Con l’insurrezione popolare fino a prova contraria

Via Gheddafi, senza se e alcuni ma

«Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni». (Vangelo secondo Matteo, 7,15-20)

“La Libia non è l’Egitto, né la Tunisia”. Su questo dato di fatto convergono tutti quanti, i mentori della NATO, che perorano una missione militare “umanitaria” ma consigliano prudenza (volendo intendere che la Libia è più simile all’inferno Somalia); e coloro i quali  denunciano la sollevazione come “rivoluzione colorata”, ovvero “cospirazione imperialistica”. Non è che questo secondo fronte annoveri fra le sua fila solo dei “bischeri”, ma, tanto per dire, anche i Castro e i Chavez i quali, in modo meno ellittico il secondo, si sono fatti paladini di Gheddafi.
(Nella foto: Bengasi, 28 febbraio. “NO ALL’INTERVENTO STRANIERO. IL POPOLO LIBICO PUO’ FARCELA DA SOLO”)

Su una cosa questi ultimi hanno certamente ragione, sul fatto che i media, non solo occidentali (anzi quelli occidentali sono questa volta andati a ruota di al-Arabiya e al-Jazeera), nel tentativo di hitlerizzare Gheddafi, hanno costruito un castello di menzogne. «Non è vero che i cacciabombardieri abbiano colpito indiscriminatamente i quartieri di Fashlun, Siahia, Gerganesh: abbiamo visto, ci siamo fatti raccontare, le case, le strade, e non ci sono i segni dei bombardamenti». (Vincenzo Nigro, La Repubblica, 27 febbraio 2011). 
«Fosse comuni? Diecimila morti? Cinquantamila feriti? Bum! Sono tutte balle». (Il Giornale, 27 febbraio 2011). La stessa foto sulle fantomatiche fosse comuni si scopre essere quella di un’ordinaria sepoltura nel cimitero di Tripoli.

Basta forse questa montagna di menzogne — questa volta costruita addirittura in maniera maldestra e dilettantesca, neanche lo sporco delle unghie di quella orchestrata nel 1999 per “dimostrare” la pulizia etnica in Kosovo, di quella con tanto di ampolla sulle armi di distruzione di massa in Iraq, o delle responsabilità talebane per l’attacco dell’11 settembre 2001— a giustificare il sostegno all’imbroglione di Tripoli? Ovvio che no.

Ma procediamo con ordine.

Chi abbia visitato il Maghreb e il Makresh sa che i “fratelli arabi”, considerano i libici come un popolo di trogloditi e di ignoranti. Giudizio impietoso e ai limiti del razzismo. Ma questa è la considerazione che gli arabi hanno in genere dei beduini: gente arretrata, rimasta fuori dalla storia, ai bordi dell’islam.

Afferma uno che la sa lunga, il vescovo di Tripoli Giovanni Martinelli: «Il beduino Gheddafi non si arrenderà mai, piuttosto si farebbe ammazzare. Tripoli non sarà espugnata». (Guido Ruotolo, LA STAMPA, 1 marzo 2011)

La Libia, ci dice Del Boca, è uno “stato-nazione fallito”. Lo è appunto perché dal tessuto sociale arcaico beduino, strutturato per tribù e clan, non è riuscito a sorgere uno Stato-nazione.

Gli ultimi ammiratori di Gheddafi giustificano il loro appoggio al Colonnello, appunto perché egli avrebbe tentato di fare della Libia uno Stato-nazione moderno.

Erano agli anni del nasserismo, del baathismo, ovvero del kemalismo in salsa araba. Quaranta anni sono passati da allora, due generazioni. E cosa scopriamo? Che questo slancio modernizzatore, prima sotto le mentite spoglie del “socialismo”, poi sotto quelle della “Terza via”, infine sotto quelle capitaliste tout court, è fallito. A poco o nulla sono servite le  ingenti risorse petrolifere, le rendite finanziarie ottenute partecipando al capitalismo-casinò. A poco o nulla è servito stracciare le primigenie velleità antimperialistiche —dopo il 2001 Gheddafi ha fatto pace con l’Occidente trascinando il suo paese nella Santa Alleanza anti-terroristica divorziando così pressoché da tutte le cause prima abbracciate.

Scopriamo che alla prima prova del fuoco la “nazione libica” si è squagliata, disgregata, che le sue genti si sono riaggruppate sulle linee di tripartizione dei tempi dell’Impero romano, e che prima gli invasori arabi e poi quelli ottomani e fascisti avevano lasciato intatte: Cirenaica, Tripolitania, Fezzan. 
Disgregatosi su linee tribali non solo il corpo politico dello Stato, ma l’esercito stesso — che dovrebbe fungere, nella visione kemalista, sia nella sua versione nasseriana che baathista, da spina dorsale dello Stato e collante della nazione. Una fratturazione attestata non solo dal passaggio di alcuni generali con i ribelli, ma dal fatto che a capo degli insorti di Bengasi ci sono ex-alti papaveri del regime, e che la futura transizione si dice possa essere pilotata da dignitari gheddafisti della prim’ora come l’ex-ministro degli Interni Abdulefettah al-Obeidi (bengasino) o da quello della Giustizia Abdeljali. (Lemonde.fr, 27 febbraio 2011) 
Una fratturazione confermata specularmente dalla natura dello schieramento dei lealisti, tutta ancorata all’appartenenza tribale , di qui la fedeltà, decisiva per Gheddafi, dell’aviazione, che si spiega con la lealtà della tribù dei Qud. (Roberta Zunini, Il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2011)

Scopriamo, alla prima seria sollecitazione, che la “nazione” era una posticcio rivestimento di un tessuto sociale restato inopinatamente tribalistico.

Scopriamo anzi che il regime di Gheddafi si è appoggiato sull’infrastruttura tribale, sulla ragnatela dei suoi dignitari e dei suoi notabili; che ha spartito i proventi del petrolio in base ad un beduinico «Manuale Cencelli». Un do ut des misurato sulla scala del sostegno al regime, quindi una distribuzione necessariamente arbitraria e diseguale, dove la tribù del Colonnello, la Qadhadhafa, in cima alla piramide del potere politico-militare, teneva la cassaforte e distribuiva la ricchezza come obolo, regalia, elargizione paternalistica. Ogni tribù staccava quindi la cedola o, se si preferisce, il pizzo, al custode del forziere, mungendo in maniera parassitaria, la gallina dalle uova… d’oro nero.

Abbiamo definito il sistema gheddafista, un «capitalismo burocratico», occorrerebbe aggiungere «capitalismo distributivo e parassitario», dove lo sviluppo delle forze produttive era demandato alle ditte occidentali (e recentemente a quelle cinesi), il lavoro e la fatica agli immigrati (guarda caso principalmente egiziani e tunisini), mentre ai nativi era concesso il privilegio di cazzeggiare, ovvero di evitare la fatica del lavoro produttivo. Un sistema sbirresco che in nome della “Terza via” tra socialismo e capitalismo, e del superamento della democrazia, ha soppresso ogni fermento culturale, ogni dissenso, ogni intelligenza; spegnendo sul nascere ogni virgulto della pur borghese “società civile”.

Cosa ci sia da difendere di questo organismo scalcagnato resta per noi un enigma più oscuro di quelli orfici.

Chi ha in simpatia il bislacco Colonnello arguisce che la sollevazione contro il regime è oltremodo spuria, se non addirittura ambigua e reazionaria, che non ha i caratteri moderni e democratici di quelle tunisina o egiziana.

E grazie!

Ammesso e non concesso che l’insurrezione libica non sia figlia delle rivoluzioni democratiche, pur incompiute, in Tunisia ed Egitto: come avrebbe potuto quella libica, dato il peculiare tessuto sociale che l’ha partorita, essere fotocopia di quelle di Tunisi o Il Cairo? Ogni rivolta, oltre ché precipitato della storia di un popolo, in quanto negazione del sistema che la produce, è pur sempre un suo prodotto. L’apparente ambiguità programmatica e sociale della insurrezione libica, è speculare alla primitività del potere che è stata costretta a combattere.

Ma da qui al sospetto che la sollevazione sia, in fin dei conti, nulla di più che il frutto di una macchinazione di Londra, degli USA o degli emirati del Golfo che stan dietro alle emittenti come al-Jazeera o al-Arabiya, ce ne corre. Anzi, questa lettura è un alibi, una manifesta indulgenza verso quaranta anni di gheddafismo corruttore, un’assoluzione per i suoi peccati mortali.

Vi risparmiamo il solito pistolotto contro il “complottismo”, sul quale abbiamo scritto altrove. Qui basti insistere che ogni rivolta sociale, tra le altre cose, è come il calore che scioglie la coltre di neve e porta alla luce ciò che c’era sotto, ciò che non era visibile ma non per questo cancellato. Squagliata la coltre del gheddafismo abbiamo la società per quello che realmente è, con i suoi rapporti sociali, con le sue stratificazioni consolidate, che nessuna pretesa modernizzatrice ha potuto spazzare via.

Capiamo che non piaccia ai detrattori della sollevazione che i cirenaici alzino il vessillo della vecchia monarchia. Ma quel vessillo non simboleggia solo, né anzitutto, un fervore monarchico o religioso sanusita, quanto piuttosto l’identità di un popolo, di un popolo stanco di subire vessazioni e oppressione. Di un popolo che rivendica un posto nella storia, e che lo rivendica raccogliendo il testimone di quelli del Maghreb e del Medio oriente.

Che gli imperialisti pongano in essere le loro tresche per allungare le mani sui pozzi non c’è dubbio. Non è tuttavia lecito confondere la spinta popolare dal basso con le manovre esterne di eterodirezione. Non è lecito difendere gli oppressori di oggi con lo spauracchio di quelli che potrebbero sopraggiungere domani. A ben vedere questo è il classico argomento dei filistei, che deprecano ogni sovversione dell’esistente perché essa è caos e a causa di questo si potrebbe passare dalla padella alla brace.

Abbiamo spiegato che ove gli ex-protettori imperialisti di Gheddafi, oltre a mettere il cappello sulla rivolta, osassero sbarcare in Libia schierandosi con gli insorti allo scopo di schiacciare la resistenza di Tripoli, non esiteremo un attimo a condannare questa alleanza e, per quel che ci compete, ad aiutare la Resistenza stessa. Non è pura la rivolta cirenaica, men che meno lo sarà l’eventuale resistenza tripolitana. Se ciò accadesse gli insorti si trasformerebbero in truppa di complemento dell’armata imperialista, la guerra, da conflitto interno si trasformerebbe in conflitto di magnitudo internazionale, la Cirenaica e la Libia diventerebbero avamposti del Moloch euro-atlantico, a tutto svantaggio non solo delle Resistenze arabe, ma di tutti i popoli, anzitutto di quelli tunisino ed egiziano che hanno appena rialzato la testa.

Intanto registriamo che il “Consiglio Nazionale Libico”, formatosi il il 27 febbraio, ovvero il cosiddetto “fronte di Bengasi”, ha declinato la proposta di aiuto americana, respingendo ogni ipotesi di intervento militare esterno, sostenendo che gli insorti, nell’eventualità che si precipiti davvero in una guerra civile, conteranno solo sulle loro forze . (LA STAMPA, 28 febbraio 2011).

Anche per questo, dopo le prime dichiarazioni di baldanza interventista, le due sponde dell’Atlantico hanno fatto marcia indietro e la Clinton ha dichiarato ieri che la stessa “no fly zone” è di difficile attuazione.

Un intervento militare immediato è, secondo chi scrive, improbabile, almeno a breve scadenza. Somalia, Iraq e Afghanistan sono di monito, tanto più che esso potrebbe addirittura diventare benzina sul fuoco della crisi in Maghreb e nel Makresh, mettendo a repentaglio le stesse transizioni pilotate in Tunisia ed Egitto. 
«La no fly zone non garantirebbe la sicurezza dei pozzi. Per difenderli bisognerebbe pensare al dispiegamento di forze speciali da sostituire poi con reparti regolari per permettere il ritorno al lavoro del personale internazionale». (Gian Micalessin, Il Giornale, 27 febbraio 2011). «Dobbiamo prendere Tripoli o Bengasi? O fermare gli scontri in tutto il paese? Beh, in Kosovo c’erano 50mila soldati NATO. Quindi, prima di parlare di scenari militari per cortesia qualcuno dica cosa si vuole fare, puoi si può parlare di cosa serve». (Andrea Nativi, L’Avvenire, 27 febbraio 2011)

La fretta è cattiva consigliera.

Nel frattempo gli americani hanno, come di consueto, mandato avanti l’ONU, decretando sanzioni contro la Libia, sequestrando i beni riferibili al governo di Tripoli depositati all’estero, il tutto con l’avallo di Cina e Russia — lasciando così con un palmo di naso coloro che mentre fanno spallucce sulle sollevazioni dei popoli ripongono ogni speranza sul ruolo di Pechino e Mosca. In secondo luogo americani ed europei puntano ad incriminare Gheddafi come “genocida” e a trarlo in arresto per deferirlo alla Corte penale internazionale dell’Aia (International Criminal Court – l’ICC del famigerato Moreno Ocampo), come si è tentato di fare col sudanese al-Bashir.
Che pensiamo delle sanzioni e del tentativo di deferire Gheddafi all’Icc? ma è ovvio che siamo contrari, anzitutto perché non riconosciamo alcuna legittimità a certi tribunali-fantoccio, poi perché le sanzioni promulgate dall’ONU sono, per loro natura, il castigo con cui i padroni del mondo puniscono chiunque osi sfidare la loro supremazia. 
E noi non stiamo mai dalla parte dei padroni.