Una battaglia che è possibile vincere
Diverse notizie degli ultimi giorni hanno riportato la questione del rilancio del nucleare italiano sulle prime pagine dei giornali. Due scadenze, in particolare, dettano il ritmo delle danze del fronte atomico. La prima è quella del 23 marzo, data entro la quale, pena il decadimento della delega, il Consiglio dei ministri dovrà approvare il Decreto legislativo che vorrebbe regolare il percorso del piano nucleare. La seconda è quella del 12 giugno, data quasi certa dello svolgimento del referendum.
E’ in questo quadro che si collocano le ultime mosse della lobby atomica. Tra queste dobbiamo segnalarne tre in particolare: l’incredibile pasticcio governativo sugli incentivi alle fonti rinnovabili; la scelta di fissare il referendum proprio nell’ultima domenica utile al fine di rendere più difficile il raggiungimento del quorum; la sfegatata difesa dell’energia nucleare da parte di Umberto Veronesi, cioè di colui che, da presidente dell’Agenzia per la sicurezza, dovrebbe svolgere in teoria un ruolo di garanzia super partes.
Il perché di tanta agitazione è presto detto: lorsignori hanno paura di non farcela. Ricordate l’impegno di Scajola sulla prima pietra da posare entro la legislatura? Bene, quella pietra non è ancora pronta. Leggiamo sul punto la risposta del ministro Paolo Romani, intervistato il 4 marzo sulle pagine del Quotidiano Nazionale: «Sul nucleare l’Italia sconta un ritardo strutturale, complice il referendum che si votò sull’ondata emotiva di Chernobyl. Quella dell’atomo, come ho già detto, è per noi una strada obbligata. In pochi mesi abbiamo costituito l’Agenzia per la Sicurezza nucleare e abbiamo perfezionato la legislazione accogliendo i rilievi delle Regioni. La posa della prima pietra? Puntiamo al 2014».
Il fatto che il nuovo ministro dello Sviluppo Economico indichi il 2014, anziché l’inizio del 2013 (data limite della legislatura) come amava ripetere il suo predecessore Scajola, indica che uno slittamento minimo di un anno e mezzo sui programmi è ormai nelle cose. Ma ci sono altri punti, condensati proprio nella risposta citata, che meritano un commento. In primo luogo quello secondo cui l’opposizione al nucleare, «per noi strada obbligata» sarebbe solo di tipo emotivo. In secondo luogo il ruolo dell’Agenzia presieduta da Veronesi. In terzo luogo il presunto accoglimento dei rilievi delle Regioni.
Chi usa oggi davvero l’emotività?
Andiamo con ordine. Che un disastro nucleare possa suscitare «emozioni» è un’ovvietà sulla quale non varrebbe neppure la pena di soffermarsi, ma il fatto è che il disastro di Chernobyl non è avvento in un film di fantascienza, bensì nella realtà. Così pure come sono stati una realtà i gravi incidenti di Three Mile Island e Kashiwazaki, fino a quelli considerati «minori», ma pur sempre con la dispersione di radioattività nell’ambiente, avvenuti nelle centrali di tutto il mondo, a partire da quelle francesi ed inglesi.
L’emozione c’è perché ci sono i fatti. Ma chi è oggi che cerca davvero di far leva su un’emotività contrapposta alla razionalità? Sono gli antinuclearisti, o non sono piuttosto i propagandisti dell’atomo ormai a corto di argomenti? Leggiamo per esempio la «scientificità» di questa affermazione di Umberto Veronesi, intervistato su La Stampa del 3 marzo: «Senza il nucleare l’Italia muore. Tra 50 anni finirà il petrolio, tra 80-100 il carbone, seguito poi dal gas. Altre fonti non saranno sufficienti a fornire l’energia di cui abbiamo bisogno. Il risultato? Non avremo la luce, non potremo far funzionare i computer o i frigoriferi e neppure far viaggiare i treni. Se lo immagina?»
Costui, che si era presentato come un tecnico che avrebbe vigilato sugli aspetti sanitari a partire dalla sua «esperienza radiologica maturata come oncologo», agisce invece come uno sfegatato militante atomico. Peraltro, con argomenti raccattati nella pattumiera dei luoghi comuni. Si esauriranno i combustibili fossili? Certo che sì, anche se in tempi ben più lunghi di quelli indicati da Veronesi. Ad esempio, la consistenza delle riserve di carbone si valuta nell’ordine delle migliaia di anni, non certo negli 80-100 dell’intervista. Non per questo ci auguriamo lo sviluppo dell’utilizzo del carbone, ma le stupidaggini sono stupidaggini anche se escono dalla bocca del prof. Veronesi. In quanto al petrolio, abbiamo già scritto diverse volte che in Italia il suo uso per produrre energia elettrica è ormai prossimo allo zero: perché insistere allora con questa litania?
Ma, seconda certezza dell’ex senatore del Pd oggi arruolatosi nelle truppe atomiche messe in piedi dal governo Berlusconi, le altre fonti «non saranno sufficienti a fornire l’energia di cui abbiamo bisogno». Ma chi glielo ha detto? L’Italia, che ha oggi il parco di centrali a gas più moderno d’Europa ed una potenza installata più che sufficiente a far fronte al fabbisogno nazionale, ha una richiesta di autorizzazioni nel settore delle rinnovabili che è superiore all’intera potenza elettrica oggi disponibile. Quest’ultimo dato va indubbiamente esaminato in maniera critica, considerato il peso non trascurabile di una componente meramente speculativa, ma anche dopo aver eseguito questa necessaria depurazione esso ci parla delle enormi potenzialità del settore delle rinnovabili.
La speculazione: dai combustibili fossili, agli inceneritori; dalle rinnovabili fino… al nucleare
Notizia: c’è una forma di speculazione nel, per il resto sanissimo, sistema capitalistico! Si tratta di quella messa in piedi con gli incentivi alle fonti rinnovabili. Speculazione tanto più sviluppata in Italia in virtù degli incentivi decisi per legge, assai più succulenti di quelli esistenti nella media dei paesi europei. Esiste questa speculazione? Certamente sì, esiste. Strano però che soltanto su questa si siano levate le voci di certi opinion maker. Lo Stato foraggia le banche? Che nessuno ne discuta. Il deficit pubblico si appesantisce per gli incentivi al settore automobilistico? Non è un problema e Marchionne è un eroe nazionale. Si finanzia più del dovuto il settore delle rinnovabili ed il fotovoltaico in particolare? Scoppia lo scandalo e si corre ai ripari. Come? Non si sa ancora. Il ministro Romani annuncia un decreto ministeriale ad hoc, mentre si annunciano tagli agli incentivi mediamente superiori al 20%. Una riduzione di questa entità sarebbe in realtà ragionevole, ma il problema è che questa percentuale non torna affatto con le cifre ben più elevate che si dice di voler risparmiare (2 miliardi all’anno solo nel solare).
Romani lo nega, ma è difficile non vedere in questa manovra la precisa volontà di favorire il nucleare. Il problema, per il governo, è che uno sviluppo troppo forte delle rinnovabili finirebbe per scaricare i fucili della propaganda alla Veronesi. La partita è complicata – anche chi gestisce il business delle rinnovabili ha una sua forza tanto nella politica quanto in Confindustria – ma ben difficilmente avremo un semplice adeguamento degli incentivi, e probabilmente arriveremo ad un vero e proprio freno, per quanto temporaneo, agli investimenti nelle rinnovabili.
Prima di passare ad alcuni dati utili per inquadrare la questione, soffermiamoci ancora sul tema della speculazione. Che quello della produzione di energia elettrica sia un campo molto fertile per gli speculatori è cosa assai nota. Ma ciò avviene solo nel settore delle rinnovabili? Non scherziamo. La madre di tutte le speculazioni si chiama Cip6, nomignolo apparentemente innocuo quanto civettuolo, che dal 1992 con il truffaldino concetto di «fonti assimilabili» (alle rinnovabili, ovviamente) ha regalato 40 miliardi di euro proprio ai grandi produttori di energia elettrica con le fonti fossili (Enel in primo luogo) ed agli inceneritori.
Non contenti di questa truffa colossale – che fra l’altro ha consentito all’Enel di arrivare ad utili annui superiori ai 5 miliardi di euro, ma questo scandalo pagato dai consumatori sembra non interessare a nessuno! – i soliti noti vogliono gettarsi ora sulle regalie previste per il nucleare. Che cosa ha infatti deciso il governo con il decreto del febbraio 2010? Semplice, come abbiamo già scritto qualche tempo fa: «Lo Stato pagherà nel caso di ritardi nella costruzione delle centrali, le aziende produttrici di energia nucleare avranno diritto a vendere tutto il quantitativo di energia che vorranno, alla faccia del mercato, e ciò avverrà presumibilmente a prezzi superiori a quelli correnti. Abbiamo dunque un gigantesco caso di foraggiamento con denaro pubblico degli oligopoli del settore, al massimo 2-3 aziende, che non ancora contente di questa ruberia cercheranno anche di far lievitare i prezzi scaricandoli sui consumatori. Altro che mercato! Altro che concorrenza! Altro che liberalizzazione bersaniana!» (vedi Atomicamente previdenti)
Perché le rinnovabili infastidiscono la lobby nucleare
Per capire il peso che vengono assumendo le fonti rinnovabili è certamente utile esaminare qualche dato. Nel 2009 la produzione da fonti rinnovabili in Italia è stata pari a 69,3 miliardi di chilowattora (Kwh). Nel 2008 la produzione si era fermata a 58,1 miliardi di Kwh. Vi è stato dunque un aumento di oltre il 19% sull’anno precedente, un dato notevole anche se un po’ «drogato» dall’andamento climatico favorevole all’idroelettrico nel 2009. Ma saranno i dati del 2010, ad oggi non ancora disponibili, a marcare un grande avanzamento delle rinnovabili. In ogni caso, limitandoci al dato ufficiale del 2009, dobbiamo rilevare che la produzione da fonti rinnovabili, raggiungendo il 20,8% dei consumi interni lordi (CIL) ed il 23,9% della produzione interna lorda, ha coperto esattamente il 100% dei consumi domestici. Un traguardo simbolico non da poco.
Vediamo ora quali fonti hanno consentito di raggiungere questo risultato. L’idroelettrico ha contribuito per 49,1 miliardi di Kwh, l’eolico per 6,5 miliardi, il geotermico per 5,3 miliardi, le biomasse (che però possono essere considerate «rinnovabili» solo in minima parte) per 7,6 miliardi, il solare per soli 676 milioni. Questi dati ci dicono che l’idroelettrico fa ancora la parte del leone, che il geotermico è sostanzialmente stabile ormai da molti anni, che biomasse ed eolico crescono ma a ritmi non particolarmente elevati, che il solare è ancora il fanalino di coda, ma – attenzione! – con un aumento percentuale sul 2008 del 350%! Ci soffermiamo sul caso del solare fotovoltaico, perché è proprio in questo settore che le incentivazioni hanno prodotto il boom del 2010. Se a fine 2009 la potenza istallata nel settore era di 1.144 Megawatt (Mw), a fine 2010 le proiezioni parlano del possibile raggiungimento della soglia degli 8.000 Mw (+ 699% in un anno!). Un incremento certamente «drogato» dagli incentivi – il governo aveva previsto il raggiungimento di questa soglia nel 2020! – ma comunque impressionante.
Ora i lettori saranno giustamente curiosi di sapere se questo boom continuerà o se invece si arresterà del tutto con la riduzione delle incentivazioni. Non abbiamo la sfera di cristallo, ma per cercare di capirlo può essere utile allargare lo sguardo al panorama europeo, dato che gli incentivi esistono un po’ ovunque, ma in misura in genere assai inferiore a quelli fino ad oggi concessi in Italia. Se finora abbiamo utilizzato i dati ufficiali del Gestore Servizi Energetici (GSE), passiamo ora a quelli della International Energy Agency (IEA).
Con i suoi 69,3 miliardi di Kwh prodotti con le rinnovabili, l’Italia è solo al quinto posto a livello europeo, preceduta da Germania (95,2), Svezia (78,7), Spagna (72,4) e Francia (69,4). Quello che è però più interessante è la collocazione nella graduatoria dei due settori davvero emergenti (eolico e solare). Nell’eolico al primo posto troviamo la Germania (37, 8 miliardi di Kwh), seguita da Spagna (36,6), Regno Unito (8,5), Francia (7,7), Portogallo (7,5), Danimarca (6,7) ed infine Italia (6,5). Nel solare la graduatoria disegna una piramide ancora più accentuata. Alla base il grosso dei paesi con una produzione sostanzialmente trascurabile, in vetta di nuovo la Germania (6,2 miliardi di Kwh) e la Spagna (6,1), nel mezzo l’Italia ferma a 676 milioni.
Se la non brillante posizione italiana nell’eolico può anche spiegarsi con la minor ventosità media del territorio nazionale rispetto ai paesi che si affacciano sull’Atlantico, che dire del solare? In questo campo non c’è alcun motivo per cui il «Paese del sole» debba stare dietro alla Germania, con una produzione che è solo il 10,9% di quella realizzata dai tedeschi. E’ evidente dunque che in altri paesi europei le rinnovabili marciano anche se non godono di incentivi all’«italiana», dimostrando dunque che la crescita in corso rappresenta un trend sostanziale e destinato a durare. Che è esattamente quello che i nuclearisti alla Veronesi proprio non vogliono sentirsi dire.
Il percorso del decreto ed un referendum che può essere vinto
Dopo questa sfilza di numeri, torniamo ora alle prospettive del piano nucleare italiano. Abbiamo accennato all’inizio alla scadenza del 23 marzo. In apparenza niente sembra poter fermare la corsa all’atomo del governo. Eppure qualche timore esiste. Leggiamo cosa ha scritto il 4 marzo il quotidiano economico Milano Finanza: «La parola d’ordine è rassicurare sul fatto che tutto marcia come deve, ma dietro l’ufficialità qualche malumore trapela. Il rischio incaglio è in agguato, e non solo per il previsto veto di gran parte delle Regioni, arrivato puntualmente ieri. Il provvedimento deve ancora approdare all’esame delle commissioni parlamentari competenti, Attività produttive (Camera) e Industria (Senato) e da lì, acquisite eventuali osservazioni, tornare al Consiglio di Stato».
Si è visto all’inizio che Romani ritiene che i rilievi delle Regioni siano stati accolti nella nuova bozza del decreto, ma le Regioni non sembrano affatto d’accordo. Dalla riunione dei governatori è arrivato un no piuttosto secco. Si sono pronunciate a favore solo 4 regioni (Piemonte, Lombardia, Campania e Veneto), ed è significativo che al no delle regioni governate dal centrosinistra si siano aggiunti quelli di Sicilia, Sardegna e Molise, mentre la Regione Lazio non si è espressa. Ovviamente l’opposizione delle regioni è fiacca e di tipo tecnicistico, ma segnala quali potranno essere le difficoltà politiche nel momento in cui si arrivasse alla indicazione dei siti.
Nonostante i molti ostacoli, è difficile pensare che il governo non ce la faccia a varare il decreto, anche per la debolezza di un’opposizione parlamentare assai smorta sul nucleare come sul resto. Molto più interessanti sono invece le prospettive che si aprono con il referendum. Nei giorni scorsi il governo ha lasciato intendere di voler fissare la consultazione referendaria per il 12 giugno, cioè proprio nell’ultima data consentita dalla legge. L’intento è chiaro: favorire l’astensionismo, che è l’unica carta possibile per far fallire i referendum in programma, oltre a quello sul nucleare quelli per l’acqua pubblica e contro il «legittimo impedimento».
Questa volta, dopo tanti referendum andati a vuoto, è possibile che il quorum venga raggiunto. La curva declinante delle consultazioni referendarie italiane – da una partecipazione al voto dell’87,7% per il divorzio nel 1974, al 23,3% al referendum per una legge elettorale ultra-maggioritaria del 2009 – sembrerebbe non lasciare speranza alcuna. Ed in effetti il quorum è stato raggiunto l’ultima volta nel lontano 1995, mentre tutti i referendum successivi (1997, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009) sono sistematicamente falliti.
Sarà così anche questa volta? Non è detto. La crisi dello strumento referendario ha coinciso con tre precisi fenomeni: in primo luogo, l’uso a raffica, e sui temi più disparati ed a volte astrusi, che ne è stato fatto in particolare dai radicali; in secondo luogo, il suo utilizzo ripetuto su una materia assai ostica come quella delle leggi elettorali (si è votato su questo tema, sempre su quesiti sostanzialmente ultra-maggioritari, nel 1991, 1993, 1999, 2000, 2009); in terzo luogo, la crescente spoliticizzazione di massa ed il prevalere della rassegnazione di fronte ad un sistema oligarchico.
Cosa c’è di diverso questa volta da far pensare ad un differente esito nel giugno 2011? C’è che, senza voler togliere niente agli altri quesiti referendari, quello sul nucleare ha le caratteristiche giuste per fare di un referendum un’occasione di mobilitazione per milioni di persone. Contro il nucleare c’è una forte sensibilità diffusa, sul nucleare si è già votato ed allora fu un plebiscito, sul nucleare tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli elettori è ancora oggi contraria, sul nucleare un no costringerebbe davvero il governo a fermare i suoi piani.
Non è detto che questa mobilitazione possa essere sufficiente. Anzi, un calcolo meramente ragionieristico direbbe il contrario, dato che Pdl e Lega lavoreranno senz’altro per l’astensione. Molto dipenderà dalla campagna elettorale, che negli ultimi referendum è stata sempre particolarmente smorta, ma che questa volta si preannuncia invece più viva e partecipata. E’ comunque una partita da giocarsi, anche perché il referendum sarà anche un voto pro o contro il governo. E ci sono ben pochi dubbi sul fatto che la maggioranza degli italiani non veda l’ora di mandarlo a casa.