Dalla frustrazione alla rivoluzione
La sollevazione egiziana è ad un passaggio decisivo. E’ necessario che, anche in Italia, le forze schierate con la rivolta popolare si preparino ad una mobilitazione ben più ampia di quella avvenuta sino ad ora.
«Fermare quest’alluvione straripante non sarà facile. Scrivevamo giorni addietro che il potere deve riconquistare il centro de Il Cairo prima di potere riprendere le redini del paese. Una settimana è passata, la rivoluzione si è rafforzata. Forse è troppo tardi affinché una nuova Piazza Tienammen, sia sufficiente ad arginare l’onda d’urto popolare. Diventa probabile una guerra popolare prolungata, una guerriglia dai mille rivoli, una situazione di tipo iracheno».
L’avevamo detto: attenti ai facili entusiasmi, non se ne esce in maniera indolore. Il discorso solenne pronunciato ieri sera dal despota dissipa gli ultimi dubbi: dal regime di Mubarak al regime del Mukhabarat. Non si pensi sia solo un gioco di parole.
Fino a poco prima dell’intervento televisivo di Mubarak, col quale egli, sfidando la sollevazione popolare, ha confermato che resterà in sella fino a settembre, l’opinione che andava per la maggiore era che l’Esercito avrebbe preso in mano le redini del paese, spingendo Mubarak a togliersi di mezzo, in un modo non troppo disonorevole. Per paradosso questa era la soluzione perorata dalla Casa Bianca e pure da ampie frange della protesta popolare. Non è andata così e, per come si vanno mettendo le cose, è difficile che ci vada. Non c’è dubbio che settori importanti della nomenklatura militare, ovvero del Comando supremo dell’Esercito, erano favorevoli ad una “defenestrazione pilotata”. Evidentemente hanno perso la partita, mentre l’hanno vinta i legittimisti, i continuisti. Ha vinto l’ala dura dell’Esercito, quella appunto legata a doppio filo agli onnipotenti Servizi segreti di Suleiman, al Mukhabarat — quegli apparati che nell’Egitto recente hanno davvero sempre tirato i fili del regime e preso le decisioni decisive. Non solo Servizi di intelligence quindi, ma un vero e proprio stato nello stato.
Non si pensi che la decisione di questo “Stato nello Stato” sia causata dalla disperazione di chi ha tutto e ha paura di perdere tutto, ed è quindi disposto a rischiare un bagno di sangue. Qui c’è di mezzo non solo la difesa degli interessi e della incolumità di un apparato che conta su centinaia di migliaia di persone, che innerva tutti i gangli dell’amministrazione, civile, politica, giudiziaria e militare. E non è poco. Qui c’è di mezzo che sull’Egitto, da sempre baricentro della geopolitica mediorientale, si è scaricata l’eccedenza di tensioni telluriche vissute dal Medio Oriente dopo il 2001, anzitutto dopo l’invasione militare americana dell’Iraq. Un sistema di vasi comunicanti che giunge fino al Pakistan e segnato dalla tenuta delle Resistenze e dall’avanzata dell’Iran.
Mubarak non rappresenta solo gli interessi suoi, ma quelli di una potentissima consorteria regionale e che ha come centro l’Arabia Saudita, con tutti i suoi numerosi addentellati locali. Non si tratta più solo, come poteva essere fino a trent’anni fa, di emiri, pseudo-califfi, rais o sultani debordanti di petro-dollari. Si tratta di “maturi” pezzi da novanta del capitalismo finanziario internazionale, di attori regionali ma con legami fortissimi col capitale bancario e la rendita speculativa mondiali. Il regime di Mubarak è solo un terminale di questo gigantesco coacervo di interessi tentacolari arabi e transnazionali: poteri ed entità che non possono accettare il rischio che con la caduta di Mubarak l’effetto domino scateni un devastante terremoto che non sarebbe solo politico e strategico, ma finanziario ed economico. Ecco perché, in barba al wilsoniano Obama, Mubarak tiene il punto ed è disposto al tutto per tutto.
Cosa può accadere adesso? Tutto.
La frustrazione di Piazza Tahrir può davvero trascrescere in rivoluzione. E se sarà così, fatta salva l’ipotesi che l’esercito egiziano si spezzi (ma ciò non farebbe che accelerare e alimentare il processo rivoluzionario) uno sbocco violento non è più solo nel novero delle possibilità. Esso diventa altamente probabile. La Piazza sembra che abbia deciso (ieri sera) di marciare oggi verso il Palazzo presidenziale, dove si suppone il despota sia asserragliato. I manifestanti ieri sera hanno urlato che son pronti a diventare tutti martiri della rivoluzione.
Non canterà il gallo, domani mattina, e vedremo se i Generali riusciranno a lanciare l’Esercito contro il popolo.
Poiché non c’è solo Piazza Tahrir. Tutto il paese è in fiamme, in preda a convulsioni rivoluzionarie. Da oramai una settimana l’Egitto è paralizzato dallo sciopero generale, che prosegue ad oltranza. Sono ferme le fabbriche, i porti, i trasporti, i ministeri, le università e le scuole di ogni ordine e grado. Il vuoto di potere segnato dalla dissoluzione dei corpi di polizia arresisi alla rivolta, è riempito da una rete capillare di “comitati del popolo“. In vaste aree urbane e rurali lo stesso ordine pubblico è assicurato da ronde popolari, embrioni di vere e proprie milizie.
Fermare quest’alluvione straripante non sarà facile. Scrivevamo giorni addietro che il potere deve riconquistare il centro de Il Cairo prima di potere riprendere le redini del paese. Una settimana è passata, la rivoluzione si è rafforzata. Forse è troppo tardi affinché una nuova Piazza Tienammen, sia sufficiente ad arginare l’onda d’urto popolare. Diventa probabile una guerra popolare prolungata, una guerriglia dai mille rivoli, una situazione di tipo iracheno.
Dov’è la debolezza della rivoluzione, e quindi in cosa consiste il punto di forza della controrivoluzione? Nel fatto che la prima è stata colta impreparata, non ha una testa, non possiede una strategia, lo stesso fronte delle opposizioni è diviso e una prova di forza accentuerà forse le sue divisioni. Come manca – e quanto! – un Partito rivoluzionario! Che il popolo possa vincere questa battaglia decisiva in virtù della propria mobilitazione spontanea appare, davanti all’abisso che gli si staglia davanti, una speranza, ma speranza fallace. Nessuna energia che non sia convogliata rischia di disperdersi e di volatilizzarsi, questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore di soccombere davanti alle falangi controrivoluzionarie armate fino ai denti.
I bolscevichi fecero la rivoluzione per poi vincere una cruenta guerra civile. I potenti impararono la lezione, così che, dopo di allora, abbiamo avuto che le classi dominanti hanno sempre preferito sfidare preventivamente il popolo non ancora ben attrezzato nella guerra civile, allo scopo di neutralizzare la rivoluzione e di stroncarla al suo nascere. Questo fu, in ultima istanza il fascismo. Mutatis mutandis, questo potrebbe essere l’esito in Egitto.