Il regime Mubarak allo sbando, ma per ora non molla – La più grande rivolta dell’Egitto moderno – Il ruolo decisivo dell’esercito – L’alternativa americana è tra il perdere l’Egitto e il perdere la faccia
Mubarak per ora non se ne va. Se ne vanno i familiari, tra i quali il figlio Gamal già indicato come successore del raìs. Se ne vanno pezzi grossi del potere economico nazionale. Non è difficile immaginare chi poteva essere a bordo dei 19 jet privati decollati ieri pomeriggio dall’aeroporto del Cairo con direzione Dubai. Come non è difficile immaginare chi siano le migliaia di persone che affollano questa mattina lo stesso aeroporto in attesa di imbarcarsi verso gli Emirati, l’Arabia Saudita, la Giordania: pezzi della casta dominante che con Mubarak si è arricchita e che hanno compreso che ora è meglio cambiare aria. Se ne è andato anche il personale dell’ambasciata israeliana: ragioni di sicurezza, ma anche la percezione della possibilità di profondi cambiamenti politici.
Mubarak, per ora, cerca di resistere. Il nuovo esecutivo varato ieri è in sostanza un governo militare. Alla Difesa è stato nominato il capo di Stato maggiore Sami Anan, agli Interni il generale Ahssan Abdel Rahman, mentre il capo dei servizi segreti, Omar Suleiman, è diventato vicepresidente, una carica da sempre vacante nell’era Mubarak.
E’ del tutto escluso che questo rimpasto governativo possa anche solo frenare per un po’ la protesta popolare che dilaga nel paese. L’Egitto è veramente un paese in fiamme. Non solo il Cairo, Alessandria, Suez, ma anche numerosi centri minori compresi quelli della penisola del Sinai sono in rivolta. La polizia spesso sbanda e retrocede – lo si è visto ieri al Cairo – e non sono pochi gli episodi di poliziotti e soldati che fraternizzano con i manifestanti. Lo stato in cui versano complessivamente le forze di sicurezza è messo in luce dall’evasione in massa avvenuta stanotte nel gigantesco carcere di Wadi Natrun, dove migliaia di detenuti – tra di loro 34 esponenti dei Fratelli Musulmani, di cui 7 arrestati proprio nei giorni scorsi – sono riusciti a fuggire dopo aver messo fuori combattimento le guardie carcerarie.
Che cos’è questa se non una vera crisi rivoluzionaria?
Certo, come tutte le crisi rivoluzionarie, il suo esito è tutt’altro che scontato. Ma la partita è questa, altro che semplice riaggiustamento, magari pilotato da Washington come qualcuno vorrebbe dedurre dalle carte di WikiLeaks. Carte che ci “rivelano” fatti in realtà ovvi, e cioè che, già negli anni scorsi, gli Usa nel mentre appoggiavano in ogni modo Mubarak non si dimenticavano di andare a dare un’occhiata tra i movimenti di opposizione, cercando magari di infiltrarli e se possibile influenzarli. Questa attività, che per una superpotenza come gli Usa è solo ordinaria amministrazione, ci viene venduta da qualcuno – vedi la Repubblica – come l’ennesima “rivoluzione colorata”. Che questa tesi sia semplicemente ridicola ed insostenibile è attestato dal fatto che, fino ad ora, neppure i più cretini tra i complottisti – a differenza di quanto avvenuto per la Tunisia – hanno ritenuto di doverla rilanciare.
Ovviamente – lo abbiamo scritto venerdì sera – gli Stati Uniti hanno un piano B: la sostituzione del dittatore egiziano con un governo in grado di fare alcune concessioni “democratiche”, ma sempre ferreamente controllato dall’esercito e chiuso alle vere forze di opposizione, in primo luogo i Fratelli Musulmani e Kifaya. Se il dittatore egiziano sarà costretto a mollare, cosa che riteniamo pressoché certa, gli Usa giocheranno quella carta. Ma si tratterà appunto di una carta, non certo dell’esito scontato di un movimento popolare originato da ben precise cause politiche e sociali, altro che “rivoluzione colorata”!
Funzionerà quella carta? Pensiamo di no. Ma questo riguarda una fase successiva, talmente incerta che ad oggi non solo gli Usa, ma anche i regimi più marcatamente filo-occidentali della regione, continuano a sostenere Mubarak, al punto che lo stesso El Baradei è stato costretto a radicalizzare le sue prese di posizione, parlando addirittura di “intifada”. Ed è interessante notare chi si è premurato, in queste ore di fuoco, di andare a portare la propria solidarietà al despota del Cairo. Oltre allo scontato sostegno dei monarchi Abdullah (Arabia Saudita) ed Abdallah (Giordania) è arrivato quello del sempre più filo-occidentale Gheddafi. Ma il messaggio più vergognoso è stato quello del Quisling Abu Mazen che «ha telefonato al leader egiziano Hosni Mubarak per esprimere “la sua solidarietà con l’Egitto e l’impegno alla sua sicurezza e stabilità”». (Adnkronos 29 gennaio)
Il fatto è che, al pari della rivolta tunisina e delle forti proteste popolari in corso in diversi altri paesi della regione, la sollevazione egiziana nasce da precise ragioni sociali e politiche. Le ragioni sociali sono riconducibili ad una situazione di grande povertà, acutizzata dalla crisi globale e dalla parziale chiusura del tradizionale sbocco rappresentato dai flussi migratori. E’ una povertà, ed una mancanza di prospettive, che oggi colpisce in particolare le masse giovanili, in paesi dove la fascia di età tra i 15 ed i 30 anni rappresenta circa il 30% della popolazione. Ma è una povertà che grida vendetta anche per le enormi diseguaglianze sociali, favorite oltretutto da un sistema fiscale che colpisce quasi esclusivamente i consumi, e dall’arricchimento della casta che si raccoglie attorno ai regimi, ai cui vertici (vedi il caso dell’oro trafugato dalla famiglia Ben Ali in Tunisia) si accumulano spesso enormi ricchezze.
Non fosse che per questo motivo, le ragioni sociali della rivolta si incrociano subito con quelle politiche. Ma se la rimozione del tiranno diventa giocoforza l’obiettivo immediato, non si pensi che questo ricambio possa arrestare la spinta oggettivamente rivoluzionaria che erutta dal profondo delle società del Nord Africa e del mondo arabo in generale. C’è infatti un altro motivo che rende oggi più coraggiose e determinate le masse di questa parte del mondo. Il motivo risiede in quella che possiamo definire come “crisi di comando” della superpotenza americana. In difficoltà in Afghanistan, ancora impegnata in Iraq, affaticata dalla crisi economica, indebolita dalla potenza economica cinese, l’America di Obama affanna. Minaccia come sempre (si pensi all’Iran ed al Libano), ma le sue minacce spaventano meno di un tempo. Una differenza che dà forza alle proteste ed alla loro radicalizzazione in senso non solo antimperialista, ma anche anticapitalista.
Non abbiamo la sfera di cristallo e dunque non possiamo prevedere gli sviluppi immediati della situazione egiziana. Alcune cose possiamo però già dirle. In primo luogo, lo ripetiamo, che siamo di fronte ad una vera crisi rivoluzionaria, in grado di estendere quel “contagio” tunisino da cui la stessa opposizione egiziana ha tratto forza. In secondo luogo, che quella in corso è la più grande rivolta dell’Egitto moderno, che non potrà che concludersi con grandi cambiamenti politici e forse sociali. In terzo luogo, che si profilano all’orizzonte notevoli mutamenti geopolitici, e che le Resistenze (a partire da quella palestinese) ne usciranno comunque rafforzate. In quarto luogo, che il Re è nudo, dove per Re non intendiamo qui il raìs del Cairo, bensì l’imperatore che siede a Washington.
Obama (di cui è bene non dimenticarsi le ipocrite aperture all’Islam del giugno 2009 – vedi “Dio ci guarda”, ma lui spera di non essere visto), è di fronte ad un bivio: perdere l’Egitto, o sostenere un governo comunque dominato dai militari che tutto potrà fare fuorché concedere elezioni politiche davvero libere e democratiche. Detto in altre parole: o perdere l’Egitto, o perdere la faccia. Non abbiamo dubbi su quale sarà la scelta dell’amministrazione americana, ma il Medio Oriente sta cambiando sotto i nostri occhi ed il sistema di dominio dell’area messo in piedi dal duo Usa-Israele ormai non regge più.