La situazione tunisina a quattro giorni dalla cacciata di Ben Ali
A caldo, la sera di venerdì 14, abbiamo scritto che: «Quella vinta oggi è solo una battaglia di una lunga guerra, in Tunisia e non solo».
I fatti dei giorni successivi non potevano che confermare questa fotografia della situazione tunisina. Un aggiornamento è però necessario, ma avendo ben chiaro che siamo dentro ad un quadro fluido, dinamico, suscettibile di sviluppi assai diversi e per niente predeterminati.
Questa banale precisazione è in realtà indispensabile, visti alcuni ragionamenti che circolano soprattutto in rete. C’è chi si stupisce perché il regime sta tentando di sopravvivere al proprio crollo ed alla fuga di Ben Ali con una classica operazione di chirurgia plastica; c’è chi dichiara che tutto è finito e che in fondo si è trattato soltanto di un ricambio gestito dall’esercito su mandato delle potenze occidentali. Al contrario, noi non ci stupiamo né dell’estremo tentativo degli uomini del vecchio regime di restare in sella, né del cambio di cavallo e degli aggiustamenti tattici operati da Francia, Stati Uniti ed Italia. Ci stupiamo piuttosto dello stupore, e ci indigniamo invece con chi – riducendo sempre tutto a lotta tra i “dominanti” – non riesce più neppure a concepire il ruolo delle rivolte popolari.
Abbiamo scritto “rivolta” e non “rivoluzione”, perché questo è il quadro tunisino. Ma le rivoluzioni, da un certo punto di vista, altro non sono che rivolte che riescono a produrre radicali mutamenti politici e sociali. Se può esserci – e quasi sempre è così – una rivolta senza rivoluzione, non può esistere mai una rivoluzione senza rivolta. Monsieur de La Palice ci perdoni per la spietata concorrenza che gli stiamo facendo, ma a volte è necessario partire dall’abc…
Il fatto è che la rivolta popolare in Tunisia ha intanto segnato un primo punto a proprio favore, ha vinto una battaglia tutt’altro che facile, anche se la guerra è sempre lunga. Quando una rivolta vince, incrinando seriamente il precedente assetto di potere, si apre di fatto un’autentica potenzialità rivoluzionaria. Inutile dire che essa assume forme diverse nei diversi contesti storico-politici, l’essenziale è comprendere che questa è la situazione tunisina.
Una rivolta ha vinto (nel senso prima precisato), le forze del regime benché in difficoltà tentano di resistere in tutti i modi, soprattutto con il mascheramento e l’imbroglio, le forze popolari non accettano l’inganno e la lotta continua. Gli eventi degli ultimi quattro giorni in Tunisia si inquadrano tutti, ed in maniera pressoché perfetta, in questo schema.
Ben Ali ha dovuto organizzare la sua fuga in fretta e furia, dopo aver giocato l’ultima carta di una serie incredibile di promesse ai tunisini, promesse alle quali evidentemente nessuno ha creduto. Le potenze occidentali lo hanno appoggiato fino all’ultimo. Andarsi a rileggere le dichiarazioni anche solo di una settimana fa sarebbe sufficiente a togliere ogni dubbio.
Il ministro degli esteri francese, Alliot-Marie, ha detto ai deputati che: «La Francia non ha capito quello che stava per succedere. Siamo onesti, tutti noi, uomini politici, diplomatici, ricercatori, giornalisti, siamo stati sorpresi dalla rivoluzione del gelsomino».
«Siamo stati sorpresi», questa è la verità. Che poi, subito dopo, sia stato dato il disco verde ai militari per tentare l’ennesima operazione gattopardesca, questo è fin troppo evidente.
Evidente, ma anche naturale: quando mai le forze dominanti cedono il potere senza prima provarle di tutte per conservarlo?
Il governo Ghannouchi rappresenta un chiaro tentativo di plastica facciale, ma se il buongiorno si vede dal mattino possiamo dire che l’intervento chirurgico non è riuscito al meglio. Intanto ci sono alcuni aspetti comici di questo rapidissimo mascheramento: Ghannouchi ed il presidente ad interim Mebazaa si sono dimessi dal partito Rcd (Raggruppamento costituzionale democratico) di Ben Ali, mentre lo stesso ex presidente sarebbe stato radiato dal Rcd…
Ma, ancora più significativo, ben cinque ministri (di cui tre provenienti dal sindacato Ugtt) si sono rifiutati di giurare, rendendo ancora più chiara la natura continuista con il vecchio regime del governo Ghannouchi.
Quel che più conta è che il popolo tunisino non sembra disposto a farsi ingannare. Nuove manifestazioni si sono tenute nella capitale, a Sfax, e nei centri da cui la rivolta è partita (Sidi Bouzid, Regueb e Kasserine). «Abbattiamo la dittatura», «Non facciamoci scippare la rivoluzione», queste le parole d’ordine per dire esplicitamente che nessun membro dell’Rcd dovrà far parte del governo provvisorio.
Altrettanto chiare le posizioni delle forze di opposizione, comunisti ed islamisti in particolare.
Il segretario del PCOT (Partito Comunista Operaio Tunisino) Hamma Hammami ha detto che: «Ghannouchi vuole riproporre il regime di Ben Ali senza Ben Ali. Il nuovo governo non risponde alle aspirazioni del popolo e noi lo respingiamo».
Analoghe le valutazioni degli islamici del movimento Ennahda, i cui esponenti guidavano il corteo di Tunisi contro il premier Ghannouchi. Questo movimento, tuttora fuorilegge, vede il suo leader in esilio a Londra da dove non può rientrare senza un’amnistia. «Il nuovo governo non rappresenta il popolo e deve cadere» ha detto un suo portavoce a Tunisi.
Contro il nuovo esecutivo oltre al già citato Ugtt, anche altre forze dell’opposizione moderata, come il Cpr (Congresso per la Repubblica).
Insomma, nonostante l’appoggio di Obama e Sarkozy (sorvoliamo qui sulle penose posizioni del governo italiano) la plastica facciale non sembra proprio riuscita.
Nel frattempo continuano i segnali di un contagio in diversi paesi arabi. Dopo l’Algeria e la Giordania, ci sono da segnalare manifestazioni di solidarietà nello Yemen, mentre in Egitto è morto un uomo che si è dato fuoco per protesta. E’ proprio la possibilità che il contagio si estenda all’Egitto a terrorizzare l’occidente. Una possibilità tutt’altro che remota, così come ha ricordato l’oppositore egiziano Ibrahim Issa, ex direttore del quotidiano Al-Dustor, sulle pagine del Messaggero: «E’ probabile che ci sia un effetto domino e che l’ondata rivoluzionaria si propaghi. Questo non vuol dire che in Egitto la rivolta deve assumere la stessa forma di quella tunisina. Spero che il nostro Paese prenda esempio dalla Tunisia dove la rivoluzione ha avuto successo perché alle rivendicazioni di natura economica si sono sommate quelle politiche».
Chi vivrà vedrà, ma tutto fa pensare che chi già sminuisce la portata della rivolta tunisina sbagli di grosso. La verità è che la lotta continua e che sarebbe il momento di far sentire anche dall’Europa una più forte solidarietà internazionalista.