Obama mette il veto per difendere gli insediamenti coloniali israeliani
Si è già parlato della ripresa, lo scorso settembre, dei negoziati diretti, utili solo a gettare fumo negli occhi, fra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese – ANP, sempre più screditata ed autoreferenziale. Negoziati ovviamente sponsorizzati dal presidente USA nonché premio Nobel per la pace 2009 Barack Obama e subito interrotti perché, come tutti sapevano, la forza di occupazione, cioè Israele, non intende minimante recedere dalla status quo vantaggioso che ha ottenuto con le vie di fatto, in totale sfregio del diritto internazionale, risoluzioni ONU comprese, e con la fattiva collaborazione di Stati Uniti, Unione Europea e singoli paesi componenti e, purtroppo, della stessa ANP.

Uno degli strumenti cruciali per la costituzione dello status quo favorevole, a sua volta foriero di altri vantaggi, sono stati e restano gli insediamenti coloniali su quella parte della Terra di Palestina che dovrebbe costituire, secondo la stantia formula “due popoli – due stati”, lo stato palestinese.

Mentre la stampa nostrana è totalmente preda del turbine di nani, ballerine, procure e tribunali dei ministri e ora anche del festival di Sanremo, e si guarda bene dall’analizzare ed illustrare quali sono le forze sociali e politiche protagoniste delle sollevazioni in Nord Africa e in Medio Oriente, leggo sull’edizione on line di Haaretz, quotidiano israeliano di orientamento sionista politicamente corretto, che gli Stati Uniti si sono trovati in grave imbarazzo perché l’ANP – nel tentativo di recuperare un minimo di credibilità agli occhi del popolo che pretende di dirigere – ha presentato lo scorso dicembre al Consiglio di Sicurezza dell’ONU una bozza di risoluzione, da votare il 18 febbraio, dove si afferma che gli insediamenti coloniali sono illegali, costituiscono un ostacolo alla soluzione dei due stati e quindi devono cessare sia in Cisgiordania che a Gerusalemme Est, altrimenti i negoziati non potranno riprendere.

Perché mai tanto imbarazzo per una risoluzione che ribadisce precedenti posizioni delle Nazioni Unite sull’illegalità degli insediamenti (Ris. CdS n. 446 del 22 marzo 1979; Ris. CdS n. 452 del 20 luglio 1979; Ris. CdS n. 465 del 1° marzo 1980), nonché i principi della IV Convenzione di Ginevra, per la quale le popolazioni che vivono su un territorio occupato non possono essere private dei loro beni né deportate per far spazio all’insediamento di altri?
Gli Stati Uniti avrebbero potuto tranquillamente votare questa Risoluzione, che al pari delle precedenti non prevedeva alcuna vera sanzione nella ipotesi più che probabile di violazione da parte di Israele; oppure avrebbero potuto esercitare – come ripetutamente è avvenuto in passato ed avverrà in futuro in difesa del cruciale avamposto imperialista in Medio Oriente – il potere di veto, che spetta ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Il problema è che le scelte politicamente corrette di politica estera del premio Nobel irritano i più accaniti sostenitori di Israele in modo trasversale: i supporter democratici dello stato sionista hanno sostenuto che il mancato esercizio del veto avrebbe pregiudicato il processo di pace (quale?) per la cui ripresa il presidente e il partito si sono tanto spesi; da parte repubblicana si è detto  esplicitamente che non esercitare il veto avrebbe significato gettare Israele sotto un autobus. E le presidenziali del 2012 incombono.

Israele dal canto suo aveva fatto sapere agli americani di attendersi il veto, perché la questione del blocco degli insediamenti non è mai stata una precondizione delle trattative e l’ANP e i paesi arabi avrebbe presentato e sostenuto la bozza in modo strumentale. Già, per lo stato sionista le rivendicazioni cruciali dei palestinesi (Gerusalemme, diritto al ritorno, smantellamento delle colonie, abbattimento del muro) – che guarda caso investono i presupposti fondamentali della fondazione di uno stato autenticamente sovrano e indipendente e cioè veramente uno stato – non debbono entrare nei negoziati e tanto meno debbono costituirne le precondizioni.
Ma in coerenza all’approccio multilateralista, cioè imperialista politicamente corretto, che fu uno dei cardini della campagna elettorale obamiana e che valse appunto il Nobel per la pace, gli americani dall’ascesa di Obama al soglio ad oggi non hanno mai esercitato il veto in sede di Consiglio di Sicurezza.
A maggior ragione non avrebbero voluto esercitarlo ora, subito dopo che per cercare di controllare in qualche modo i futuri sviluppi in Nord Africa e in Medio Oriente, tentando di mietere almeno un po’ di credibilità fra le popolazioni in rivolta contro le satrapie filo occidentali, hanno scaricato il tunisino Ben Ali e il fedelissimo Hosni Mubarak, che pure per trenta anni ha svolto un ruolo indispensabile a sostegno di Stati Uniti e Israele.

L’unica via d’uscita era evitare che la bozza di risoluzione venisse presentata, in barba all’appoggio di ben 120 paesi fra quelli arabi e quelli non allineati al diktat della difesa ad ogni costo dello stato sionista, tanto più che la bozza godeva del sostegno dei restanti 14 membri del Consiglio di Sicurezza, per cui all’imbarazzo del veto si sarebbe aggiunto il fatto di esercitarlo in perfetta solitudine, con buona pace di ogni approccio  multilateralista.
Di qui le forti pressioni statunitensi sull’ANP, con tanto di telefonata di Obama al presidente Mahmoud Abbas giovedì 17 febbraio, affinché ritirasse la bozza, con la promessa che in cambio della rinuncia l’Amministrazione avrebbe esercitato più forti pressioni su Israele per la sospensione della costruzione degli insediamenti e avrebbe caldeggiato una dichiarazione dell’ectoplasmatico Quartetto per il Medio Oriente (USA, Russia, ONU e Unione Europea) per ribadire il principio della fondazione di uno stato palestinese entro i confini del 1967.

L’ANP (dopo aver convocato una riunione del Comitato Esecutivo dell’OLP e del partito Fatah per discutere la questione) non ha ceduto di fronte ad una così coraggiosa e generosa offerta e ha rifiutato di togliere, per una volta, le castagne dal fuoco in soccorso del premio Nobel!
Alcuni funzionari – memori anche delle veementi proteste popolari del 2009, quando l’ANP rinunciò alla discussione e votazione all’ ONU del Rapporto Goldstone sui crimini della guerra di Gaza –  hanno riferito che il ritiro della bozza sarebbe stato una catastrofe politica, perché il popolo sarebbe sceso in piazza e avrebbe rovesciato il presidente, evidenziando che tutto sarebbe stato meno complicato se non ci fossero state e non ci fossero rivolte nel mondo arabo. Tanto più che la popolazione di Ramallah già si era mobilitata contro l’eventualità del ritiro della bozza.
Altri funzionari hanno invece affermato che la leadership ha rifiutato le proposte americane anche se ciò comporterà una crisi diplomatica, in quanto ormai i palestinesi non hanno più nulla da perdere.
Non è insomma chiaro se l’ANP abbia rifiutato di ritirare la bozza perché, pur volendo continuare a prestare la sua proficua collaborazione all’occupazione sionista e al suo supporter americano, si sia almeno un po’ spaventata delle sollevazioni nel mondo arabo e soprattutto di quello che è accaduto in Egitto o perché sia stata colta da un sussulto di dignità e abbia deciso di giocare il tutto per tutto.

La vicenda si è conclusa ieri, 18 febbraio, con la messa da parte dell’approccio multilateralista in nome della facilitazione alla ripresa dei negoziati diretti fra le parti  e con il conseguente esercizio del potere di veto in solitudine da parte degli Stati Uniti, così che la risoluzione non è stata approvata.
Lo stato sionista ha prontamente ringraziato gli USA,  ribadendo la solita litania per la quale Israele è ansioso di riavviare il negoziato (quello che non deve investire le rivendicazioni essenziali dei palestinesi, si intende) e che la decisione di porre il veto dimostra che la pace può essere ottenuta solo con la trattativa diretta fra le due parti e non con le decisioni degli organismi internazionali, riaffermando una volta ancora che lo stato sionista non è tenuto all’osservanza del diritto internazionale.
Non resta che aspettare per vedere se l’ANP terrà fermo il punto o tornerà a negoziare con la coda fra le gambe, nonostante l’ampio consenso che la bozza aveva mietuto sia fra i palestinesi che fra i membri dell’ONU.