Non appena scoppiata la rivolta in Egitto abbiamo espresso, ai nostri amici di Kifaya, la volontà di inviare un compagno dall’Europa, non solo per vedere da vicino quella grande sollevazione, anche per capire come le diverse forze dell’opposizione, tra cui quelle di sinistra, stessero lavorando, nonché per scambiarsi delle opinioni. Infine per consolidare le relazioni fraterne, rese difficili, soprattutto di recente, dalle autorità egiziane.
Dopo un breve scambio di mail i compagni egiziani, per quanto indaffaratissimi nelle mobilitazioni, ci diedero un consenso generale, ma sottolineando che la situazione era magmatica, incerta e anche pericolosa. Erano i giorni di Piazza Tahrir, degli scontri con la polizia, degli attacchi della squadracce di Mubarak.
Sfidando questi rischi decidemmo di andare. Ma proprio a ridosso della partenza Egypt Air comunica che tutti i voli in partenza e in arrivo per l’aeroporto de Il Cairo erano stati cancellati, tra cui il mio. Il viaggio dovette essere rimandato.

Subito dopo le dimissioni di Mubarak, se non sbaglio il 10 febbraio, torniamo all’attacco con i compagni egiziani. Programmiamo la partenza per il 9 marzo. In programma alcuni incontri, non solo con esponenti di Kifaya, ma con alcuni gruppi di sinistra e coi movimenti protagonisti della rivolta.

Il 9 marzo mattina salgo quindi sull’aereo. Approfitto del tempo di volo per rimettere in ordine i miei appunti, leggere le ultime cose che mi sarebbero servite nelle discussioni. La prima riunione l’avrei avuta la sera stessa del 9 marzo.

Quando giungo al posto di frontiera dell’aeroporto, al controllo passaporti, percepisco immediatamente che qualcosa stava andando storto. Ero in fila con molti altri e si avvicinano due poliziotti che mi chiedono di seguirli. Mi accompagnano nel box accanto, che era chiuso. Immediatamente arriva un agente a cui consegno il mio passaporto. Dopo un veloce controllo del visto mi consegna ai suoi due colleghi. Ormai era chiaro che qualcosa non andava. La sensazione netta era che sapessero chi fossi e per quale ragione ero lì.

Dopo un’attesa di mezz’ora, giunge nella stanzetta un ufficiale che mi pone alcune domande: quale fosse lo scopo del mio viaggio in Egitto, in quale albergo avrei soggiornato, ed eventualmente chi avrei dovuto incontrare. Da parte mia chiedo il perché di tutte quelle domande, provo a spiegare che non sono tenuto a rispondere a tutte, cerco comunque di sdrammatizzare. L’ufficiale rimaneva in silenzio e maneggiava nervosamente il mio passaporto. Alza la cornetta e pronuncia poche parole, evidentemente con un suo superiore. Di nuovo protesto e chiedo cosa stia accadendo. Una risposta secca: “per ragioni di sicurezza noi dobbiamo fare ulteriori accertamenti”. Quindi chiama i due agenti che mi avevano preso in consegna dall’inizio, i quali mi accompagnano in un altro ufficio, non distante. Dalla porta d’ingresso sembrava un ufficio qualsiasi, simile a tanti dei non-luoghi degli aeroporti. Ma non c’erano impiegati, bensì poliziotti. Poliziotti che andavano e venivano, altri dietro ad un bancone. Notavo, una volta entrato, la trascuratezza dell’arredamento, la sporcizia. Vengo sottoposto ad un’accurata perquisizione. Tra le mie proteste mi sequestrano il telefono cellulare e la macchina fotografica. Alle mie domande, e alle mie proteste la stessa risposta: “Dobbiamo trattenerla qui per ragioni di sicurezza”. Qui dove mi chiedevo? Lo scoprirò di lì a poco.

Compilato una specie di registro un agente mi spinge verso un corridoio stretto in fondo al quale, superati dei cessi puzzolenti, c’era una porta. L’agente mi spinge, io faccio per resistere, invano. Arriva un altro poliziotto e, aperta quella porta, mi scaraventano dentro uno stanzone in cui stavano ammassati una cinquantina di disgraziati. Essi avevano sentito le mia grida e alcuni mi chiedono da dove venissi, di quale paese fossi. Quando dissi di essere un europeo non ci volevano credere.

Davanti a me sudanesi, neri, somali, libici e soprattutto palestinesi. Una polvere d’umanità, giovani e anziani, sequestrati dalle autorità, impedito loro di entrare nel paese. Con mio grande stupore scopro che alcuni erano egiziani, gente che viveva in Libia, scappata da quell’inferno, fortunati che  erano riusciti a saltare su un volo per Il Cairo. Alcuni erano sei sette giorni che erano rinchiusi. Chiedo loro la ragione per cui erano trattenuti. Un paio, semplicemente, non avevano il passaporto, altri mi dicono che avevano pendenze penali in Egitto, un altro paio mi dice che erano stati espulsi dalla Libia di Gheddafi con tanto di timbro sul passaporto come “indesiderati”.

C’era fatalismo e rassegnazione nei loro racconti, come se quanto gli stesse accadendo, fosse normale, inesorabile. Erano gente di umilissime origini, di remote zone dell’Egitto, della zona del Delta, senza santi in paradiso, abituata a subire soprusi, da uno Stato e da una polizia che tratta la povera gente come animali. In quei racconti la “rivoluzione egiziana” era lontanissima, anzi, solo un miraggio. In quello stanzone la “rivoluzione” non aveva nemmeno bussato alla porta.

Poco dopo faccio amicizia con una decina di palestinesi. Erano tutti di Gaza. Quattro di loro erano tre mesi che stavano lì, dimenticati da Dio. Avevo letto qualcosa, di sfuggita, proprio durante i giorni della rivolta egiziana. Avevo letto di decine di palestinesi in transito che volevano tornare a Gaza e che le autorità egiziane negavano l’ingresso nel paese ed il transito fino a Gaza. Erano loro, proprio quelli che avevo davanti. Mi ha colpito la loro calma, che però non era rassegnazione, come nel caso degli egiziani. Quando si convincono che ero un amico della causa palestinese, e che forse proprio per quasto, o anche per questo, mi trovavo accomunato nella loro medesima sorte, iniziano oguno a raccontarmi le loro storie. C’era il musulmano praticante, il sostenitore di Hamas, l’apolitico, ed infine un militante di al-Fatah scappato da Gaza ai tempi dello scontro con Hamas. Lo stato egiziano non fa differenza, mi spiegavano, noi siamo di Gaza, quindi  reietti, appestati, maledetti. Proprio il militante di Fatah mi spiegava che il consolato palestinese del Cairo non ha fatto il minimo passo per aiutarli. Disinteresse assoluto. “Sono di Gaza, questo è il problema”.

Nel frattempo il numero dei reclusi cresceva. Altri ci raggiungevano, diversi libici, anch’essi respinti. Una bolgia infernale. Verso le dieci di sera chiedo ai fratelli palestinesi se per caso ci avrebbero servito un pasto. Mi guardano con stupore: “Ma mica servono i pasti!? Guarda in quello scatolone, quello è tutto ciò che ci danno”. C’erano alla rinfusa delle merendine confezionate. Erano strane quelle merendine. Ne apro una. Si trattava di un’inquietante barretta, come una zolletta di zucchero, dal sapore indecifrabile. Desisto. Mi passano un bicchiere d’acqua, e mi spiegano che per l’acqua occorre chiedere alle guardie, che non fanno grandi sforzi, riempiono una bottiglia di plastica nell’adiacente cesso maleodorante e te la riportano.

Non c’è niente da fare. I palestinesi, dicevo fra me e me, sono di un’altra pasta. Malgrado la situazione tristissima, malgrado fossero settimane, per alcuni mesi, che fosserro in quello stato, peggiore della galera, il loro umore restava alto, ogni tanto intonavano splendide canzoni popolari palestinesi. L’orgoglio di un popolo indomabile e fiero. La rabbia, tanta, contro il mondo, contro Israele, e contro l’Egitto “un paese di merda”. Il militante di Fatah, che a Gaza aveva lasciato moglie e figli, guardandomi fisso negli occhi, mi esprime tutta la sua rabbia verso gli “arabi”, non solo contro i governi. “Guardali questi stronzi! Hanno cacciato Mubarak ma nulla è cambiato. Noi siamo qui e la nostra ambasciata se ne frega. Voglio scappare da questo posto e da questa civiltà. Se è vero che domani mi rispediscono a Mosca (egli era vissuto un anno in Russia), la prima cosa che faccio è andare in un paese europeo e chiedere asilo politico. Non tornerò mai più”. Subito dopo mi dice: “vedrai, tu sei europeo, ti lasceranno andare col primo volo domani. Se sarà così, ti prego, denuncia ciò che vedi qui, fallo sapere a più gente possibile come ci trattano, come trattano i palestinesi”.

Approfittando del parapiglia causato dall’ingresso di un’altra mezza dozzina di dannati, mi incuneo a forza tra la calca e supero la porta. Voglio sapere quando mi faranno uscire. Due guardie provano a trattenermi, senza successo. Mi dimeno tra i poliziotti, urlo all’impazzata, riesco ad avvicinarmi al bancone e chiedo di poter contattare il mio consolato. Da uno stanzino sbuca fuori un ufficiale, il quale mi prega di seguirlo. Mi dice che per “ragioni di sicurezza” io non posso entrare in Egitto. Che c’è un decreto di espulsione e che sarò rispedito a casa col primo volo. Ovviamente si scusa, premettendo che lui obbedisce soltanto a degli ordini dall’alto. E mi fa riaccompagnare da due agenti nel reclusorio.

Nel frattempo è passata la mezzanotte. Alcuni provano a dormire, chi sdraiato sul pavimento, chi sulle seggiole malandate. Altri nervosamente, ma in silenzio, camminano su e giù nei pochi spazi liberi. Provo a dormire anch’io.

I palestinesi dopo avermi ricavato un posto per sdraiarmi, mi offrono una coperta. Li ringrazio. Non è facile dormire in quelle condizioni. Mi risuonano nella testa le parole di Mohammad, l’amico di Fatah. Quando torni fa sapere al mondo come questi egiziani trattano i palestinesi. Ma pensano anche che la “rivoluzione” egiziana, ha cacciato sì Mubarak, ma il potere, il potere quello vero, cioè il monopolio della forza, è restato nelle mani di chi ce lo ha sempre avuto. E coloro che ce l’hanno sempre avuto ubbidiscono agli stessi interessi, rispettano gli stessi patti di sudditanza verso gli USA e Israele. Lo stesso odio, per la causa palestinese, per coloro che la sostengono e per i rivoluzionari di ogni risma. Una rivolta, per quanto esaltante, non è una rivoluzione, che significa appunto non solo cacciare un despota, ma abbattere il sistema che egli rappresentava. Dal girone dei dannati, in Egitto, nulla sembra cambiato.