A proposito del manifesto: «Ricostruire il Partito Comunista»
Davvero non vogliamo mancare di rispetto a nessuno, tanto meno a chi ha creduto, con la propria adesione, di contribuire alla rinascita di un partito comunista in Italia, ma il manifesto reso pubblico il 6 febbraio scorso è una di quelle cose che lascia prima increduli, poi imbarazzati ed alla fine anche un po’ tristi.
Increduli, certo, per la pochezza del documento proposto dai compagni dell’Ernesto, ma ancor di più per l’assurdità della proposta politica. Imbarazzati, perché non è mai gradevole dover sparare sulla Croce Rossa. Tristi, infine, perché anche se abbiamo avuto percorsi politici diversi e ben distinti, non è un bel segno per nessuno – e dunque neppure per noi – che oggi il dibattito sul comunismo in Italia sia ridotto in queste condizioni.
Ma entriamo nel merito. Il manifesto non sfiora neppure per accennarli i nodi teorici lasciatici in consegna dalle rovine novecentesche: niente sulla questione del blocco sociale e della composizione di classe, niente sul tema del potere e della democrazia proletaria, niente in termini di riflessione storica sulle rivoluzioni del secolo scorso.
Positiva è la parte sull’antimperialismo e sulla necessità di intrecciare lotte sociali e lotte contro la guerra. Siamo certi che per molti dei firmatari questa dichiarazione è davvero centrale oltre che assolutamente sincera. Peccato che essa cozzi del tutto con la proposta politica complessiva che esamineremo di seguito.
In estrema sintesi la proposta è questa: uscire dal Prc (l’Ernesto è una corrente interna a Rifondazione), entrare nientemeno che nel Pdci, per poi federarsi con il partito dal quale si è appena usciti attraverso la sempre più fantasmatica “Federazione della Sinistra”. La quale provvederà a riportare i comunisti dilibertizzati e riferrerizzati nell’alleanza di centrosinistra, senza che questo gli garantisca neppure il rientro in parlamento di una pattuglietta di deputati (i sondaggi vanno presi con le molle, ma non vanno neppure ignorati…).
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Ma andiamo nel dettaglio. Al terzo punto, dopo aver chiarito che il manifesto si rivolge in primo luogo a chi ha vissuto in qualche modo l’esperienza del Prc, arriva la prima affermazione decisiva: «il progetto originario di Rifondazione è giunto al capolinea». Segue un giudizio severo su quel partito, che possiamo tranquillamente condividere:
«Prendiamo atto che la fragilità e l’eterogeneità delle basi strategiche originarie di Rifondazione hanno dato vita a fratture e scissioni ed ora, a vent’anni di distanza, quel che rimane è un assemblaggio eclettico, dove gli scontri e le battaglie correntizie hanno prodotto una grave degenerazione della vita interna. L’assenza di un pensiero forte condiviso e di un collante ideologico sufficientemente solido, ha impedito a questo partito di reggere alle pressioni determinate dai grandi tornanti della storia. A fronte di reiterate richieste di un’inversione di rotta, il gruppo dirigente sembra voler ripercorrere gli stessi, micidiali, errori».
La descrizione del Prc, e di come esso sia arrivato alla condizione attuale, non è esaustiva ma può essere sufficiente. Gli estensori del manifesto così concludono sul punto: «non riconosciamo più in questa esperienza politica un fattore propulsivo per la ricostruzione del partito comunista in Italia».
Per uno di quei casi mai troppo casuali della storia, questa «storica» dichiarazione è arrivata esattamente nel ventesimo anniversario della nascita di Rifondazione Comunista (Rimini, febbraio 1991).
Venti anni, venti, per arrivare a questa conclusione!? Chi scrive ha militato nel Prc per 6 anni, dal 1991 al 1997, quando ne è uscito insieme a molti compagni in opposizione alle politiche governiste e subalterne al centrosinistra del gruppo dirigente bertinottiano. Fa dunque una certa impressione ascoltare l’annuncio, dopo tanti anni, di verità facilmente rilevabili già allora.
Tuttavia la questione non è questa. Il punto è che al tardivo certificato di morte per il Prc si accompagna un improbabile attestato di esistenza in vita al Pdci. A giustificazione di questo incredibile approdo viene portato il fatto che il Pdci: «non ha ripudiato la storia del movimento comunista nel ‘900, né condotto campagne ostili verso altri partiti comunisti o paesi ad orientamento socialista».
Il problema è che mentre il Pdci non «ripudiava», a differenza dell’iconoclasta Bertinotti, condivideva però con il pavoncello d’arcobalen perito una medesima passione governista, meglio un’identica predisposizione alla strutturale subalternità al centrosinistra. Un annichilimento politico, che ha preparato la successiva disfatta, scambiato con qualche poltrona di valore – il ministero della Giustizia in cambio del bombardamento della Jugoslavia, la presidenza della Camera in cambio della partecipazione all’occupazione dell’Afghanistan – e molte poltroncine assessorili a livello locale.
Nel manifesto il tentativo di nobilitare il Pdci non teme né il ridicolo né la falsità.
Leggere per credere: «Limiti ed errori hanno segnato pure l’esperienza del PdCI, ma essi sono oggetto di un ripensamento, come nel caso della riflessione autocritica sulla partecipazione al governo della guerra contro la Jugoslavia».
Siamo lettori abbastanza attenti, ma quando mai è avvenuta pubblicamente questa autocritica? E se davvero è avvenuta in qualche catacombale consesso, non è un po’ ridicolo che venga alla luce solo oggi, per bocca altrui ed a 12 anni (dodici) dalla guerra più criminale scatenata in Europa dopo il 1945?
Di sicuro falsa è l’affermazione successiva: «Il suo gruppo dirigente (del Pdci, ndr) ritiene che non esistano oggi le condizioni e i rapporti di forza per governare col centrosinistra». Falso, falso, assolutamente falso.
Una falsità certificata nientemeno che da un certo Oliviero Diliberto, che del Pdci è pur sempre il segretario, il quale in un’intervista all’Unità del 20 novembre scorso ha indicato gli obiettivi di «un’alleanza di centrosinistra» e di un «patto di legislatura» (vedi Coazione a ripetere).
Ora, che cos’è un «patto di legislatura» se non un accordo di governo, nel senso di garantire al centrosinistra i propri voti, ammesso e tutt’altro che concesso che la Fds riesca a rientrare in parlamento?
Riportiamo testualmente dall’intervista citata: «Credo che dagli errori si possa imparare, anche se c’è chi ha una coazione a ripetere gli errori, perseverando diabolicamente in essi e c’è chi ne fa tesoro. Ripeto: dobbiamo fare un patto di legislatura».
Per Diliberto dunque il problema non è il governismo – ci mancherebbe! – ma casomai l’incapacità di essere governisti, cioè subalterni a sufficienza per garantire a Pd e soci una legislatura finalmente tranquilla.
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Ai compagni dell’Ernesto piace portare come esempio di partito comunista come si deve il KKE greco. Ora, se c’è una cosa che caratterizza quel partito è proprio la chiusura verso qualunque alleanza con le forze che un tempo avremmo definito all’ingrosso socialdemocratiche (in Grecia il Pasok). Una linea che è stata pienamente ribadita in occasione delle recenti elezioni regionali (novembre 2010), dove al secondo turno il KKE ha dato esplicita indicazione di astensione (voto nullo o bianco) laddove non aveva propri candidati ammessi al ballottaggio. Ed è anche grazie a questa impostazione che il KKE è arrivato all’11%.
Com’è che in Italia un simile orientamento non viene neppure preso in considerazione, quasi fosse una bestemmia, nemmeno dalle parti dell’Ernesto? La verità è che il virus della subalternità non appartiene solo ai bertinottiani di destra (Vendola & C.) e di sinistra (Ferrero e dintorni). La verità, certo spiacevole, è che questo virus ha infestato e continua ad infestare anche i comunisti falcemartellati quanto piegati ai meccanismi bipolari.
E finché non si partirà da questa consapevolezza, per dire basta a questa ridicola rappresentazione di comunisti che si vorrebbero «responsabili», ed invece dimostrano di essere solo irresponsabilmente subalterni e dunque inutili, non si andrà da nessuna parte, neppure se si scrivesse (e non è certo il caso in questione) il miglior manifesto teorico della storia dei comunisti.
Insomma, per una volta, e questa è davvero una notizia, Claudio Grassi non ha tutti i torti.
Ecco cosa scrive il leader di «Essere Comunisti»:
«Non si capisce proprio il senso politico di questa operazione. A oltre 12 anni dalla scissione del Pdci, mai come in questa fase i due partiti si sono riavvicinati e mai come in questa fase è diventato realistico, al punto di essere concretamente realizzabile, la loro riunificazione. Che senso ha oggi, alla vigilia di due congressi – quello del Prc e quello del Pdci (entrambi si terranno nel 2011) che discuteranno anche questo tema della riunificazione – proporre una mini-scissione dal Prc al Pdci? L’esito non può essere che alimentare diffidenza e ostacolare il progetto unitario. Infine anche il progetto della Federazione della Sinistra ne risulterebbe indebolito. Che credibilità ha un processo federativo nel quale tra i due soggetti principali si organizzano scissioni?»
Non entriamo qui nei vari passaggi del ragionamento grassiano – non sappiamo ad esempio quale credibilità abbia il progetto di riunificazione tra Prc e Pdci -, ma ai fini di quel che ci interessa la cosa è poco importante. Quel che conta invece è l’assurdità dello schema proposto, una specie di gioco dell’Oca dove, dopo una serie di passaggi, si torna al punto di partenza. Dall’unità dei comunisti da realizzare nel Pdci, all’unità della sinistra da sviluppare con la Fds, all’unità con il centrosinistra per il dilibertiano «patto di legislatura». Unità, unità, unità, a forza di dirlo i sondaggi (dell’intera Fds, non del solo Pdci) parlano di un risultato ampiamente sotto il 2%…
Francamente ci è difficile comprendere la mossa dell’Ernesto. Se di esigenze tattiche di lotta interna alla Fds si tratta, che per favore non si scomodi il comunismo che ha già tanti problemi. Certo, nell’impazzimento generale della politica italiana – un presidente del consiglio che vuol far causa allo Stato, una festa dell’unità nazionale che forse verrà «solennemente» lavorata, e si potrebbe continuare – le masse non presteranno molta attenzione ad un manovra così bizzarra. Ma ci dispiacerebbe sentirci chiedere da qualche amico, che avesse per caso letto il manifesto in questione: «ma i comunisti, anche i comunisti, sono dunque impazziti?»