Dalla lotta tra poteri istituzionali allo sfascio dello Stato-nazione

La guerra per bande tra notabili e pezzi della casta è oramai diventata una lotta frontale tra apparati dello Stato, tra i gangli decisivi delle istituzioni. Tutti i tentativi di exit strategy messi in atto negli ultimi anni per evitare lo sfascio sembrano andati in fumo. Il sistema normativo su cui si è fondata, alle spalle della Costituzione formale, la “seconda repubblica”, ciò che ha consentito a Berlusconi di diventare il dominus della crisi, è ora grippato, per la semplice ragione che Berlusconi non vuole sloggiare di sua sponta. È così iniziato il round finale il quale, malgrado la debolezza disarmante e la totale confusione che regna nel campo anti-berlusconiano — penosa la commedia delle “primarie” napoletane, finite in caciara —, potrebbe davvero concludersi, con un redde rationem. Si vada o non si vada alle elezioni anticipate come extrema ratio.

Le opposizioni hanno puntato tutte le loro carte sul disfacimento dell’ectoplasma berlusconiano. Mesi addietro, con la defezione dei finiani, il defenestramento dell’ingombrante Cavaliere era sembrato a portata di mano. Non è stato così. Il resto dei sodali e dei peones di Berlusconi, la sua corte di nani e ballerine, hanno fatto quadrato, poiché sanno che senza di lui, loro e il cosiddetto Pdl, si squaglierebbero come neve al sole. Così facendo incatenando la stessa Lega Nord al destino di questo governo fantasma. In effetti c’è un’ultima chance per i fautori della cacciata indolore visto che il “tradimento” di Fini non è stato sufficiente: il salto della quaglia di Bossi, un secondo “ribaltone”, come quello che avvenne nel dicembre 1994. In ultima istanza sono quindi i leghisti ad avere in mano, con il destino di Berlusconi, quello del Pd e del cosiddetto “Terzo Polo”. Tutti o quasi i commentatori di Palazzo tendono ad escludere quest’eventualità e scommettono sull’inevitabilità delle elezioni anticipate, poiché ritengono sia ormai impossibile per Bossi fare marcia indietro e affondare Berlusconi. Hanno ragione? Lo vedremo nei prossimi giorni.

Certo è che se lo scontro istituzionale dipende dal fatto che i berlusconiani occupano alcuni gangli decisivi, come la Presidenza del Senato e quella del Consiglio, solo un passaggio elettorale potrebbe dirimere il conflitto, ovvero assestando al blocco Pdl-Lega una sonora batosta affinché le due decisive cariche gli vengano sotratte. Potendo disporre delle leve di tutti e tre i principali poteri statuali, il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario (nonché la Suprema Corte e la Presidenza della Repubblica), riportandole finalmente sotto il comando del fronte antiberlusconiano, la crisi istituzionale, se non definitivamente risolta, sarebbe almeno tamponata. Un dietrofront della Lega è davvero escluso? Lo è se non ci sarà una imminente fatturazione interna, del Pdl. Ove Tremonti, che detiene la golden share del governo, forte del sostegno di cui gode da parte dei poteri finanziari europei e italiani, si prestasse all’operazione di sostituire il Cavaliere, allora un “ribaltone” sarebbe davvero possibile. Se questo non avverrà le elezioni nella prossima primavera saranno lo sbocco più probabile.

Ma le elezioni, l’Armata Brancaleone che va da Fini al Prc passando per Vendola e Di Pietro, deve vincerle. E non deve vincerle di stretta misura se vuole davvero tagliare la testa del drago. Una vittoria di stretta misura non ucciderebbe infatti Berlusconi, né tantomeno sarebbe sufficiente a sfaldare il suo possente blocco sociale. Ma come potrà vincerle, l’Armata, data l’attuale legge elettorale se, come sembra, i terzopolisti correranno davvero da soli? Rutelli, alla rimpatriata di Todi, ha confermato che essi andranno da soli, che otterranno un risultato per cui, quantomeno al Senato, i berluscones non avranno i numeri per governare.  Ognuno per sé e Dio per tutti, insomma, con la quasi certezza che le elezioni non faranno uscire il Paese dal marasma.

Ammettiamo pure che il blocco Pdl-Lega esca sconfitto, malgrado avremo non un’Armata unita, ma due eserciti divisi e sgangherati. Il berlusconismo sarà davvero derubricato?
Se sul piano squisitamente politico il blocco berlusconiano è una compagine-ectoplasma, su quello sociale è tutta un’altra musica. Si fa un gran parlare dell’egemonia culturale e ideologica del berlusconismo, e si insiste che essa sia fondata sui beceri modelli di vita mutuati dalle Tv Mediaset-Rai e dai reality show. Questo è solo un epifenomeno, una sovrastruttura. Sono gli interessi materiali il vero collante del blocco berlusconiano.

Interessi a cui proprio la Lega, meno prigioniera dei retorici lacci patriottici, da squillante e piena voce. La parola magica dietro a cui si cela il gigantesco coacervo di materiali interessi economici e sociali si chiama “territorio”. Di che si tratta? Di una forma rafforzata di corporativismo sociale, camuffata dietro allo slogan del “federalismo”. Una vera e propria Santa alleanza interclassista che non vede uniti soltanto gli industrialotti del Nord est ai loro operai, ma settori importanti del sistema bancario e finanziario dell’Italia settentrionale, pezzi da novanta della Chiesa, buona parte dell’economia “criminale” e, in posizione trainante, segmenti della grande borghesia padana. Questi ultimi sono riusciti, col decisivo ausilio di Pdl e Lega, a far passare un egoistico arroccamento attorno ai propri irriducibili interessi di classe, come interesse generale, come difesa del bene comune, portandosi quindi appresso i propri sudditi.

Con un decisivo particolare: che bene comune e interesse generale non sono quelli dell’Italia tutta in quanto nazione coesa, bensì quelli “territoriali”, sù sù, dai comuni, ai territori, alle regioni sino alla  Padania.

Il dato davvero enorme, per certi versi inatteso, è che la crisi economica e lo sfascio politico e istituzionale, non pare abbiano indebolito, bensì cementato e rafforzato, questo coacervo corporativo interclassista. È un fatto che agli occhi (e alle tasche) di questo composito blocco sociale l’antiberlusconismo è percepito come una minaccia. Qui sta la ragione per cui, malgrado il merdaio in cui sguazza il Cavaliere, l’alleanza Pdl-Lega è sentita come una sentinella, forse l’ultima, dei loro irriducibili interessi. Per questo la battaglia elettorale sarà al calor bianco, e se una sconfitta dell’asse Berlusconi.Bossi ci sarà, sarà solo perché esso perderà ampi consensi nel Mezzogiorno. Ma nel Nord essa terrà le sue posizioni.

A questo punto, estromesso Berlusconi da Palazzo Chigi, sarà stata tamponata la paralizzante crisi istituzionale, ma un’altra e ben più terribile si affaccerà alla ribalta. Dalla crisi istituzionale saremmo ad un passo dalla crisi nazionale, ovvero dell’Italia come Stato-nazione.

Scrivevo nell’aprile scorso: «Ma… c’è un ma. La sopraggiunta crisi storico-sistemica del capitalismo occidentale, e anzitutto di quello europeo. Una crisi che mette in forse sia l’unificazione europea che la “dolce morte” degli stati-nazione. E’ sotto gli occhi di tutti che le forze centrifughe, a causa di questa crisi globale, sono oggi decisamente più forti di quelle centripete. Lo sconquasso finanziario e monetario mondiale, il molto probabile scoppio del bubbone greco e l’eventualità che con i “Piigs” tutta l’Eurozona venga travolta, ingarbugliano terribilmente le cose a tutti i protagonisti della scena italiana, Bossi compreso.

Checché ne dica Tremonti-Pinocchio, il debito pubblico italiano continua a crescere e la possibilità che l’Italia venga da un giorno all’altro declassata da qualche agenzia di rating per essere poi aggredita dal capitalismo predatorio internazionale, diventa altamente probabile. E ove davvero la barca economica nazionale rischiasse di affondare, salterebbero non solo i disegni della curia romana, ma verrebbe interdetta alla Lega la possibilità di ottenere un accordo vantaggioso con un nuovo salto della quaglia a sinistra. Salterebbero perché a quel punto le forze sociali che stanno dietro alla Lega, precisamente il blocco corporativo che vede uniti padroni, operai e bottegai padani, sarebbe davvero tentato di compiere lo strappo, ovvero abbandonare la barca italiana in affondamento per salire sul vascello carolingio franco-tedesco (ammesso che questo resista al terremoto tenendo fermo l’Euro come moneta forte).» [Può l’Italia fare la fine della Jugoslavia?]

I mesi trascorsi dopo il rischio default della Grecia, segnati dall’allargamento della crisi dei debiti sovrani a Irlanda, Portogallo e Spagna, dal rischio che l’intero sistema bancario (poiché esso detiene la gran parte dei titoli di stato) sia travolto, depongono a favore del pronostico di cui sopra.

Lungi dall’essere uscita dal tunnel l’Eurozona trema e la moneta unica è in bilico. La Germania insiste sulla linea dura e chiede ai paesi periferici di risanare deficit e debito pubblico adottando drastiche misure sociali, facendo intendere che non è più disposta a cacciare denari per salvarli. L’ipotesi di un “Euro dei virtuosi” — dei sei paesi a cui le agenzie di rating assegnano la tripla A (Germania, Francia, Austria, Olanda, Lussemburgo e Finlandia) — è all’orizzonte. Il declassamento di un livello del rating del debito a lungo termine del Giappone deciso da Standard & Poor’s è un campanello d’allarme anche per l’Italia.

«Siamo di fronte all’effetto valanga dei debiti sovrani, che quando iniziano a crescere troppo, innesta un circolo vizioso che aumenta il servizio del debito, che alimenta il deficit che a sua volta incrementa il debito e così via». [Niall Ferguson, Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2011]

Precisa Daniel Gros, analista a Bruxelles e compagno di studi di Draghi e Federico Caffè: «Sono sempre più convinto che sia l’Italia il vero problema dell’area euro. Il tasso di risparmio cala, il deficit con l’estero sta emergendo. Se il Paese non cambia rotta, tra dieci anni può essere dov’è il Portogallo». [Il Corriere della Sera, 29 gennaio 2011]

Tremonti tranquillizza, e tira in ballo l’ultima asta di BTp, andata a segno il 28 gennaio, con tassi lievemente in calo. “Fiducia invariata dei grandi investitori istituzionali stranieri” (che detengono il 50% dei titoli di stato in circolazione) si dice. E’ da vedere se le aste prossime daranno lo stesso risultato, e se non accada ai titoli italiani quanto sta accadendo a quelli di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, che possono spacciarli solo perché assicurano interessi sempre più alti e perché la stessa Bce glieli compera e la Ue glieli garantisce col fondo europeo per la stabilità finanziaria (Efsf).

Insomma, se un nuovo collasso finanziario sopraggiungesse a breve, non c’è dubbio che anche il debito sovrano italiano sarebbe fatto bersaglio dalla finanza predatoria, banche, fondi sovrani stranieri ed hedge fund fuggirebbero dai titoli italiani, visto che la cosa più probabile è che la Germania (portandosi appresso i cosiddetti “virtuosi”, ovvero l’area marco sotto mentite spoglie) non sarebbe disposta a salvare, con la propria fidejussione, il Belpaese.

Vedremo quali decisioni saranno prese al Consiglio europeo del 24 marzo. Comunque vada il futuro dell’euro non si decide in anni, bensì nei prossimi mesi, mesi guarda caso decisivi per sapere come andrà a finire (o come si avvilupperà) la crisi italiana.

È a questo punto della vicenda che la domanda, ora solo apparentemente accademica, se resisterà l’Italia come stano unitario, potrebbe occupare il palcoscenico della politica, polverizzando in pochi istanti il chiacchiericcio sul bunga bunga. Le tendenze secessionistiche nordiste, tese ad abbandonare il resto del Paese alla deriva e ad agganciare la motrice tedesca, potrebbero prendere il sopravvento, in barba agli attuali equilibrismi leghisti. E che Berlusconi e la Lega, nel frattempo estromessi da palazzo Chigi, non possano con ciò più fare da garanti e pompieri della loro base sociale, accentuerà non mitigherà, il rischio di una fratturazione dello Stato-nazione. Il rischio di default da debito, porrà il Paese davanti al bivio: o uscire dall’euro o, per restarci unito, applicare misure recessive di lungo periodo dalle conseguenze sociali ed economiche incalcolabili, e l’insorgenza inevitabile di un conflitto sociale ingovernabile.

È probabile che il si salvi chi può europeo trascini anche l’Italia? Sì, è probabile. L’egoismo territoriale e la difesa dei propri interessi di classe da parte del capitalismo nordista potrebbero prendere il sopravvento, innescando uno scontro politico, istituzionale e sociale generale rispetto al quale l’attuale impallidirebbe.

È il caso di dare delle cifre, le cifre del divario tra il Nord e il Sud di questo paese. Cifre che chiamano in causa colossali interessi materiali, altro che disquisizioni sulle notti di Arcore.

Le statistiche Eurostat ci dicono che il Pil procapite del Nord Italia è superiore a quello della Svezia, mentre il Pil procapite dell’intero Centro-Nord Italia (40 milioni di abitanti, un medio paese europeo) è nettamente superiore a quello di Germania o Francia. E il Pil procapite del Mezzogiorno? È inferiore a quello del Portogallo!

Ma andiamo avanti. I dati sulla ricchezza finanziaria delle famiglie (calcolati al lordo dell’economia sommersa) ci dicono che se Nord Ovest e Nord Est vantano una ricchezza finanziaria per abitante ai vertici europei (livelli superiori all’Olanda) il Mezzogiorno è molto indietro. Stessi risultati li abbiamo calcolando la ricchezza immobiliare. Per quanto riguarda l’export e il surplus manifatturiero, il Nord Centro Italia nel 2009 ha esportato prodotti industriali (e sono esclusi gli alimentari) all’incirca come il Regno Unito intero (178 miliardi contro 189), ma vantando un gigantesco surplus manifatturiero con l’estero (45 miliardi di euro, secondo solo alla Germania, mentre il Regno Unito è in deficit per 60 miliardi). Della disoccupazione giovanile sappiamo che al Nord oscilla tra il 5 e il 10% della forza lavoro, mentre al Sud è addirittura più alta della disastrata Spagna. [dati citati da Marco Fortis, Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2011]

Economicamente parlando l’Italia non è già più uno Stato unitario, è una residuale “espressione geopolitica”. Se la globalizzazione e soprattutto il processo di integrazione europea hanno accentuato il divario Nord Sud nel nostro Paese, la crisi dell’Euro non avrà l’effetto di rinsaldare lo Stato unitario, ma di sfasciarlo. Tutta la borghesia settentrionale deciderà si separarsi dalla zavorra del Sud per agganciarsi alla Germania? No. Esistono potenti frazioni della borghesia, quelle legate ai tradizionali gruppi finanziari e industriali, nonché grandi gruppi come Eni, Enel, Finmeccanica, ecc. che non vorranno staccarsi da Roma. Essi hanno già i loro referenti politici, da Fini al Pd, passando per il Terzo Polo. Ma quale sostegno reale hanno e avranno nelle zone core del Paese? Che forza potranno opporre al blocco sociale corporativo rappresentato politicamente dall’alleanza Pdl-Lega se quest’ultima, per non soccombere, decidesse di giocare il tutto per tutto rappresentando le spinte secessionistiche? Come gli unionisti potranno fermare l’esodo del capitalismo settentrionale se essi, alle prossime elezioni, non riuscissero a riconquistare neanche una solida maggioranza nel Nord? Chi manderanno a fermare i separatisti? La Bocassini? Spataro? Faranno rimpatriare i contingenti dall’Afghanistan, dal Libano e dalla Jugoslavia?

Per questo occorre prepararsi, e attrezzarsi, al peggio. Se quanto sostenuto non solo è possibile, ma anche probabile, ciò vuol dire, per le forze anticapitaliste e socialiste (che già sono fuori dal gioco nell’attuale partita che vede contrapposte le diverse frazioni dell’oligarchia dominante) non ci saranno, a breve, grandi possibilità di esercitare un ruolo determinante. La cosa più infausta sarebbe, per esse, ridursi a fungere da quinta ruota di uno dei due carri. Non è difficile immaginare che la gran parte della cosiddetta estrema sinistra vorrà far parte dell’alleanza unionista e patriottica. Oggi in nome dell’antiberlusconismo, domani in nome dell’Italia unita. Bisogna piuttosto, per usare una metafora militare, prepararsi e attrezzarsi  ad una guerra di movimento di lunga durata.

Il lettore che si senta in sintonia con l’analisi da noi esposta si chiederà: dunque che fare qui e ora? Una risposta che proveremo a fornire quanto prima ma che rimanda a quanto da tempo andiamo dicendo e proponendo, ovvero che (Dio ce ne scampi dai trionfalismi puerili come dai settarismi incartapecoriti!) non c’è alternativa alla costruzione di un terzo fronte indipendente, con la politica al posto di comando, ovvero un programma di misure sociali ed economiche che indichi come fuoriuscire dalla crisi capitalistica difendendo gli interessi sociali della povera gente che questa crisi paga e pagherà in modo ancora più salato. Con una doverosa premessa, che comunque vada a finire il Paese non uscirà dal pantano in maniera indolore, che la battaglia sarà durissima e campale. Come insegnano la Tunisia e l’Egitto, nei momenti cruciali, sono le larghe masse, irrompendo con forza nell’arena, che fanno la storia. E’ sempre stato così, sarà ancora così.