Inchiesta sui moti in Tunisia e Algeria
Prima Parte: la Tunisia
Ha dello scandaloso il sostanziale blackout informativo a cui si sono attenuti e si vanno attenendo i principali media italiani e occidentali sui moti popolari che hanno scosso la Tunisia e l’Algeria. Basta che qualcuno starnuti a Tehran o a Caracas, a Rangoon o a Minsk ed ecco che i nostri mezzi d’informazione non risparmiano fiumi d’inchiostro, copertine dei Tg, ore di servizi speciali. Per non parlare della assordanti campagne umanitarie, vedi quella per Sakineh o per Asia Bibi in Pakistan. Neanche una lacrima, i nostri mezzi d’informazione, hanno invece versato per i tre cittadini tunisini suicidatisi in segno di protesta. Poche scarne righe sulla cruenta repressione avvenuta sia in Tunisia che in Algeria.
Due pesi e due misure. Quando si tratta di coccolare gli oppositori di governi ostili all’imperialismo occidentale, si scatena una vera e propria guerra dell’informazione, spesso basata sulla menzogna, si inneggia alle “rivoluzioni colorate”. Quando bersagli delle proteste sono i corrotti governi alleati, scatta la medesima tecnica della menzogna, che in questi casi consiste nel silenzio e nella censura. Un silenzio complice, sfrontato, vergognoso, repellente. Ciò la dice lunga sul tasso di obiettività della vanitosa informazione occidentale, sulla pluralità di cui l’Occidente va tanto fiero, come sulla disonestà intellettuale dei tecnici del dominio informativo.
Tunisia: la rivolta di massa, le sue cause e le sue caratteristiche
Una fiammata o l’inizio di un ciclo?
Ci auguriamo l’inizio di un ciclo, e se è così destinato ad estendersi. Il vento della sommossa nato in Tunisia si è infatti subito esteso, prima in Algeria, poi in Giordania. Il Re Abdallah II è dovuto intervenire di persona, proprio ieri, 10 gennaio, imponendo un immediato blocco dell’aumento dei prezzi del pane e dello zucchero, obbligando altresì l’Esercito, che con le sue ottanta cooperative alimentari gestisce buona parte della distribuzione, a fare altrettanto. I pochi sindacati tollerati nel regno hanno indetto per venerdì prossimo, 14 gennaio una protesta a scala nazionale. Se non è uno sciopero generale poco ci manca. [Le Monde, 11 gennaio 2011].
Nel frattempo, se in Algeria regna un ordine cimiteriale (qui ci sono stati 5 morti e 800 feriti, ma si sospetta che il bilancio si molto più grave), in Tunisia la mobilitazione continua, sfidando la risposta di piombo del regime di Ben Alì.
Ma torniamo all’origine della rivolta popolare. Torniamo in Tunisia. Esattamente a Sidi Bouzid, la cittadina dell’interno da cui, il 17 dicembre, tutto è iniziato. E tutto è cominciato da un suicidio, quello di Mohamed Bouazizi, disperato perché non poteva dar da mangiare ai suoi figli. Nello spazio di dieci giorni il suo esempio scioccante sarà seguito da altri due cittadini. Houcine Neji si è appeso ad un pilone dell’alta tensione, mentre Lotsi Guadri si è gettato in un pozzo. Il gesto disperato di Bouazizi, cogliendo di sorpresa le autorità, ha innescato un movimento di protesta che diventerà una vera e propria rivolta popolare. Una rivolta «per il pane e per la libertà», che vede i settori più poveri della popolazione, i giovani anzitutto fungere da forza motrice, trainante, di moti che nei giorni successivi coinvolgono anche studenti, ceto medio, professionisti. Iniziata come rivolta per il pane, la rivolta diventa una sommossa per la libertà, ovvero ha assunto squisiti connotati politici. Non si chiedeva più soltanto il blocco dei prezzi di prima necessità, il diritto al lavoro, ma la libertà di espressione, la democrazia, la fine della dittatura di Ben Alì, un governo del popolo per il popolo.
La risposta del regime mafioso di Ben Alì è stata durissima. Spregevole satrapo dell’Occidente, sicuro dell’indulgenza delle capitali europee e di quella americana, ha lanciato le sue forze di sicurezza sui dimostranti, nella speranza che il suo proverbiale pugno di ferro avrebbe fermato sul nascere la protesta. Madornale errore di calcolo. La lotta popolare si è estesa e consolidata, coinvolgendo un po’ tutte le regioni, dal nord al sud, dalla costa all’interno, giungendo fino alla capitale e trascinando in piazza settori sociali che fino a ieri tacevano, avendo negoziato col regime un relativo benessere in cambio del proprio silente sostegno.
Il bilancio degli incidenti è drammatico. Il regime parla di 14 ammazzati, i comitati popolari dicono invece che la polizia ne ha uccisi ben 60. 60 manifestanti uccisi (20 nella sola cittadina occidentale di Kasserine)! Ciò da una idea dell’enormità dell’accaduto e di quanto sta ancora oggi accadendo in Tunisia. Sta accadendo che col sangue, anche quello dei poliziotti del regime — con buona pace dei pacifisti e dei paci-finti delle nostre parti, sempre pronti a condannare la violenza, anche quando a ricorrere ad essa è un intero popolo — si è messo in moto un movimento politico che punta alla caduta del regime.
Chi è Ben Alì
Chi sia il “democratico” Ben Alì, l’amico di Craxi, ce lo ricordò Fulvio Martini, allora capo del Sismi. Martini dichiarò il 6 ottobre 1999 alla Commissione Stragi del Parlamento: «Negli anni 1985-1987 noi organizzammo una specie di colpo di stato in Tunisia, mettendo Ben Alì alla presidenza e sostituendo Bourghiba, ormai senescente, che voleva fuggire». [Alberto Negri, Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2011]
Sorse così una tirannia legata a doppio filo all’Europa imperialista. Da allora affari a gogò per le aziende, italiane e soprattutto francesi, che lì hanno delocalizzato varie produzioni (750 sono le aziende italiane operanti nel paese), anzitutto tessili, trasferitesi grazie ai bassi salari (200 euro mensili) e al regime schiavistico nelle fabbriche, assicurato da una legislazione di tipo fascista per cui il solo sindacato consentito è solo quello filo-governativo.
Un regime che non a caso i tunisini definiscono “mafioso”. Tutto è in mano al clan di Ben Alì e della sua famiglia. Tutto, vuol dire che il clan ha arraffato tutto l’arraffabile: una pletora di parenti-dignitari che possiedono industrie, villaggi turistici, radio, giornali, banche, compagnie aeree, server internet. Un’oligarchia ripugnante e smargiassa, un sistema fondato sulla censura preventiva e un capillare controllo poliziesco. La censura su internet c’è da sempre, ma nel febbraio scorso sono scattate nuove pesanti restrizioni per tutti i siti e i blogger. Telefonate sotto controllo, così come la posta elettronica, tutta intercettata dai servizi segreti. Lo stesso codice penale è stato modificato, prevedendo, per compiacere i pescecani investitori esteri, addirittura il carcere per coloro che “diffondono notizie negative sull’economia tunisina”.
Nessuna opposizione, se non quella benvoluta dal regime è tollerata. Nelle “libere elezioni” sono ammessi come candidati “indipendenti” solo quelli scelti dallo stesso clan dominante.
Questo regime dispotico si era fatto le ossa, col pieno sostegno delle “democrazie” occidentali, proprio soffocando e sterminando le opposizioni islamica e comunista. Sul finire degli anni ’80 e per tutti i novanta 30mila persone venne incarcerate, migliaia fuggirono all’estero, decine furono i “desaparecidos”, centinaia i casi di tortura. L’ordine dei giornalisti epurato dai giornalisti democratici, di sinistra o tacciati di avere simpatie islamiste. Col terrore Ben Alì evitò allora il contagio della guerriglia e del terrorismo islamisti allora imperanti in Algeria.
Da allora le opposizioni sono di fatto illegali e resistono in condizioni difficilissime. I partiti e i movimenti di ispirazione marxista e islamista (esclusi i salafiti, tra l’altro i più colpiti dalla mannaia repressiva) hanno tentato a più riprese di fare fronte comune, nonché di presentare proprie liste ai vari gradi elettorali. Senza successo, a causa della spietata repressione preventiva. Il nostro augurio è che la rivolta, avendo azzoppato il regime, dia ossigeno alle opposizioni e che queste abbiano il coraggio e la determinazione di non venire a patti col tiranno. Il quale, presentatosi ieri (10 gennaio) alla TV a reti unificate, ha ostentato la carota, promettendo il blocco dei prezzi e investimenti per debellare la disoccupazione, come pure il bastone, affermando che i “disordini sono stati fomentati da elementi stranieri” (sic!), e che farà rispettare la legge.
Non riuscirà a fare né l’una né l’altra cosa. Non potrà arginare la disoccupazione e l’aumento dei prezzi, le cui cause attengono alla crisi di tutto il sistema economico occidentale (di cui la Tunisia è un orpello), né riuscirà a fermare il fiume in piena della protesta popolare. La repressione dura può arrestare movimenti di piccole minoranze, non di certo un movimento di massa.
Non riusciremmo a chiudere questa prima parte senza segnalare ai lettori un tentativo maldestro e goffo. Dopo aver aderito alla generale congiura del silenzio informativo, davanti all’enormità degli avvenimenti, Il Sole 24 Ore del Riotta, ha ordinato ad una delle sue penne più brillanti e argute, Alberto Negri, di dire qualcosa. E non ha detto, come gli è usuale, cose sciocche. Il bello, anzi il ridicolo, viene a galla leggendo l’articolo a firma Karima Moual. Il titolo è tutto un programma: «Le motivazioni più profonde della protesta: in piazza per il futuro non per il pane». Il tentativo esilarante è quello di cooptare le sommosse in Tunisia e Algeria nel torbido pentolone delle “rivoluzioni colorate” e filo-occidentali. Sentiamo: «Il Maghreb, che tradotto significa Occidente, con i suoi giovani, mai è stato più vicino a noi di come lo è oggi. E’ la generazione di internet, come viene chiamata in Marocco, che parla lo stesso linguaggio, può ascoltare la stessa musica, vestirsi allo stesso modo e avere le stesse aspirazioni e ideali di chi vive in Francia, Germania, Italia o Spagna».
Ma essendo che alla stoltezza non c’è limite, la Moual conclude: «C’è poi un aspetto fondamentale da non trascurare, al kamikaze che lascia dietro di sé odio e distruzione, si contrappone una figura nuova: quella di chi si suicida lasciando dietro di sé un messaggio, una speranza per gli altri». [Il Sole 24 Ore, 11 gennaio]
Al che, di fronte a tale enorme perla di filisteismo borghese, abbiamo avuto un irrefrenabile impulso, quello di sputargli in faccia. Invece no, merita solo una sonora pernacchia.