La rivolta dei giovani disoccupati in Tunisia

Dopo quasi 20 giorni di agonia Mohamed Bouazizi, il simbolo della rivolta tunisina di dicembre, è morto. Il 17 dicembre a Sidi Bouzid, nel centro della Tunisia, Bouazizi si era dato fuoco dopo che la polizia gli aveva confiscato il banco degli ortaggi che vendeva senza licenza.
Il giovane venditore ambulante (26 anni) era disoccupato nonostante fosse laureato, una condizione simile a molti suoi coetanei, tant’è che i moti che ne sono seguiti sono stati definiti come la “rivolta dei laureati”.

A dimostrazione della drammatica situazione tunisina, il gesto di Bouazizi non è rimasto isolato. Il giorno successivo (18 dicembre) era la volta di Lofti Guadri, un uomo di 34 anni, anch’egli laureato e senza lavoro, che si suicidava gettandosi in un pozzo a Gdera, vicino a Sidi Bouzid. Passano 4 giorni quando, sempre a Sidi Bouzid, si uccide salendo su un traliccio dell’alta tensione un ragazzo di 24 anni. «Basta miseria, basta disoccupazione», questo è il suo grido prima di rimanere fulminato.

Già questa incredibile sequenza di suicidi mostra quanto sia profondo il malessere sociale nel paese governato dal dittatore Ben Alì, tanto amato dall’occidente. Ma la rabbia popolare, scatenata dal gesto di Bouazizi, ha toccato diverse zone del paese, da Sfax a Sousse, alla stessa Tunisi. Incidenti si sono verificati un po’ ovunque, e la polizia ha sparato in più di un’occasione. Particolarmente dure le proteste a Regued e a Sidi Bouzid, dove si è registrato un morto e diversi feriti tra i manifestanti. In queste città i giovani hanno attaccato una banca, il tribunale, la sede della Guardia Nazionale ed altri simboli del potere. 

Quali sono le ragioni di questa rivolta, che è solo l’ultima di una lunga serie? Semplice: la disoccupazione e la povertà. Se la disoccupazione è ormai al 30% su scala nazionale, nella zona epicentrale della rivolta raggiunge addirittura il 50%. La Tunisia ha un tasso di incremento annuale del Pil attorno al 5%, ma questa crescita si concentra nelle zone litoranee del nord (anche grazie all’afflusso turistico dall’Europa), mentre le altre regioni restano in una condizione di grande miseria. E non va dimenticato che buona parte della ricchezza nazionale viene razziata da un regime che si fonda sulla corruzione e sul nepotismo.

E’ un regime, quello di Ben Alì, che ormai si regge fondamentalmente su un’asfissiante controllo poliziesco. Ecco come riferisce il clima della capitale, Tunisi, l’inviato della Repubblica Alberto Flores D’Arcais lo scorso 31 dicembre: «Davanti al ministero degli Affari Sociali, a pochi minuti dalla Medina, il cuore di Tunisi, una cinquantina di persone discute animatamente. “Non faccia troppe domande, qui in giro ci sono diversi poliziotti, no, questa non è una manifestazione di protesta, stiamo solo chiacchierando tra di noi”. Solo uno dei più giovani accetta di allontanarsi per rispondere a qualche domanda, dice di chiamarsi Ahmed, “un nome molto diffuso”, quando lo dice ridacchia. “Si è vero, anche qui nella capitale ci sono state proteste e se continua così altre ce ne saranno. No, niente di organizzato, è che siamo stufi, la crisi colpisce tutti, ma noi giovani ne paghiamo il prezzo più alto. Non dia retta ai giornali, quelli sono tutti schierati con il governo, solo Al Jazeera racconta come vanno veramente le cose”».

Poco più di un anno fa, nell’ottobre 2009, Ben Alì aveva stravinto elezioni politiche truccate come al solito, ma come scrivevamo in quell’occasione (vedi Tunisia – La dittatura nel cortile europeo): «l’immobilismo politico e la stabilità del regime, non equivalgono automaticamente a solidità politica o stabilità sociale». I fatti di queste ultime settimane lo hanno confermato alla grande, al punto che per lo stesso Flores D’Arcais: «Per Ben Ali si tratta della crisi più grave da quando 23 anni fa è salito al potere».

Speriamo che sia la volta buona, e intanto manifestiamo tutta la nostra solidarietà alla gioventù tunisina in rivolta!