La tragedia dei giovani scomparsi in mare negli occhi dei familiari incontrati dalla Carovana di solidarietà con la rivoluzione tunisina

Non c’è un passato di povertà alle spalle di Ahmed come lo è invece per molti suoi coetanei delle poverissime province del Sud della Tunisia.
La madre infermiera, il padre capocantiere, una casa dignitosa, di tipo occidentale. La camera del ragazzo, che il padre ci mostra è il classico rifugio di un adolescente.
Letto, computer sulla scrivania, manifesti attaccati alle pareti.

Potrebbe essere la camera di Marco, di Luca o di qualunque altro ragazzo italiano.
L’unica cosa che li differenzia dai ragazzi di casa nostra è la storia degli ultimi mesi. Ahmed, e gli altri studenti dello stesso quartiere, hanno partecipato in massa alle manifestazioni che si sono concluse il 14 Gennaio con la cacciata di Ben Ali.
Ragazzi  motivati ed impegnati a far sì che il loro paese potesse offrirgli le stesse opportunità di qualunque altro studente che vive solo a poche centinaia di chilometri di distanza.

I genitori di Ahmed raccontano ancora increduli la terribile storia.
Qualche settimana prima, un’auto, di cui è stato individuato sia il modello sia il numero di targa, inizia a percorrere le vie del quartiere periferico di Tunisi.
Gli occupanti fermano i ragazzi per strada, giovani dai quattordici ai venti anni, li intrattengono illustrando loro le opportunità che hanno avuto i ragazzi che prima di loro si sono imbarcati per  l’Italia.
Un permesso di soggiorno immediato per tutti, soldi da parte del governo  italiano, l’opportunità di un lavoro. “Siete dei bei ragazzi, in Italia sono ricercati i giovani di bella presenza, avrete l’opportunità di un buon lavoro …da voi non vogliamo nemmeno i soldi per il viaggio”, così ci dicono che è stato loro detto, i genitori e i parenti riuniti a parlare con noi.

I giovani si ritrovano, ne parlano fra loro.
Si conoscono tutti bene, vivono nel solito quartiere, sono cresciuti insieme, hanno frequentato le solite scuole, hanno partecipato tutti alle dure rivolte di Gennaio.
Le loro menti iniziano a immaginare un mondo nuovo, ricco di opportunità, lavori prestigiosi, scuole di alta formazione e l’entusiasmo inizia a crescere in loro.
Alcuni, a casa, ne parlano con i fratelli maggiori e con i genitori.
Questi si oppongono fermamente: “Non vi manca niente che cosa andate a cercare?” è la risposta che tutti ricevono.
Ma in loro è ormai scattata la molla dell’avventura e non si fermano davanti al diniego. Iniziano ad organizzarsi.

Per la partenza dovrebbero recarsi a Sfax, una città della costa sud orientale della Tunisia, da dove partono la maggioranza delle carrette del mare.
Con il classico entusiasmo che caratterizza quell’età, i ragazzi preparano il trasferimento, in gran segreto, senza più parlarne con i familiari.
I soldi non servono, gli organizzatori non glieli hanno chiesti, nessuno di loro si domanda il perchè.
Nonostante ciò, qualcuno vende alcune cose per racimolare un po’ di denaro, per le piccole necessità: un pc portatile, un cellulare, piccoli tesori che in quel momento non servono più.
Finalmente il grande giorno arriva.

Una cinquantina di ragazzi, al mattino, lasciano gli ignari genitori, le loro case a Tunisi alla volta di Sfax.
E’ facile immaginarli, giovani, belli, gli occhi che brillano di una luce nuova, l’adrenalina che scorre nelle vene che li eccita e gli fa battere forte il cuore, le battute, i progetti per il futuro.
Intanto, a Tunisi, passano le ore.
I genitori si chiedono come mai i loro figli ritardano a tornare da scuola. Iniziano a parlare fra loro ed in pochi attimi il sospetto diventa certezza.
Li chiamano al telefono, non sono ancora partiti ma lo faranno di lì a poco.
I genitori corrono allora dalla polizia, chiedendogli di fermare il barcone, ma i poliziotti, inspiegabilmente, si rifiutano di farlo, dicono che non è affar loro nonostante i ragazzi non possano esibire né passaporti e tantomeno documenti di viaggio.

La disperazione aumenta insieme al senso di  impotenza, qualcuno cerca di organizzarsi per partire per Sfax ma arriva la notizia che il battello è partito. 
Non rimane altro da fare  che aspettare di ricevere delle notizie, che purtroppo arrivano fin troppo velocemente.
Appena a 30 miglia dalla costa tunisina, la  fatiscente imbarcazione, già segnalata alle autorità competenti per le precarie condizioni di sicurezza in cui versava, affonda velocemente.
Solo due dei cinquanta ragazzi imbarcati riescono a salvarsi, due corpi verranno recuperati dalle motovedette italiane, trascinati in mare aperto dalle correnti.
Gli altri, dispersi in quel mare che, nell’immaginario collettivo della gioventù africana, rappresenta l’unica via possibile verso la dignità.

Ma la dignità non è merce che si trova facilmente sul mercato globalizzato dei diritti umani.
E per conferma di questo, l’ambasciatore italiano a Tunisi, rifiuta di  incontrare i genitori delle giovani vittime che chiedono alle autorità italiane un aiuto per ricercare e recuperare i corpi in modo di poterli seppellire nella loro terra. Un rifiuto che indigna e offende non solo i familiari ma tutto il popolo tunisino.

E le domande iniziano a tracciare il solco delle incongruenze di questa terribile storia.
Perchè i ragazzi sono stati “adescati”?
Perchè quell’auto, di cui sono stati forniti alle autorità tutti i dettagli, non è mai stata fermata?
Perché, a quei giovani, non gli sono stati chiesti soldi per il viaggio?
Perchè la polizia non ha fermato l’imbarcazione?
Perchè nessuno si preoccupa di far luce sulla vicenda?
I genitori sanno dare solo una risposta.
Quella che le autorità hanno voluto allontanare dalla Tunisia elementi che hanno partecipato attivamente alla rivolta e quindi particolarmente pericolosi per l’equilibrio politico altamente precario che in questi giorni è stato raggiunto.

Le parole di commiato, lasciando la casa che fu di Ahmed, stentano ad uscirmi dalla bocca.
Il senso di nausea che mi opprime mi impedisce di parlare.
Esco fuori, nel piccolo giardino fiorito e trovo Omar, il padre di due ragazzi che sono partiti insieme su quella nave maledetta.
Stringe forte al petto la foto dei due fratelli, abbracciati, sorridenti.
Il suo volto è un misto di dolore e di dignità.
Nel volto dei ragazzi nella foto, nei loro occhi gioiosi, vedo i miei figli e  mi scopro a pensare per quale fortuita ragione loro sono nati in Italia.