La rivolta egiziana è una realtà. Il regime barcolla, l’occidente trema. Gli Usa si preparano a giocare la carta El Baradei. Ma la domanda decisiva è: cosa farà adesso l’esercito?

E’ difficile prevedere in questo momento quale piega prenderanno gli eventi egiziani. Attesa da settimane, dopo i fatti di Tunisia, la rivolta egiziana è arrivata puntuale, forte ed estesa. Il bilancio della giornata di oggi è pesantissimo: almeno 20 morti, 1000 feriti solo al Cairo, un migliaio di arresti. La rabbia popolare ha preso di mira le sedi governative e quella del partito di Mubarak.

 

Nelle strade della capitale, ed in quelle delle maggiori città del paese, sono arrivati i carri armati e i blindati dell’esercito. Ma, mentre scriviamo, nessuno rispetta il coprifuoco, né al Cairo né altrove. La situazione è veramente fluida ed incerta, segno di quanto gli avvenimenti siano andati ben oltre a quanto preventivato sia dal regime che dai suoi sponsor occidentali.

Fino a ieri la linea americana era di totale appoggio a Mubarak, oggi l’amministrazione americana sembra pensare ad una “soluzione alla tunisina”: mollare il tiranno per salvare il sistema, e soprattutto per garantirsi che la sudditanza egiziana continui.
Hillary Clinton dichiarava il 25 gennaio, cioè solo tre giorni fa, che il governo guidato dal presidente Hosni Mubarak «è stabile e sta cercando soluzioni per rispondere alle legittime necessità della popolazione».
Oggi, invece, la stessa Clinton ha detto che: «Il popolo egiziano ha il diritto di vivere in una società democratica che rispetta i diritti umani di base», aggiungendo che le autorità del Cairo devono «affrontare il nodo delle riforme sociali e politiche venendo incontro alle richieste di chi sta manifestando, pur di garantire un futuro pacifico e prospero al Paese».

Dichiarazioni di questo tipo non lasciano dubbi: gli Usa, come già avvenuto con la Tunisia, si sono fatti trovare abbastanza impreparati, ma hanno rapidamente approntato un piano B, che nel caso egiziano significa giocare la carta di El Baradei. La Casa Bianca non può perdere l’Egitto, un caposaldo strategico insostituibile per la sua politica imperialista in Medio Oriente. Obama è dunque pronto a mollare Mubarak pur di non perdere quello che fu il “paese guida” del mondo arabo. Bisognerà vedere se una simile operazione riuscirà ad andare a buon fine. Noi non solo ci auguriamo di no, il che è ovvio, ma siamo anche propensi a pensare che questo disegno sia in realtà assai debole.

La rivolta egiziana non ha infatti soltanto una natura politica – la lotta contro un regime dispotico che risulta ormai intollerabile alla stragrande maggioranza della popolazione. Al pari delle sollevazioni tunisina ed algerina, ha anche una matrice sociale: la lotta contro la povertà e la disoccupazione. Una domanda sociale che ben difficilmente potrà dare credibilità ad El Baradei.
Oggi i media internazionali hanno diffuso la notizia, rivelatasi poi falsa, dell’arresto dell’ex capo dell’Aiea (Agenzia internazionale dell’energia atomica), quasi a volerne fare una specie di “martire” da giocare al più presto come arma per fermare il movimento popolare.

In questo venerdì di fuoco i manifestanti hanno preso, ad un certo punto, il controllo del centro di importanti città come Suez ed Alessandria, dove pare che diversi poliziotti siano passati dalla parte dei rivoltosi. E’ evidente che il regime ormai barcolla. Non a caso, il discorso di Mubarak alla nazione, annunciato come imminente nel pomeriggio, è stato più volte rimandato e fino ad ora non c’è stato.

A questo punto diventa decisivo l’atteggiamento dell’esercito. Per ora il suo posizionamento nelle città sembra aver avuto principalmente una funzione di controllo. Sarà così anche nelle prossime ore e nei prossimi giorni? Continuerà ad identificarsi nel regime o tenterà il passaggio soft al post-Mubarak?

Lo sapremo al più presto, dato che l’attuale situazione di incertezza non potrà durare a lungo. Quel che è certo, e che dobbiamo sottolineare, alla faccia di chi non credeva alla possibilità di rivolte estese e persistenti in tutta la regione, è che con l’Egitto l’incendio della prateria nord-africana ha raggiunto il suo punto più sensibile e decisivo. Quella in corso è dunque una battaglia decisiva, non solo per il futuro di quel popolo, ma per le stesse prospettive del movimento di lotta in tutta l’area.

Infine due parole sul nostro Paese, a conferma delle oscillazioni occidentali e del puntuale allineamento italiano con Washington.
Ecco cosa diceva, non più tardi di due giorni, il ministro degli esteri Frattini a Radio anch’io: «Speriamo che il presidente egiziano Mubarak continui, come ha sempre fatto, a governare il suo paese con saggezza e lungimiranza». Ed ancora: «Tutto il mondo considera l’Egitto un punto di riferimento per il processo di pace che non può venir meno». Insomma: «La situazione egiziana non  è comparabile a quella tunisina: in Egitto vi sono delle pulsioni del fondamentalismo islamico, dell’estremismo radicale…».

Oggi, in parallelo a Washington, la disinvolta correzione di rotta. La Farnesina ha chiesto «l’immediata cessazione di ogni violenza», «il rispetto delle libertà civili, di espressione e comunicazione incluso il diritto allo svolgimento di manifestazioni pacifiche».
Il tentativo è chiaro e non è certo della sola Italia. Ma le parole sulla «saggezza di Mubarak», e quelle sulla priorità della lotta alle forze islamiche, mettono in luce, ancora una volta, il ruolo di “prima della classe”  al servizio degli Usa e di Israele (vedi anche la posizione su Gaza) che l’Italia vuol giocare in Medio Oriente.