L’attuale presidente del Sud Sudan Salva Kiir Mayardit
col suo grande sponsor G.W. Bush
Fattori endogeni si incontrano infine con fattori geo-politici di primaria importanza. I vecchi attriti tra le tradizionali potenze imperialistiche hanno lasciato il posto, a causa dell’irrompere del capitalismo cinese, ad una dinamica nuova: gli imperialisti occidentali hanno smesso di bisticciare e hanno fatto causa comune per tenere testa all’apparentemente inarrestabile penetrazione cinese, la quale non consiste anzitutto in invasione di mercanzie e di manufatti d’ogni genere, ma da almeno un decennio in un flusso crescente di capitale finanziario.
E’ in questo contesto che va inquadrata la situazione in Sudan.
Ieri, 9 gennaio, il Sud del paese, ha celebrato il referendum per decidere se separarsi o meno dal Sudan per dare vita ad una nuova entità statuale. La vittoria, malgrado lo stesso fronte sudista sia diviso e spaccato, appare scontata. Il «Sì» alla separazione otterrà una maggioranza schiacciante, così come chiede il principale movimento politico indipendentista, il SPLM-A (Sudan People’s Liberation Movement-Army). Ricordiamo che questo Referendum era previsto negli Accordi di pace siglati nel 2005 (più noti come CPA-Comprehensive Peace Agreement).
Non è nostro costume girare attorno al problema. Noi riconosciamo in linea di principio, ad ogni popolo e ad ogni nazione, il diritto all’autodeterminazione. Lo riconosciamo quindi anche a quel puzzle di etnie e tribù che compongono il Sud Sudan, che per altro combattono per i loro diritti da oramai quattro decenni. Puzzle di etnie e tribù appunto, e non propriamente “nazione”, visto che quest’ultima categoria, di evidente scaturigini europee, risulta del tutto estranea all’Africa, quanto meno a quella sub-sahariana. Si potrebbe dunque disquisire a lungo se le genti del Sud Sudan costituiscano una nazione effettiva. Come del resto si deve disquisire sui criteri con cui i colonialisti inglesi hanno tracciato le frontiere degli Stati a cui concederanno l’indipendenza, tra cui lo stesso Sudan il quale, in quanto ad essere Stato-nazione, non è meno effimero dei suoi confinanti.
Decenni di guerra civile, in cui i sudisti hanno pagato un enorme tributo di sangue, hanno tuttavia fatto sì che il Sud Sudan (chissà che nome verrà escogitato per il nascituro Stato), malgrado la sua eterogeneità linguistica, etnica e tribale, si guadagnasse, se non lo status di “nazione”, il diritto all’indipendenza — visto ché tutti i tentativi di coabitare pacificamente in un grande Sudan federale sono falliti.
Tuttavia, come esistono le eccezioni che confermano la norma, questa posizione di principio ha delle potenti controindicazioni di natura squisitamente politica. Se la prima guerra civile (1956-1972) non era una guerra per procura, la seconda, quella che ricominciò nel 1983 e che si concluse con gli Accordi del 2005, lo è stata senza alcun dubbio, quantomeno a partire dal 1989, anno in cui al-Bashir si insediò al potere. Da questo momento gli Stati Uniti mettono all’indice il governo centrale di Khartoum, lo sottopongono a sanzioni successive, lo additano come “Stato canaglia” e, parallelamente, offrono un sostegno totale e incondizionato agli indipendentisti del Sud (nonché alla guerriglia del Darfur, che infatti agiva e agisce in combutta con quella sudista). Il pesante intervento statunitense, divenuto sistematico dagli inizi degli anni ’90, si giustificava non solo con la volontà di stroncare sul nascere un regime considerato “ostile” e antimperialista, ma con quello di assicurare alle proprie multinazionali il monopolio dei diritti di estrazione del petrolio, nel frattempo scoperto in grandi quantità.
Da questo momento la lotta dei sudisti non era più solo una, sul piano dei principi, legittima lotta di liberazione, era diventata una illegittima guerra per procura, e il SLA-M una longa manus dell’imperialismo americano, una protesi politico-militare della Casa Bianca per spezzettare il Sudan in diversi pezzi e farlo sparire come entità politica statuale.
In politica i principi vengono al primo posto, ma essi non consistono in categorie metafisiche intangibili. I principi, nella lotta politica, vanno difesi alla luce della realtà e dei suoi mutamenti. I principi sottostanno alla strategia, come il particolare al generale. Come ebbe modo di dire Lenin, non si può sostenere la secessione di un popolo se questa è negli interessi, prima ancora che del popolo in questione, di una grande potenza imperialistica che per i suoi propri fini ha interesse a indebolire o annientare uno Stato il quale, pur in maniera spuria, lotta e contrasta contro l’imperialismo. In estrema sintesi: noi oggi non possiamo sostenere la frantumazione del Sudan in piccole entità statuali, poiché ciò sarebbe nell’interesse della coalizione imperialistica capeggiata dagli USA. Il disegno occidentale è infatti evidente: far fuori tutti gli ostacoli che si frappongono al suo predominio, in Africa come altrove, è in questo quadro che essi aiutano e armano i più disparati “movimenti di liberazione” e tendono a sostituire uno Stato forte con piccole entità statuali vassalle. Non è un caso che gli accordi di pace (CPA) del 2005 furono sponsorizzati dagli USA e delineati a Washington sotto la regia dell’ambasciatore americano John C. Danforth.
In un contesto internazionale difficilissimo, segnato dalla controffensiva americana (invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq), vittima di un pesante isolamento, il governo sudanese di al-Bashir sottoscrisse quegli accordi obtorto collo. Si tenga conto che nel frattempo, con abile regia, l’imperialismo stava conficcando nel corpo del Sudan, un’altra lama, la guerriglia in Darfur — senza dimenticare gli altri focolai irredentisti nello Stato Sud Kurdufan e le montagne Nuba, nello Stato del Nilo Blu, per finire con gli stati orientali del Mar Rosso dove, a dispetto della pace formale, operano frazioni guerrigliere legate ai darfuriani e ai sudisti.
Si poteva sperare che, ripreso fiato dopo gli accordi del 2005, il governo di Khartoum, avrebbe posto in essere una politica tesa a contrastare efficacemente gli americani, a dividere le opposizioni, ad isolare i leader indiscutibilmente venduti all’imperialismo, a rafforzare la sua influenza non solo tra le popolazione islamiche e di madrelingua araba. Questo non è avvenuto. Per quanto il consenso di al-Bashir nel Nord del paese sia indiscusso, la sua posizione appare più debole, e non solo per l’infame mandato di cattura contro di lui spiccato dalla Corte penale Internazionale dell’Aia. Nei sei anni che ci separano dal 2005 l’esercito dei sudisti non ha perso tempo, grazie all’aiuto indispensabile degli americani, ha approfittato della tregua per armarsi di tutto punto. Mentre vigeva la tregua al sud esplodeva la guerriglia in Darfur, sostenuta da un’abilissima campagna internazionale di propaganda. Il governo di Khartoum non ha quindi mai cessato di considerasi in guerra, ed è comprensibile la sua sindrome da accerchiamento. La pace ha fatto si che la capitale conoscesse un radicale processo di modernizzazione, ma come dicono le opposizioni, a danno delle provincie, che non avrebbero usufruito degli aiuti necessari. Di sicuro anche dell’esercito sudanese, il quale non esclude affatto che proprio dopo il referendum del 9 gennaio, il conflitto possa riaccendersi in modo deflagrante.
Tra i dettagli degli accordi di pace del 2005 (CPA) si nasconde infatti il demonio. I confine tra il Nord e il Sud, in base a quegli accordi, seguiranno infatti le linee divisorie tra le provincie e i distretti così come furono tracciati dai colonialisti inglesi. Confini non solo aleatori, ma effimeri. Nord islamico e sud cristiano, si dice. Quale sciocchezza! La divisione religiosa non è affatto un criterio decisivo, dato che il vero pomo della discordia sono i giacimenti petroliferi, da una parte, e dall’altra i rispettivi diritti delle tribù che abitano a ridosso delle frontiere.
La questione dei giacimenti petroliferi e di chi ne abbia la potestà è infatti lungi dall’essere risolta. Per i sudisti essi fanno parte del Sud, secondo Khartoum i giacimenti si trovano invece nello stato del Kurdufan del sud, dove appunto ricade il distretto di Abyei.
Il contenzioso riguarda anzitutto le tribù e le comunità nomadi, che fanno avanti e indietro a seconda della disponibilità di pascolo per la mandrie e che si muovono con l’alternarsi della stagione delle piogge (oltre al petrolio v’è dunque in ballo un’esplosiva questione dell’acqua e della disponibilità delle risorse idriche). E’ il caso, emblematico, del conflitto tra la tribù dei Masiriya, sostenute da Khartoum, e l’etnia dei Dinka, sostenuta dai sudisti. Distretto scottante, visto che sul suo sottosuolo giacciono i lembi settentrionali dei grandi giacimenti petroliferi e su cui insistono già oggi alcuni pozzi d’estrazione (in mano cinese).
A chi apparterrà Abyei? Al Nord o al Sud? Gli analisti parlano di una vera e propria bomba ad orologeria, la scintilla che potrebbe scatenare una nuova guerra. E’ un fatto che a causa dell’impossibilità o delle difficoltà a registrare gli elettori, il distretto di Abyei, ieri, non ha partecipato al referendum del Sud. In pratica Abyei rimarrà una zona contesa che potrebbe essere usata da ambo i lati come pretesto.
Di una cosa siamo certi: Khartoum non ha alcuna intenzione di cederla ai sudisti, la qual cosa è nota agli occidentali, i quali si stanno ingegnando per trovare una soluzione, per essere chiari un pasticcio del tipo: Abyei appartiene al Sud, ma dovrà essere affittata al Nord per sei anni, nel frattempo saranno elargiti un po’ di quattrini alle tribù nomadi. Una soluzione che non sta in piedi, e che Khartoum respingerà, poiché non cederà dalla posizione che Abyei, essendo abitata in larga parte dai Masiriya, appartiene al Sudan.
Gli Accordi di pace (CPA) del 2005 prevedono, dopo il referendum, un periodo di transizione di sei mesi, con scadenza l’11 luglio del 2011, per definire i confini definitivi tra Nord e Sud. Potremmo sbagliarci ma la nostra opinione è che nessun accordo sarà siglato, né prima, né dopo l’11 luglio prossimo. La bomba ad orologeria di Abyei non sarà disinnescata, e potrebbe esplodere da un momento all’altro. Non c’è di mezzo solo il destino del distretto, ma quello di ciò che resta del Sudan come entità statuale unitaria, la sua collocazione geopolitica internazionale, le sorti del governo di al-Bashir e quelle sue personali e, sullo sfondo le controversie sull’uso e la distribuzione delle risorse petrolifere e idriche.