La relazione di Leonardo Mazzei al convegno di Chianciano del 30-31 ottobre 2010
Perché parliamo di catastrofe
Innanzitutto una premessa a proposito del titolo dato a questa relazione. Siamo forse diventati catastrofisti o siamo semplicemente realisti? I caratteri della crisi, il declino dell’Europa, il massacro sociale già in atto e – ancora di più – quello che si annuncia ci inducono a parlare di catastrofe.
Ma se usiamo questa terminologia inconsueta è anche per segnalare il passaggio storico decisivo che stiamo vivendo. Dall’attuale crisi sistemica non si uscirà in maniera indolore: o emergerà una nuova prospettiva socialista, o si imporrà una tremenda regressione sociale.
Che fare?
L’alternativa è dunque tra «socialismo e barbarie». Questa formula, tante volte usata a sproposito, è quella che descrive meglio il bivio che oggi si trova davanti l’umanità intera. Che fare allora? Attendere l’ora x della rivoluzione o cominciare a prepararla iniziando a dare quelle risposte politiche che ancora nessuno dà?
Il tema di questo convegno è quello della Fuoriuscita dal capitalismo, non semplicemente dalla crisi. Ma per lavorare concretamente a quell’obbiettivo bisogna essere all’altezza del presente. Esserlo non alla maniera dei menopeggisti, per i quali il tatticismo schiacciato sul presente è semplicemente la giustificazione del loro opportunismo strutturale. Essere all’altezza del presente, invece, proprio per dare una base concreta alla necessaria rottura rivoluzionaria.
Bisogna dunque evitare la schizofrenia tra dogmatismo e menopeggismo, quella patologia che consente di adornarsi di falce e martello restando al contempo nel centrosinistra, cioè nella parte più funzionale alle oligarchie finanziarie dell’intero sistema politico.
La tesi fondamentale, che cercherò di sviluppare, è che, proprio per avvicinare un possibile processo rivoluzionario, ed al tempo stesso per contrastare le tendenze reazionarie (anch’esse rafforzate dalla crisi), sia necessario mettere in campo un programma di fase, con l’obiettivo di indicare alle masse alcune misure fondamentali per impedire il massacro sociale.
Detto per inciso, e giusto per capirci, si tratta dell’esatto opposto dell’aria fritta messa in circolazione da Vendola, un venditore di fumo che si annuncia come il Messia ma che non ha ancora indicato un solo punto programmatico.
Con quale credibilità?
La prima obiezione all’esigenza di un programma di fase è che, vista la scarsità delle nostre forze, non sarebbe credibile avanzare proposte di questo tipo.
A questa obiezione rispondiamo che:
a. La nostra non vuol essere la proposta di un piccolo gruppo. Noi qui vogliamo avviare un ragionamento, ma è ovvio che queste proposte avranno forza se verranno assunte da una nuova soggettività politica più ampia e consistente. La prima premessa da cui partiamo è che questa soggettività dovrà nascere in tempi non troppo lunghi. E, per quanto ci riguarda, faremo tutto il possibile per contribuire alla sua formazione.
b. E’ ovvio che soggetto e programma di fase stanno in strettissima relazione con la ripresa del conflitto sociale. Ma, seconda scommessa, siamo convinti che il conflitto ripartirà – e già se ne vedono le prime avvisaglie a livello europeo.
c. In ogni caso ci domandiamo: è forse più credibile affidarsi al semplice conflitto senza un progetto politico?
Lotte ed obiettivi politici
Se possiamo ragionevolmente prevedere la ripresa del conflitto sociale, se già si intravedono i primi segnali del risveglio delle masse dopo un lungo periodo di letargia, resta il problema dell’incisività delle lotte e del loro sbocco.
Da 30 anni almeno, in Italia (ma sostanzialmente in tutta Europa), non ci sono state battaglie sindacali vincenti. Da qui la profonda crisi di credibilità dello strumento sindacale. Una crisi che in parte prescinde dagli stessi contenuti, dalle diverse linee, dalle diverse sigle. Ad esempio, non è che in questo momento il sindacalismo di base extraconfederale goda miglior salute della Cgil…
E il caso della Grecia è lì a confermarci come anche il più combattivo dei movimenti sindacali non riesca a strappare risultati significativi.
La verità – banale ma decisiva – è che oggi più che mai la lotta sindacale, più in generale la lotta sociale, ha bisogno di uno strumento politico, di una strategia politica, di obiettivi politici. E’ la scoperta dell’acqua calda? Forse, ma è l’acqua calda di cui abbiamo bisogno perché non se ne può più dell’oscillazione tra dogmatismo e pragmatismo, tra la difesa di simboli chiusi in cassaforte e la praticaccia politicista e/o movimentista.
Dobbiamo dunque indicare i punti principali di un programma immediato. Un programma che sia comprensibile e condivisibile da larghi settori popolari.
Vincoli sistemici, vincoli europei, morte della democrazia
I tradizionali vincoli sistemici (produttività, competitività ecc.) sono oggi rafforzati da due potenti fattori: l’Unione Europea ed il debito pubblico. Due macigni messi in relazione tra loro già dal trattato di Maastricht ed oggi rimessi al centro dal nuovo Piano di stabilità. Due macigni che restringono ulteriormente lo spazio delle opzioni politiche, contribuendo così a decretare di fatto la morte della democrazia.
Possiamo rigirarla come vogliamo, ma se non mettiamo in discussione questi due pilastri dell’attuale configurazione del dominio capitalistico non andremo da nessuna parte.
Possiamo lottare contro i continui attacchi alle pensioni, al salario, al welfare, ma a questi due pilastri non si sfugge: il debito è la spada di Damocle che giustifica ogni taglio, l’UE è la guardiana del rigore dei conti.
Di fronte a questi fatti, i tardo-riformisti falce-martellati o meno, ma comunque centrosinistrati, pongono due questioni: una politica di sacrifici più equa, un’Europa dei popoli.
Si tratta di due errori: fino ad oggi questa posizione si è incentrata sulla richiesta di maggiore equità (“meno tagli, più giustizia fiscale”, ecc.). Si tratta di una posizione palesemente subalterna, dato che non specifica mai gli obiettivi politici, restando così di fatto subordinata alle compatibilità sistemiche.
Giusto battersi per l’equità, ma non si dovrebbe mettere al primo posto il “per che cosa”, la finalità ultima di ogni scelta economica? La più “equa” delle manovre, che fosse però rivolta alla conservazione dell’attuale sistema, non andrebbe anch’essa contrastata?
Non ci illudiamo di poter respingere il massacro sociale che si profila all’orizzonte senza sacrifici, ma gli unici sacrifici accettabili sono quelli per una società diversa, per l’alternativa socialista.
Invece, chi si limita a dire “equità” accetta di fatto che si debbano fare sacrifici per tenere in piedi non solo il capitalismo, ma la sua forma attuale, finanziarizzata e turbo-capitalista.
Il dissenso con la sinistra ex arcobalenica è ancora più grave sull’Europa. Dire “Europa dei popoli” senza mettere all’ordine del giorno l’uscita dall’Unione Europea significa limitarsi ad un generico auspicio, lasciando inalterata la realtà del dominio della Bce e dei tecnocrati europei al servizio delle oligarchie finanziarie.
************
LE MISURE NECESSARIE
Fatte queste premesse, passiamo all’esposizione delle misure necessarie, perlomeno di quelle più importanti.
Quante volte ci siamo sentiti fare la semplice domanda: ma se voi foste al governo cosa fareste? Bene, oggi è necessario cominciare a dare delle risposte precise, nella prospettiva che questa domanda possa diventare concreta, espressione dei bisogni di milioni di persone.
Procediamo dunque per punti, scontando una inevitabile schematicità, ma cercando quantomeno di individuare le questioni fondamentali.
A) Europa
Il punto di partenza, confermato dalle vicende di tutti questi anni è che l’Unione Europea è costitutivamente irriformabile.
Il Trattato di Lisbona è l’espressione della dittatura oligarchica che governa l’UE, ma ancora non gli basta e Merkel e Sarkozy vogliono andare oltre.
Le manovre finanziarie vengono ormai dettate dalla UE, come ben si è visto nel caso della manovra varata dal governo Berlusconi a maggio ed approvata a luglio.
E’ un fatto che ormai da 20 anni la parola Europa è sinonimo di “sacrifici” per lavoratori e pensionati. A volte di sacrifici particolarmente odiosi, imposti anche a governi nazionali riluttanti benché reazionari, come si è visto nel caso dell’aumento dell’età pensione delle donne nel nostro Paese.
Il cardine della politica europea è la stabilità monetaria, con conseguenze disastrose per un paese come l’Italia.
Ha senso continuare a lamentarsi dell’UE, chiedendogli di essere ciò che non può essere, o non dobbiamo piuttosto iniziare a spiegare la necessità dell’uscita da questa struttura oligarchica, antidemocratica ed autoritaria?
Quel che sicuramente non ha senso è lottare contro i sacrifici senza mettere in discussione l’UE.
Fra breve avremo a che fare con il nuovo Piano di stabilità e con l’obiettivo del rientro del debito pubblico entro la soglia del 60% in rapporto al Pil. Si è capito cosa significa?
Certo, non sappiamo ancora come questo obiettivo verrà spalmato nel tempo, ma per l’Italia si profilano in ogni caso sacrifici pesantissimi per anni e anni. Sacrifici insostenibili per lavoratori e pensionati, sacrifici che finirebbero per aggravare oltremodo una recessione senza fine.
Mettere all’ordine del giorno l’uscita dall’Unione Europea è dunque necessario.
Già ci immaginiamo l’accusa che ci verrà scagliata contro, quella cioè di voler «tornare indietro». Sarà questo l’argomento forte di chi si opporrà all’uscita.
Ma se un giorno un’altra Europa, quella dei popoli, vedrà la luce questo dovrà avvenire per volontà vera dei popoli, all’interno di un processo di trasformazione sociale, non per imposizione oligarchica.
Non scordiamocelo, i popoli finora – quando hanno avuto la possibilità di esprimersi – hanno sempre detto di no a questa Europa.
Nel 2005 la costituzione europea venne respinta negli unici due paesi (Francia ed Olanda) in cui venne sottoposta a referendum. Successivamente, per evitare nuovi pronunciamenti popolari sfavorevoli, si arrivò all’imbroglio del Trattato di Lisbona – una costituzione di fatto basata su un impianto liberista, oligarchico ed autoritario. Nell’unico paese in cui il Trattato venne sottoposto a referendum, l’Irlanda, il no vinse di nuovo nel giugno 2008. Apriti cielo! L’Unione impose la ripetizione del voto, e solo a suon di minacce di ogni tipo ottenne alla fine l’agognato sì nell’ottobre 2009.
La verità è che i popoli non amano questa Europa. I parlamenti nazionali – compreso quello italiano – hanno approvato alla chetichella il Trattato di Lisbona, mentre il sistema mediatico si è ben guardato dal fornire un’informazione minimamente adeguata sui suoi contenuti antipopolari ed antidemocratici.
Proprio perché siamo internazionalisti, e per la fratellanza tra i popoli, è venuto il momento di dire basta al mostro chiamato UE. L’uscita dall’Unione è dunque il primo punto fondamentale di un programma di fase per l’alternativa.
B) Sovranità nazionale (inclusa quella monetaria)
Strettamente collegata al primo punto c’è la questione della sovranità nazionale, più precisamente della sua riconquista.
Come pensiamo di poter costruire una prospettiva democratica, dove la parola “democrazia” abbia una qualche relazione con il suo significato letterale, senza la riconquista di una sovranità nazionale oggi cancellata dalla UE, dall’adesione alla Nato, dall’accettazione dei vincoli sistemici insiti nel capitalismo ma esaltati dalla sua mondializzazione (la cosiddetta “globalizzazione”)?
Lo ribadiamo: internazionalismo è fraternità tra i popoli e le nazioni, non cancellazione degli uni e delle altre, mentre l’attuale cosmopolitismo è l’habitat culturale in cui si sono affermati poteri sovranazionali del tutto incontrollabili.
Ed è un fatto che proprio da questi poteri (Ue, ma anche Fmi, Banca Mondiale, Wto, G8/G20) provengano le politiche più ferocemente antipopolari.
Di recente Berlusconi – facendo l’esempio delle pensioni, evidentemente da colpire ancora – ha teorizzato spudoratamente l’utilità della UE proprio per imporre sacrifici altrimenti più difficili da far passare, dato che l’UE non ha il problema del consenso, che invece hanno i governi nazionali.
Dobbiamo dunque aver chiaro che non è pensabile alcuna Rivoluzione democratica senza la riconquista della sovranità nazionale, una condizione certo non sufficiente, ma assolutamente necessaria.
Ovviamente non potrà rimanere fuori da tale processo la riappropriazione della sovranità monetaria. Del resto, fuori dall’Europa vuol dire anche fuori dall’Euro.
C) Debito pubblico
Ecco un’altra questione spinosa e non aggirabile.
Il debito pubblico italiano ha raggiunto la cifra di 1841 miliardi di euro, pari ad oltre il 118% del Pil. E’ sostenibile un debito di queste proporzioni?
In proposito sono possibili tre posizioni:
– E’ sostenibile perché in Italia è particolarmente basso il debito delle famiglie. Dunque non esisterebbe il problema del suo finanziamento (attualmente le famiglie italiane, con una ricchezza posseduta in attività finanziarie pari a circa 3600 miliardi, detengono solo un 10% – circa 190 miliardi – di titoli del debito). E’ questa la posizione degli economisti di scuola keynesiana e di buona parte della sinistra cd. “radicale”.
– Non è sostenibile ed occorre tagliarlo. Posizione di tutte le forze organicamente sistemiche di centrodestra e di centrosinistra.
– Non è sostenibile ed occorre azzerarlo. Posizione che qui sostengo. Posizione apparentemente avventurista, eppure l’unica realista.
Intanto bisogna intendersi su cosa significhi “sostenibile”. In termini ragionieristici il debito sarà forse sostenibile. Ma a quale prezzo? Come si pensa di reperire le risorse per ricostruire un nuovo sistema previdenziale, per una nuova scuola, per una nuova sanità?
Abbiamo chiaro, o no, che il Paese è allo sfascio?
Si pensa forse che sia possibile contemperare queste esigenze con quella di finanziare il debito pubblico ed i relativi interessi?
No, non è possibile. Dunque occorre scegliere. Quando nei cortei risuona la parola d’ordine «Noi la crisi non la paghiamo», bisognerebbe accompagnare allo slogan questa consapevolezza.
E se non si avrà il coraggio di azzerare il debito pubblico, bisognerà rinunciare alle necessarie misure sociali.
Certo, l’azzeramento del debito è materia complessa (dalla necessità di tutelare il piccolo risparmio alla corretta valutazione di tutti gli effetti economici del default), ma qualcuno ha un’idea migliore per poter ricostruire le condizioni per permettere una nuova politica sociale in materia di previdenza, sanità, scuola, eccetera?
Qualcuno certamente dirà che l’idea giusta rimane quella di colpire la ricchezza, a partire dall’evasione fiscale. Obiettivo sacrosanto, da perseguire senza indugio, ma che meglio si affermerà sulla base di un punto zero – politico e simbolico oltre che economico – costituito dall’azzeramento del debito.
L’azzeramento del debito dovrà essere l’atto iniziale di una rifondazione democratica e sociale dell’economia italiana, del suo sganciamento dalla catena imperialistica e dalla globalizzazione.
Del resto, chi possiede oggi i titoli del debito pubblico italiano?
In materia esistono dati non precisissimi, ma all’ingrosso i numeri sono questi: il 55% è posseduto da investitori stranieri (essenzialmente banche e fondi di vario tipo), il 10% è detenuto dalle famiglie italiane, il 35% da istituti finanziari italiani.
Un azzeramento del debito sarebbe già un primo atto di redistribuzione della ricchezza.
Esso colpirebbe il cuore del potere finanziario, mentre gli effetti sulle famiglie (una categoria che evidentemente va dalla famiglia Berlusconi a quella dell’ultimo disoccupato) potrebbe essere facilmente governato con la garanzia del rimborso dei titoli a scadenza fino ad una certa soglia. In tal modo si garantirebbero i risparmi delle fasce medio-basse, facendo invece pagare la fascia veramente ricca.
Naturalmente, la realizzazione di questo processo – come del resto l’uscita dall’Europa e dall’euro – richiederà una forte gestione politica (forte del consenso anzitutto), frutto di un radicale cambiamento politico, di una vera rottura rivoluzionaria, risultante dal furibondo scontro di classe che si intravede all’orizzonte.
D) Nazionalizzazioni
Mettere l’economia sotto la direzione politica significa nazionalizzarne una parte consistente.
Questo non significa abolire il mercato. Per l’esattezza occorre nazionalizzare quel che è indispensabile per riorientare l’economia nel suo complesso: nulla di più, nulla di meno.
Ovvio che si dovrà tenere conto delle esperienze del passato, sia di quelle del “socialismo irreale”, sia di quelle di impronta socialdemocratica. Per non ripetere quelle esperienze ci sono solo due antidoti: il potere popolare e la democrazia, che poi sono in definitiva la stessa cosa.
In concreto:
– Nazionalizzazione delle banche e delle assicurazioni
E’ impossibile contrastare la finanziarizzazione, da un lato, e dall’altro poter disporre di una finanza al servizio di un’economia democratica, senza questa nazionalizzazione.
Si tratta di una misura irrealistica? Non crediamo proprio, di certo non estremistica: basti pensare che la attuò il socialista Mitterand nel 1981.
– Nazionalizzazione dei settori strategici e dei monopoli
*Telecomunicazioni, per abbattere i costi tenuti alti dagli oligopoli dominanti, per il diritto ad un’informazione democratica, per uno sviluppo del settore mirato agli interessi nazionali.
* Energia, per una politica energetica indipendente, per mettere al centro le esigenze ambientali, per puntare con più forza sulle rinnovabili.
* Trasporti (rete autostradale e ferroviaria), per realizzare un piano dei trasporti che rovesci il modello che ha portato all’attuale disastro, sia dal punto di vista ambientale che da quello dell’efficienza.
* Monopoli (vedi il caso emblematico della Fiat), per impedire i tagli occupazionali, le delocalizzazioni ed il ricatto sulla forza-lavoro.
Queste nazionalizzazioni sono la base indispensabile non solo per riorientare l’economia, nel senso di una sua de-finanziarizzazione e di un suo sganciamento dal capitalismo-casinò, ma anche per la sua riconversione in senso sociale ed ecologico.
E) Fisco
Immaginare che il fisco possa essere l’elemento decisivo per una redistribuzione della ricchezza sarebbe roba da socialdemocratici di serie Z. La ricchezza è così mal distribuita che il fisco da solo non potrà bastare.
Tuttavia molte cose possono essere fatte.
Ma prima di entrare nel merito, vediamo all’ingrosso – utilizzando le statistiche ufficiali – qual è l’attuale distribuzione della ricchezza.
In Italia il 10% delle famiglie più ricche detiene il 45% della ricchezza totale. Siamo messi male, anche se a livello planetario le cose vanno peggio visto che il 43% della ricchezza è detenuto dall’1% della popolazione (vedi il caso dell’India, dove 100 persone detengono il 25%).
Ed ancora, in Italia il 50% delle famiglie più povere possiede soltanto il 9,8% della ricchezza. Nel mondo il 50% che sta in fondo arriva a malapena al 2%.
La globalizzazione, tanto nei paesi più industrializzati, che nel sud del pianeta, sta producendo il massimo della diseguaglianza mai vista nella storia dell’umanità. E, senza dubbio, la tendenza è verso diseguaglianze ancora più grandi.
Come agire da subito sul piano fiscale per invertire questa tendenza? Tre misure sono assolutamente urgenti: la riduzione della tassazione indiretta, l’applicazione del principio costituzionale della progressività, l’inserimento delle rendite finanziarie nel reddito delle persone fisiche.
Entriamo nel merito:
– La tassazione indiretta (IVA, accise sui carburanti, ecc.) ha la caratteristica di colpire indiscriminatamente (ed ovviamente in percentuale fissa) i consumi. E siccome non ci sono tasse particolarmente efficaci sui consumi di lusso, essa colpisce in particolare le fasce popolari.
Con la precisa volontà di scaricare i costi della crisi su queste fasce, diversi paesi europei (tutti i cosiddetti PIGS, più Ungheria e Romania) hanno operato in questi ultimi mesi un aumento dell’IVA, in alcuni casi anche di 5 punti. Bisogna invece andare in direzione esattamente opposta, con una consistente riduzione della tassazione indiretta, parzialmente compensabile con una forte tassazione dei consumi di lusso.
– Il principio costituzionale della progressività dell’imposizione fiscale – da sempre applicato con grande moderazione – è ormai completamente saltato. Seguendo la linea impostasi, ormai 30 anni fa, con il duo Reagan-Tatcher, la progressività si è via via attenuata, portandoci alle scandalose aliquote attuali.
Vediamole (in migliaia di euro): da 0-15 = 23%; 15-28 = 27%, 28-55 = 38%; 55-75 = 41%, 75e+ = 43%. Abbiamo dunque, giusto per fare un esempio, che il semplice oltrepassamento dei 28mila euro determina un’aliquota di 11 punti più alta; mentre dai 75mila in su l’aliquota resta invariata.
La necessità di rovesciare l’attuale appiattimento, disegnando aliquote fortemente progressive è fin troppo evidente.
– La terza misura urgente consiste nell’inserimento delle rendite finanziarie nel reddito delle persone fisiche. Le attuali aliquote, al di là del loro valore, sfuggono completamente al principio della progressività. Questa misura, più che il semplice aumento dell’aliquota attuale, garantirebbe un gettito più consistente ed una maggiore equità.
F) Riconquista dei diritti sociali fondamentali
Dopo trent’anni di controriforme, è il momento di dire basta e di porsi l’obiettivo della riconquista dei diritti sociali fondamentali, in particolare del diritto allo studio, del diritto alla salute, del diritto ad una vecchiaia serena (pensioni adeguate).
Questi diritti erano stati parzialmente conquistati con le lotte della fine anni ’60 – inizio anni ’70, per essere poi progressivamente rimangiati dalla lunga stagione del contro-riformismo imposto dalla crisi – ora latente, ora più acuta – di un capitalismo che andava sempre più prendendo la forma attualmente dispiegatasi nella piena finanziarizzazione del capitalismo-casinò.
Non si tratta semplicemente di ricostruire quel che non c’è più, si tratta di rispondere a bisogni capaci di mobilitare grandi masse, indicando obiettivi che consentano il passaggio dalla difensiva (ormai inefficace) all’offensiva.
– Che il Diritto allo studio sia potentemente sotto attacco, che si sia tornati ad una scuola di classe, per giunta sempre più subordinata alle esigenze dell’impresa capitalistica, è ormai percepito da tutti. Riaffermare il diritto allo studio per tutti non è dunque uno slogan del passato, bensì una rivendicazione che guarda al presente ed all’urgenza di rovesciare le politiche che hanno portato all’attuale distruzione della scuola pubblica.
– Un discorso analogo va fatto per il Diritto alla salute. Ricostruire la sanità pubblica, invertendo completamente la rotta privatizzatrice, è la precondizione per affermare il principio della completa gratuità delle prestazioni.
– Il Diritto ad una vecchiaia serena dovrebbe essere al primo posto in una società come la nostra, che invecchia come mai avvenuto in passato.
Abbiamo, invece, che mentre l’assistenza è affidata ad un esercito di “badanti” (per chi se lo può permettere), il valore delle pensioni è destinato ad abbassarsi sempre più, come fu apertamente teorizzato già nel lontano 1999 dal duo D’Alema-Amato, che fissarono nel 14% sul Pil il limite invalicabile di una spesa pensionistica che pure nel tempo avrebbe dovuto dar da mangiare ad un numero di persone sempre più alto.
Questa situazione pazzesca dell’anziano non è tollerabile. La prima condizione necessaria per modificarla consiste in una radicale riforma del sistema pensionistico, con l’abrogazione della legge attuale e la garanzia dell’80% reale sul salario con 40 anni di lavoro.
Parallelamente sarà necessario abolire i fondi integrativi, trasferendoli all’Inps.
Ovviamente, queste tre misure sociali fondamentali hanno bisogno di ingenti risorse economiche.
E qui il cerchio si chiude, perché senza un azzeramento del debito – e dunque senza l’uscita dall’Unione Europea – misure come quelle appena indicate sarebbero semplicemente impossibili.
Per quanto riguarda più specificatamente le pensioni è possibile ipotizzare il finanziamento del nuovo sistema sia ricorrendo alla fiscalità generale – una misura di equità sociale a tutela della fascia d’età meno difesa -, sia attraverso un aumento dei contributi.
CONCLUSIONI
Lo scopo di questa relazione era quello di porre all’ordine del giorno l’urgenza di un programma di fase.
Con gli elementi qui schematicamente proposti non si è certo inteso dare risposte esaustive. Si è voluto invece cominciare ad enucleare alcuni elementi decisivi di questo programma.
La proposta di fondo è chiara: lavorare ad una rifondazione democratica e sociale dell’economia italiana, ad un suo riorientamento, imponendo uno stop alla finanziarizzazione ed affermando invece i diritti sociali fondamentali.
Un obiettivo perseguibile solo nel quadro di una riconquistata sovranità nazionale, con lo sviluppo di rapporti internazionali solidali, in primo luogo con chi intraprenderà la stessa strada ed in generale con chi si oppone al dominio imperialista.
In tutta evidenza quel che proponiamo non è un programma comunista, bensì un programma popolare di fase, che potrà essere perseguito, però, solo attraverso una vera rottura rivoluzionaria. Un programma, potenzialmente maggioritario, indispensabile per rispondere alle questioni più urgenti e per dare obiettivi e strumenti politici al movimento di massa. Sulla cui emersione scommettiamo.