Perché non difendo Gheddafi (seconda parte)
«Gli imperialisti si sono ficcati in un bel casino. Peggio per loro».
Nella prima parte di questo articolo, scritta prima dell’attacco NATO, alludendo a coloro che sostenevano le truppe lealiste contro la rivolta, così concludevo: «Rivendicare la sua soppressione violenta è possibile solo per due motivi: o dall’altra parte abbiamo un regime, per quanto imperfetto, di tipo rivoluzionario e antimperialista (per cui il suo rovesciamento causerebbe un danno strategico alla più generale causa dell’emancipazione dei popoli oppressi), oppure perché la sollevazione è in realtà una pedina di una cospirazione imperialistica. In tutti e due i casi, la vittoria della sollevazione si tradurrebbe in un inaccettabile successo strategico dell’imperialismo».
La «Grande Jamahiria Araba Libica Popolare Socialista»
C’è in effetti chi giustifica l’appoggio a Gheddafi col fatto che la Libia sarebbe una specie di “stato socialista”. Altri, volando più basso, dicono che la Libia va difesa in quanto la sua economia è quasi del tutto nazionalizzata. Altri ancora si arrampicano sugli specchi sottolineando che i proventi del petrolio vengono distribuiti tra la popolazione nella forma di reddito garantito.
Cominciamo dall’obiezione più semplice, l’ultima.
Se la distribuzione erga omnes della rendita derivata dall’esportazione del petrolio costituisse un criterio valido per dare un giudizio positivo del governo libico cosa dovremmo concludere dei regimi di Arabia Saudita, Kuwait, del Qatar o degli Emirati, ben più generosi verso i loro cittadini?
La distribuzione orizzontale di una quota, pur importante, della ricchezza, non fa di un regime un soggetto antimperialista, tantomeno socialista. Lenin, certamente semplificando, diceva con uno slogan che il socialismo russo era i soviet più l’elettrificazione, ovvero il potere ai lavoratori stessi e lo sviluppo delle forze produttive, dal quale primariamente sarebbe dipesa la ricchezza disponibile.
Se andate in Libia a dire che il potere politico è in mano ai lavoratori si mettono a ridere pure i nomadi tebu. Di chi è in mano allora?
La Jamahiria pretende di fondarsi sulla “democrazia diretta”, ovvero, proibito ogni pluralismo politico, in assenza di libertà associativa, sui “Congressi popolari”. E’ notorio che si tratta solo di una finzione, di una mascheratura del sistema tribale sottostante. Vero è che il colpo di stato filo-nasseriano del 1969 prometteva di sradicare questa infrastruttura ancestrale. Aquaranta anni di distanza abbiamo che la modernizzazione sociale, che pure c’è stata, è entrata in una simbiosi imperfetta col tribalismo. Imperfetta poiché ogni equilibrio faceva e fa perno sulla figura bonapartistica del leader supremo, il quale, prendendo atto della resistenza del vecchio tessuto di clan, ha finito per sussumerlo, ponendo i suoi familiari e i notabili suoi sodali in posizioni di comando.
Tutte le leve del potere sono così in mano, nemmeno ad un partito (propriamente non esiste alcun partito), ma ad una classe di dignitari e maggiorenti fedeli alla cupola di fedelissimi di Gheddafi, cupola in cui i legami di parentela giocano un ruolo determinante. Va da sé che questo equilibrio si fondava su una distribuzione degli incarichi in base al criterio di ossequiosa obbedienza. E come in ogni sistema tribale che si rispetti ogni appoggio ha un prezzo: concessioni di privilegi, di posti di comando, di incarichi in cambio, appunto, dell’obbedienza alla cupola. Ognuno può immaginare fino a che punto potesse essere giunta la corruzione. Lo stesso esercito è ammorbato dal cancro del tribalismo e del nepotismo, tant’è che nella Jamahiria, ben diversamente che dall’Egitto nasseriano, l’esercito regolare conta ben poco, visto che, come ogni satrapia che si rispetti, la fiducia viene riposta in corpi pretoriani, spesso formati da mercenari stranieri, e nei potenti servizi segreti.
Chiamare socialista o anche solo popolare un simile dispotismo beduinico significa prendersi gioco dell’intelligenza. Andatelo a chiedere al milione di lavoratori immigrati, i soli a mandare avanti la macchina produttiva e trattati come paria, privi dei diritti più elementari (esattamente come nei paesi del Golfo). Andatelo a chiedere ai migranti africani in cerca di un imbarco per l’Europa, rinchiusi, su richiesta italiana, in veri e propri lager nazisti.
Un regime antimperialista? Alle sue origini senza dubbio. Dopo varie peripezie e giravolte si giunse alla data fatidica del 1990, quando il regime condanna l’Iraq di Saddam Hussein, con ciò legittimando l’invasione americana dell’anno successivo. Era solo l’inizio della redenzione, della conversione filo-imperialista. Arriviamo al 1999 quando la Libia, dopo aver consegnato i presunti responsabili dell’attentato di Lockerbie del 1988, si vede tolto l’embargo e in cambio si unisce agli Stati Uniti nella Santa alleanza anti-terrorista. Nel maggio 2006 Libia e USA riallacciano le relazioni diplomatiche interrotte nel 1979, e la Libia viene tolta dalla lista degli “stati canaglia”. Di mezzo c’è non solo la riappacificazione con la Francia (con la quale Gheddafi coopera in tutta la cintura subsahariana), ma il rifiuto di ogni sostegno alle resistenze palestinese, libanese e irachena, comepure l’appoggio fattivo ai guerriglieri del Darfur e del Sud Sudan contro il governo di Karthoum. E’ proprio in questo conflitto che la Libia stabilisce rapporti acclarati di cooperazione con Israele: la prima recluta i mercenari e mette loro a disposizioni basi per l’addestramento, il secondo invia gli istruttori.
Ritenere che la Libia sia ancora una specie di base antimperialista significa essere ciechi o semplicemente ignorare quando accaduto non da qualche mese, ma da un ventennio a questa parte.
Per quanto attiene la sfera economica essa ha seguito il corso filo-occidentale in politica estera. Lo stesso regime di nazionalizzazioni è stato “riformato” nel 2005, con l’avvio di numerose privatizzazioni, tra cui quelle nel decisivo settore bancario e finanziario. Come se non bastasse ai capitali occidentali, oltre a ingenti investimenti nel settore petrolifero e delle infrastrutture, è stato concesso di aprire banche di investimento a esclusivo capitale occidentale. D’altro canto, proprio come le petro-monarchie del golfo, gli ingenti utili ricavati dalla vendita del petrolio e dalle concessioni alle multinazionali, venivano investiti come capitale finanziario in giro per il mondo. Anzitutto nei paesi europei e negli USA, ma anche in alcuni paesi africani sub sahariani. Da almeno un decennio il capitale finanziario libico, amministrato da pochi intimi di Gheddafi e in alcuni casi di loro diretta proprietà, è parte integrante del circuito imperialista e partecipa alla generale rapina tipica del capitalismo casinò. Si calcola che gli investimenti libici in banche, aziende e Fondi europei ed americani (Africa e Paesi del Golfo esclusi) siano più grandi del Pil (90mila milioni di dollari).
La partecipazione della Libia di Gheddafi alla coalizione imperialistica capeggiata dagli USA è quindi contestuale al suo ingresso come consocio nella grande giostra del capitalismo finanziario globale.
Dove sono andate a finire le ingenti rendite derivate da questo sodalizio? La risposta a questa domanda ci aiuta forse a capire la rivolta di febbraio e come mai alcune importanti tribù, non solo della Cirenaica (i Warfalla e gli Zuwayya) dopo l’inizio dell’insurrezione, si siano schierati contro Gheddafi. Non c’è dubbio che il conflitto libico ha avuto quest’aspetto di guerra per bande, di clan, per la spartizione del bottino costituito dalla rendita derivante, sia dal petrolio che dagli investimenti all’estero.
Se fosse stato solo questo, o se questo fosse stato l’aspetto determinante c’era di che stare alla larga da entrambi i fronti.
Gli imperialisti dietro alla rivolta?
Che alcuni oppositori di antica data di Gheddafi abbiano trovato rifugio a Londra non è un mistero. Nemmeno che Londra li appoggi dietro le quinte. Da qui a sostenere che la rivolta scoppiata a Bengasi nel gennaio e culminata con l’insurrezione del 17 febbraio sia tutta una pantomima, una manovra dei servizi segreti inglesi e occidentali ce ne corre.
Anche in Egitto gli Stati Uniti, nel corso della rivolta contro Mubarak, giocavano su due cavalli, strizzando l’occhio ai rivoltosi e tentando di metterci il cappello sopra. Ma a nessuno è venuto in mente di pensare che una sommossa di massa senza precedenti nella moderna storia egiziana fosse una macchinazione americana. Non lo si è pensato dei tumulti in Algeria, non lo si è pensato per la Tunisia. Non lo si pensa per lo Yemen. Per la Libia, tuttavia, si ritiene che la rivolta non sia genuina. Chi lo pensa ritiene che tutte le informazioni a nostra disposizione sulla dinamica della rivolta in Cirenaica e poi nel resto del paese, siano fasulle, false. Noi non lo crediamo.
Noi prendiamo per buoni le centinaia di reportage delle centinaia di giornalisti presenti sul terreno i quali, pour essendo giunti solo agli inizi di marzo, concordano nel descrivere la rivolta come spontanea, talmente spontanea che nessuno escluso descrive come sgangherata, posticcia. I resoconti dai fronti di guerra tutti quanti confermano che le milizie degli insorti sono una specie di armata Brancaleone, prive di ogni coordinamento, incapaci di usare le poche armi pesanti in loro possesso, molti nemmeno in grado di maneggiare un Ak-47. E questa accozzaglia arrangiata alla bene e meglio sarebbe un braccio armato degli imperialisti? Lo slancio di migliaia di giovani impreparati, abituati fino al giorno prima a passare il tempo alla play station, mercenari degli anglo-americani?
Si può credere ad una simile sciocchezza? Una sciocchezza, vale sottolinearlo, che mentre contiene un disprezzo viscerale per i giovani insorti e le loro istanze, svela una patologica empatia verso un regime dispotico e il sicofante alla sua testa.
Servizi segreti? Ma se tutti i governi occidentali hanno dovuto ammettere che le rivolte nel Maghreb e in Egitto li hanno colti di sorpresa? Se gli stessi ministri, compresi quelli israeliani, hanno tirato le orecchie ai loro servizi perché non avevano nemmeno percepito i terremoti in arrivo? Bugie pure queste? Ma se son tutte bugie chi sarebbe la voce della verità? Evidentemente solo chi parla di cospirazione imperialista per rimuovere Gheddafi. E su quali informazioni essi si basano? Su nessuna, le loro sono soltanto deduzioni, sillogismi da quattro soldi. Perché mai gli imperialisti avrebbero dovuto fare tutto questo casino per togliere di mezzo un pittoresco ma prezioso alleato? Misteri della fede complottista, e contro la fede cieca, si sa, non c’è ragione che tenga.
Essi tirano in ballo la bandiera rosso,verde nera degli insorti, prova provata che il movimento sarebbe monarchico. Ora, a parte il giudizio sul Re Idris Senussi e sulla setta della Senussia, resta il fatto che lo stesso Consiglio Nazionale Libico (espressione della Alleanza della Rivoluzione del 17 febbraio), non solo non rivendica la secessione, ma nemmeno il ritorno della monarchia, e chiede una nuoiva costituzione repubblicana.
Ora, i nostri critici ritengono che la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU 1973 e la successiva aggressione a suon di bombe (che noi, a scanso di equivoci, condanniamo fermamente) diano loro ragione retroattiva, ovvero che se adesso siamo con Gheddafi occorreva esserci dall’inizio.
Per niente!
Qui non valgono né sillogismi né proprietà transitive, ma l’analisi concreta della situazione concreta. Nel mio articolo, Via Gheddafi, senza se e alcuni ma, fatto bersaglio di critiche da parte dei filo-Gheddafi-sin-da-subito, scrivevo:
«Abbiamo spiegato che ove gli ex-protettori imperialisti di Gheddafi, oltre a mettere il cappello sulla rivolta, osassero sbarcare in Libia schierandosi con gli insorti allo scopo di schiacciare la resistenza di Tripoli, non esiteremo un attimo a condannare questa alleanza e, per quel che ci compete, ad aiutare la Resistenza stessa. Non è pura la rivolta cirenaica, men che meno lo sarà l’eventuale resistenza tripolitana. Se ciò accadesse gli insorti si trasformerebbero in truppa di complemento dell’armata imperialista, la guerra, da conflitto interno si trasformerebbe in conflitto di magnitudo internazionale, la Cirenaica e la Libia diventerebbero avamposti del Moloch euro-atlantico, a tutto svantaggio non solo delle Resistenze arabe, ma di tutti i popoli, anzitutto di quelli tunisino ed egiziano che hanno appena rialzato la testa».
L’invasione non c’è stata, l’ONU autorizza gli imperialisti a colpire le forze lealiste per impedire loro la vittoria sul campo che era imminente. Il senso di quanto scritto non si presta comunque ad equivoci. Con l’intervento diretto delle armate imperialiste la natura del conflitto cambia: non una legittima rivolta popolare è adesso il fattore principale, ma, appunto, l’aggressione della NATO. E quindi, da una posizione di appoggio alla rivolta contro Gheddafi, occorre passare ad una posizione di sostegno alla Resistenza contro l’aggressione NATO.
Chi fa spallucce per questo cambio di campo o è prigioniero di una concezione fascista (per cui il popolo è soltanto un mito borghese, la rivoluzione un’illusione comunista e chiunque rivendichi democrazia, libertà e diritti è al soldo dei plutocrati americani o della “perfida Albione”), oppure non capisce un’acca di cosa sia una guerra, di come ogni giudizio sui fronti che si contrappongono deve tenere conto dell’analisi dei protagonisti, dei loro interessi, dei loro obbiettivi, come pure dell’andamento delle operazioni belliche.
Parlando di cose più serie è importante notare che la tragedia rischia davvero di trasformarsi in farsa. Il tutto sembra un vero e proprio circo, in cui Sarkozy ha tolto a Gheddafi la parte di pagliaccio principale. Quest’ultimo, dopo avere ridicolmente detto che la rivolta era promossa da al-Qaeda che impasticcava i ragazzi libici, poco prima che il Consiglio di sicurezza approvasse la 1973, ha superato il limite del ridicolo minacciando che «…la Libia uscirà dall’alleanza internazionale contro il terrorismo. Ci alleiamo con al-Qaeda e dichiariamo la guerra santa», salvo riaffermare, al giornalista che gli chiedeva perché non accettasse alcun negoziato con gli insorti: «Negoziare con i terroristi legati ad Osama Bin Laden non è possibile. Loro stessi non credono al dialogo, ma pensano solo a combattere e ad uccidere». (Il Giornale, 15 marzo)
Sarkozy, dicevamo, ha preso il posto di clown protagonista. Pensate davvero che il suo maldestro protagonismo nasconda l’appetito di papparsi la Libia? Ma quando mai. Questa mezza-copia di Berlusconi cerca solo di arrestare il crollo dei suoi consensi nell’opinione pubblica francese, ricorrendo alla solita grandeur francese. Stratagemma a cui la sinistra d’Oltralpe col suo codazzolo di nouveaux philosophes sembra aver abboccato sulla falsa riga di quella italiana.
Ma la gatta frettolosa fa i figli ciechi. Gli americani sono furiosi per l’iniziativa unilaterale di Parigi. L’Italia risponde con il Regno Unito che ci vuole il comando NATO delle operazioni. Parigi risponde picche, la Turchia fa altrettanto per diverse ragioni. Si litiga di brutto come non mai in seno al blocco occidentale, mentre Russia, Cina, India e Lega araba condannano l’aggressione come disordinata, foriera di nuovi disastri, basata su una errata lettura della 1973.
Gli imperialisti si sono ficcati in un bel casino. Peggio per loro.