Istantanea di una crisi politica infinita che non accenna a finire

L’Italia è un paese allo sbando. In questi giorni l’esplosione della crisi libica, che peraltro mette in luce la fragilità della politica estera berlusconiana, ha fatto passare in secondo piano le contorsioni della crisi politica nazionale, che però continua ad aggrovigliarsi su se stessa senza che se ne intravedano a breve vere vie d’uscita.

Nel generale impazzimento della politica italiana, dove i festini a «luci rosse» si intrecciano con i continui cambi di casacca a livello parlamentare, non è facile orientarsi. In condizioni «normali» il premier si sarebbe già dimesso da quel dì, in condizioni «normali» le opposizioni avrebbero già paralizzato il paese. In condizioni «normali» il partito di maggioranza avrebbe già licenziato il suo capo, in condizioni «normali» le elezioni anticipate si sarebbero già svolte da tempo.

Ma non siamo in condizioni normali: il Pdl non è un vero partito, bensì uno strumento nelle mani del suo padrone; l’opposizione sa solo concepire trame parlamentari votate al fallimento; le elezioni sono il terrore di tutti partiti, per non parlare dei singoli parlamentari; Berlusconi più che un leader politico sembra un dittatorello impazzito dall’aver intravisto l’inesorabile via del tramonto. Che tutto ciò sia la risultante dell’orrenda seconda repubblica che si volle costruire quasi vent’anni fa sembra non interessare a nessuno – chi mai è interessato a simili bilanci in questo paese? -, ma proprio per questo è doveroso ricordarlo.

L’insieme di questi fattori descrive una situazione di paralisi, che non sappiamo quanto potrà durare. Ma dopo mesi di grande incertezza è il momento di fare almeno un’istantanea, cercando di fissare alcuni punti fermi, ben sapendo però che nuovi scossoni arriveranno ben presto. Questi punti sono: 1. le prospettive del berlusconismo, 2. le condizioni dell’opposizione, 3. i detentori del potere reale, 4. gli sviluppi della crisi economica, 5. i segnali del risveglio sociale, 6. i momentanei successi del populismo di sinistra (Vendola), 7. la via dell’esodo dal sistema politico come strada necessaria per l’alternativa. Per evidenti ragioni spazio procederemo in maniera estremamente sintetica.


1. Berlusconi nel bunker

Salvatosi per il rotto della cuffia nel voto di fiducia del 14 dicembre, aggrappatosi ad una maggioranza numerica che si basa su parlamentari letteralmente comprati, colpito dalle inchieste giudiziarie e dai processi in arrivo, consapevole di non avere più nel paese neppure quella maggioranza relativa che sembrava conservare non più tardi di un anno fa, Silvio Berlusconi ha deciso di scendere nel bunker della resistenza ad oltranza. Questa scelta ha una sua razionalità. E’ una scelta disperata – Berlusconi è comunque alla frutta – che si basa però sulla debolezza altrui. Non crediamo che questa situazione possa durare troppo a lungo, ma non ci stupiremmo se andasse avanti ancora per qualche tempo.

Chi scrive ha commesso, nei mesi scorsi, un errore di previsione. Quella secondo cui il presidente del consiglio avrebbe giocato alla fine la carta delle elezioni anticipate come unica possibilità per continuare a governare. Carta rischiosa, ma fino a qualche mese fa non certo assurda. Il ragionamento era che una maggioranza ormai politicamente inesistente in parlamento, avrebbe ancora potuto risultare tale (naturalmente in termini relativi) a livello elettorale. Ipotesi rafforzata dal caos presente nel blocco avverso, che infatti osteggiava il ricorso alle urne nel mentre minacciava il possibile ribaltone parlamentare.

In breve tempo, ed in particolare dopo il voto di «fiducia» del 14 dicembre, il quadro si è rovesciato: Berlusconi ritiene ora di avere una maggioranza blindata benché risicata, mentre le elezioni sono viste come la peste e le inchieste giudiziarie incombono. Quella del bunker è stata dunque una scelta in un certo senso obbligata. Un segno di grande debolezza, ma che non ha trovato veri oppositori né nel suo partito, né in una Lega sempre più sfiatata e senza rotta. Dai bunker non si vincono le guerre, se non si mantengono capacità di movimento in superficie. Ma se il bunker non viene attaccato, lo stallo può non essere breve.

2. L’opposizione sulla Luna

Se la disperata «resistenza» berlusconiana ha ancora un senso, ciò è dovuto in primo luogo all’assenza di una vera opposizione. Per mesi hanno giurato, dal Pd all’Udc, che vi sarebbero stati in parlamento i numeri per un altro governo. Esso avrebbe preso forma «in cinque minuti» secondo la memorabile frase dell’illustre stratega Pierferdinando Casini. Al tempo stesso, invece, le elezioni anticipate venivano descritte come un autentico disastro nazionale. Oggi le parti si sono curiosamente invertite, ed altrettanto curiosamente le elezioni che venivano osteggiate dall’opposizione quando la maggioranza numerica del governo traballava, vengono richieste adesso quando una maggioranza per quanto comprata ed abborracciata si è di fatto ricostituita.

Misteri di un’opposizione che ha fatto fiasco su tutti i fronti. Ha rinunciato alla mobilitazione nel paese in nome delle manovre di palazzo, e quando queste ultime sono fallite ha solo saputo aggrapparsi alle vicende giudiziarie di «puttanopoli». Il fatto è che le cosiddette «opposizioni» parlamentari niente sanno dire sulle grandi questioni economico-sociali, sulla politica internazionale, sulle stesse riforme istituzionali – vedi la debolissima opposizione al «federalismo», opposizione in quanto di matrice leghista-berlusconiana non certo sulla sostanza dei decreti in discussione. Non che i leader di questa ridicola «opposizione» non parlino di questi temi. Ne parlano, sempre meno degli scandali della corte berlusconiana, ma quando ne parlano lo fanno solo per ribadire il più ferreo atlantismo, la più cieca subordinazione alle oligarchie finanziarie ed al vertice della Bce, per dire signorsì a Marchionne ed alla Marcegaglia. Dunque, per quel poco che ne parlano – sopraffatti dalle esigenze del quotidiano teatrino delle “dichiarazioni”, dalle guerre intestine, dalla spasmodica ricerca di nuove manovre parlamentari – sarebbe meglio tacessero.

In definitiva, le opposizioni non mobilitano perché non hanno niente da dire sulle grandi questioni che potrebbero davvero riempire le piazze. Mentre il malessere sociale cresce, esse si rivolgono al paese come se stessero sulla Luna. La stessa positiva eccezione delle manifestazioni delle donne del 13 febbraio è da ascriversi ad un forte e sincero moto di ripulsa della visione berlusconiana della donna, non certo al ruolo dei partiti del centrosinistra.

3. Chi comanda oggi in Italia?

Se il fronte delle opposizioni continua a fare acqua da tutte le parti, è però evidente l’estrema debolezza della maggioranza parlamentare. Non tanto per una questione di numeri, quanto piuttosto per l’affanno che detta i ritmi dell’azione del governo. Il fatto che, ancora una volta, la scena sia occupata dalle vicende giudiziarie di Berlusconi, con la ricerca ossessiva di nuove leggi salva-premier, la dice lunga sullo stato di salute della compagine governativa. Il fatto che si sia ormai dentro ad una vera e propria crisi istituzionale (scontro con la magistratura, tensioni sempre più frequenti con la presidenza della repubblica), evidenzia l’eccezionalità della crisi politica in corso: di sicuro la più grave della storia repubblicana.

Ma se questa è la situazione, chi comanda davvero oggi in Italia? In base alle tradizionali lenti marxiste, proprio in considerazione dell’eccezionalità della situazione, ci saremmo aspettati una più forte scesa in campo delle classi dominanti. E’ vero che Marchionne ha dettato i suoi «comandamenti», ma solo una visione grettamente economicistica potrebbe farci sottovalutare il significato dell’assenza di vere iniziative politiche da parte dei grandi centri del potere economico. Centri che hanno preferito stare alla finestra. Perché?

Una risposta ci viene dalle ultime carte diffuse da Wikileaks e pubblicate da l’Espresso. Scriveva in occasione delle elezioni politiche della primavera del 2008 l’allora ambasciatore americano, Richard Spogli, che se avesse vinto Veltroni la cosa sarebbe stata eccellente, se invece avesse prevalso Berlusconi lo sarebbe stata ancor di più. Il primo viene descritto come un «americano» tout-court, il secondo come un buffone assai nefasto per il suo paese, ma decisamente utile in materia di basi, Afghanistan, politica mediorientale. Quel che vale per le scelte internazionali, vale anche per le decisioni economiche di fondo. Qui, alla tradizionale e bipartitica subordinazione alle grandi oligarchie finanziarie, si accompagna l’ormai condivisa subalternità ai diktat dell’Unione Europea, alla quale si delegano tempi, vincoli, quantità e sostanza delle continue manovre finanziarie.

Dovremo riparlarne di certo nelle prossime settimane, dato che è ormai imminente l’importante riunione europea sulla questione del debito pubblico. Quel che è utile qui rilevare è l’assenza di ogni dibattito su questi temi, che pure sono i più importanti per le loro ricadute sociali. E’ un’assenza dovuta alla condivisione bipartisan delle ricette europee. Condivisione (e subalternità) non solo da parte degli schieramenti politici, ma di un’intera classe dirigente in tutte le sue articolazioni.

Se questa è l’odierna condizione italiana, ed anche la risposta alla domanda su chi realmente comanda nel quadro dell’attuale caos politico-istituzionale, ecco che ritorna prepotente il tema della riconquista della sovranità nazionale, che potrà essere raggiunta solo liberandosi tanto della Nato quanto dell’Unione Europea: temi non a caso banditi da ogni pubblica discussione.

 
4. Eppure qualcosa si muove…

Il quadro generale non è dunque confortante. L’incendio del mondo arabo appare ancora lontano da noi, ma sarebbe sbagliato non vedere i primi segnali del risveglio sociale. Un risveglio che non avverrà in base ad uno schema ultra-semplificato classe contro classe, ma in maniera sicuramente molto più articolata. Abbiamo più volte parlato del significato degli scontri del 14 dicembre a Roma, ci siamo soffermati sulla portata della resistenza operaia nei referendum di Pomigliano e Mirafiori e sulla riuscita dello sciopero della Fiom del 28 gennaio, si è detto poc’anzi della grande mobilitazione delle donne, mentre un altro segnale ci viene dalla nuova vivacità di importanti settori giovanili. E’ ancora poco, ma i primi sintomi di un risveglio sociale ci sono.

E’ ancora poco perché di fronte al pesantissimo attacco rappresentato dal marchionnismo non si è riusciti finora ad arrivare ad uno sciopero generale, perché davanti a quel che accade nel Nord Africa la mobilitazione di quel che fu il movimento contro la guerra sembra pari a zero, perché di fronte all’autoritarismo dell’attuale governo non esiste una risposta minimamente efficace.

Tutto ciò non stupisce. Le prime scintille del risveglio sociale non potevano essere sufficienti ad incendiare una prateria bagnata da 30 anni di dominio dell’ideologia del «siamo comunque nel miglior mondo possibile». Bisognerà sconfiggerla questa ideologia, e questo dipenderà da tanti fattori, tra i quali quelli soggettivi non saranno meno importanti di quelli che ci consegna l’oggettività della crisi. Ma questo lavoro ricostruttivo di un programma e di una prospettiva dovrà avvenire sulla base della ragionevole previsione di una prossima stagione di lotte.

5. Ben presto l’Europa busserà alla porta…

Tutti i ragionamenti fin qui svolti acquistano un senso più preciso se collocati nel quadro generale della crisi sistemica del capitalismo, in particolare di quello occidentale. Mentre i principali indicatori economici continuano a registrare una sostanziale stagnazione, con l’acutizzazione della disoccupazione giovanile e l’impoverimento di fasce significative della popolazione, da tempo segnaliamo la centralità della questione del debito ed in particolare dei cosiddetti «debiti sovrani».

Abbiamo già detto che la questione tornerà di grande attualità nei prossimi giorni. Quella del «debito pubblico» è una vera e propria arma di distruzione di massa. Pressoché tutti gli stati dell’occidente l’hanno usata per impedire il crollo del sistema finanziario, ed oggi che hanno foraggiato a costo zero il sistema bancario la utilizzano per presentare il conto ai rispettivi popoli, con manovre finanziarie pesantissime che vanno a colpire gli strati popolari, lavoratori salariati e pensionati in primo luogo, ma anche settori consistenti di un lavoro «autonomo» in realtà sempre più «dipendente».

In Italia si è avuto un primo assaggio con la manovra approvata nel luglio 2010. Ora siamo in attesa del secondo round, mentre nel frattempo l’iniziativa di Marchionne ha dato un ancora più marcato segno di classe all’offensiva in corso. Vedremo quali saranno le decisioni europee e vedremo come verranno tradotte in finanziarie nazionali. Arriveremo alla classica «goccia che fa traboccare il vaso»? Non lo escludiamo affatto. Se questo avverrà, se la penosa letargia sociale avrà davvero fine, sarà allora il momento di proporre delle radicali misure politiche ed economiche alternative (vedi Per un’alternativa alla catastrofe – Proposte per un programma di fase), a partire dall’uscita dall’Unione Europea e dall’azzeramento del debito pubblico.

6. Zero proposte: il «segreto» del momentaneo successo di Nichi Vendola

Nel curioso mosaico della crisi politica italiana, ha assunto un certo rilievo l’emersione del pittoresco tassello vendoliano. Dopo aver tanto insistito sull’emozionante linea «o primarie, o morte», il Berlusconi di sinistra che formalmente è ancora governatore di una regione che di rado lo vede presente, ha deciso la cosiddetta «mossa del cavallo», per uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato. Niente primarie dunque, coalizione elettorale allargata al Terzo polo, per un governo d’emergenza presieduto da Rosy Bindi.

Sul piano dell’immagine, l’unico di cui realmente si occupa, la mossa di Vendola non è stupida. Essa, però, ne mette in luce il vuoto strategico. Oltretutto la proposta di alleanza elettorale giunge proprio nel momento in cui le elezioni si allontanano, le primarie erano già archiviate da tempo, ed in quanto a Rosy Bindi è stata la stessa presidente del Pd a precisare che il candidato ufficiale rimane al momento Bersani.

Diciamo che, con la momentanea rinuncia alle primarie, l’illusionista pugliese ha voluto trarsi dall’impaccio del doversi riproporre all’infinito come il Messia del non si sa che. Una scelta tattica saggia, si dice suggerita dal vecchio pallone ormai sgonfiato che corrisponde al nome di Fausto Bertinotti. Fossimo nei panni di Vendola ci preoccuperemmo dei consigli di un simile consigliere, ma questo è un altro discorso.

Quel che però è interessante, dato che il Messia non ha certo rinunciato alle sue velleità, è la collocazione politica che il vendolismo ha assunto con le ultime mosse in maniera ancor più chiara. Vendola non solo ha ancorato con decisione il suo partito personale (Sel) all’interno del centrosinistra (il che era scontato), non solo si è offerto di puntellare da sinistra la «santa alleanza» che in nome dell’antiberlusconismo intende arrivare fino a Fini, magari avendo alla testa Casini, Vendola ha accompagnato la sua mossa tattica con lo zero assoluto in termini programmatici.

Del resto questa non è una novità, ed è proprio questo vuoto programmatico che lo rende pronto a qualsiasi avventura governativa. Un vuoto che si vorrebbe riempire con qualche frase fatta, con discorsi fumosi di un «politicamente corretto» di sinistra che oggi trova spazio solo grazie all’assenza altrui (assenza del Pd da un lato, del Prc dall’altro). Nel marasma politico attuale è probabile che la peculiare forma di questo populismo di sinistra senza contenuti possa avere un momentaneo successo. Quel che possiamo escludere è che possa rappresentare una prospettiva politica di medio periodo. Chi quindici anni fa aveva deciso di delegare la rappresentanza della sinistra a Bertinotti, oggi compie la stessa operazione con Vendola. Gli spazi mediatici che gli vengono concessi devono pur significare qualcosa. Ma se l’ex presidente della Camera è caduto come è caduto, trascinando con se la sua creatura arcobalenica, non pensiamo proprio che il nuovo Arcobaleno vendoliano possa reggere la tempesta sociale che si annuncia all’orizzonte.

7. Un esodo necessario

Ci siamo soffermati su Vendola perché – piaccia o meno, e a noi non piace – appare l’unica cosa viva del panorama disfatto della sinistra italiana. Ma il vendolismo rimanda anche ad un’altra questione di carattere strategico. Dopo Magri, Ingrao, Cossutta e Bertinotti, Vendola è il prosecutore della linea politica istituzionalista. Quella del governo con il centrosinistra (in questo caso perfino allargato a destra) a tutti i costi. Quella che utilizza e subordina i movimenti sociali ad una prospettiva tutta interna alle istituzioni. Istituzioni che peraltro non sono neppure più quelle di vent’anni fa.

Ma è possibile che di fronte ad un parlamento ridotto ad un postribolo, e non per la sola responsabilità di un Berlusconi, non si accenni neppure ad una minima riflessione sul carattere assunto dalle istituzioni di questa «democrazia» ormai marcia fino al midollo?

Non possiamo conoscere i prossimi sviluppi di una crisi politica che a tratti si presenta con i caratteri dell’impazzimento. Quel che ci sentiamo di escludere è che possa conformarsi una qualsivoglia alternativa politica e sociale che non faccia i conti fino in fondo con l’attuale sistema politico, che non va emendato, va semplicemente rovesciato.

Ecco perché, al di là del turbinio delle vicende politiche contingenti, ci pare che lo strumento per far avanzare una prospettiva di alternativa rimanga quello dell’esodo popolare da questo sistema. Sia chiaro, l’esodo da solo non può certo bastare. Fondamentale sarà il suo intrecciarsi con la ripresa della lotta sociale, ma senza questo esodo – evidenziato dall’elevato tasso di astensionismo elettorale – ben poche speranze vi sarebbero.

Noi siamo invece ragionevolmente ottimisti. Molte cose dovranno arrivare a maturazione affinché possa aprirsi una nuova prospettiva socialista. Molte battaglie andranno combattute, e su più piani. Quel che ci pare certo è l’improponibilità del «rattoppo», del «meno peggio», di un riformismo d’accatto che ormai non ha più riforma alcuna da proporre. Anche l’interminabile crisi politica in corso ce lo conferma: il sistema non riesce più a depurarsi, ad auto-correggersi. Riesce solo a blindarsi. Anche per questo Berlusconi è sceso nel bunker: per mancanza di alternative nella sua maggioranza, quanto nell’opposizione parlamentare.  

Che l’esodo continui dunque!, ma non fine a se stesso, bensì come primo passo verso la sollevazione popolare. Che non è dietro l’angolo, ma che potrebbe sorprenderci tutti.