aspettare altro da un paese che ha eletto come presidente un’ex guerrigliera – «La vergogna ricopre l’intero Brasile. Guerriglieri al vertice vogliono i terroristi impuniti. Non rimarremo in silenzio. Lula protegge un assassino. Ne condivide così le responsabilità» (Asca, 31 dicembre) – il governo italiano ha invece scelto di chiedere alla neoeletta Roussef di smentire immediatamente l’ultimo atto della presidenza Lula. Ai lettori l’ardua scelta di stabilire chi sia più cretino.

Ma la barzelletta più divertente è quella della minaccia di congelamento del Trattato strategico, che include anche forniture militari italiane e che interessa aziende come Fiat, Finmeccanica, Fincantieri, eccetera. Chi danneggerebbe l’eventuale congelamento se non l’Italia? La minaccia al Brasile è talmente ridicola che possiamo essere certi che tutto andrà a finire nella più classica delle bolle di sapone. O almeno così dovrebbe, alla faccia delle feroci facce di La Russa e Gasparri. O forse anche questo è troppo razionale per l’Italia d’oggi?