Il punto di vista di un intellettuale arabo
Qui sotto l’analisi della vicenda libica che esprime, grosso modo, l’opinione di quella che potremmo chiamare “borghesia progressista”, quello strato sociale venuto crescendo nel mondo arabo nell’ultimo trentennio. Una classe che ha sostenuto le sollevazioni popolari ancora in corso nella speranza dichiarata di sbarazzarsi dei tiranni locali al servizio degli USA e dell’Occidente, ma che al tempo stesso finisce per legittimare in qualche modo proprio l’aggressione imperialista. Una posizione ovviamente da condannare, ma che è necessario conoscere – anche per evitare di leggere sempre gli avvenimenti in corso con le solite lenti eurocentriche – ai fini della comprensione dell’attuale situazione nel mondo arabo.
Ci sono un sacco di cose circa l’intervento occidentale in Libia che potrebbero andare storte. Resta dunque da vedere se bombardare Gheddafi e i suoi mercenari sia stata una buona decisione.
Tuttavia, un gran numero di persone in tutto il mondo sembrano sostenere gli obiettivi delle forze anti-regime. E’ infatti evidente che il movimento di resistenza libico che ha chiesto aiuto sarebbe stato annientato senza il supporto degli attacchi aerei.
L’eredità distruttiva di George Bush si estende oltre le macerie di carne e cemento ammucchiatesi da un decennio in Iraq e in Afghanistan. Più di chiunque altro Bush ha contribuito a distruggere la legittimità delle istituzioni sovranazionali e dei loro sostenitori.
Dopo la guerra in Iraq, le Nazioni Unite hanno iniziato ad essere percepite come un puro e semplice arnese degli Stati Uniti o, peggio, come un organismo burocratico privo di significato. L’ONU può invece funzionare e pretendere legittimità solo grazie ad un meccanismo decisionale fondato sul consenso, mentre è stato chiaro che gli Stati Uniti, nel 2003, hanno cercato solo di inserirsi, armi in pugno, negli stati più deboli.
George Bush e i neoconservatori hanno dirottato il discorso del legittimo intervento basato sul consenso a proprio uso e consumo.
Quindi non ha tutti i torti chi fa spallucce oggi, davanti agli avvenimenti libici, nel sentirsi ripetere lo stesso discorso dello “interventismo umanitario”. Neanche io credo che il bombardare Gheddafi sia un gesto umanitario. Non dovrebbe essere consentito di delegittimare i meccanismi d’intervento globale in situazioni che offendono i diritti umani e la dignità.
Due cose sono tuttavia chiare: che la situazione in Libia è terrificante, e che i ribelli libici hanno chiesto aiuto al mondo esterno. Queste due condizioni da sole non giustificano l’intervento, ma sono componenti essenziali per legittimare internazionalmente la decisione di impiegare la forza.
Che cosa è un intervento vincente?
La questione di cosa significhi un intervento vincente è molto importante. Per lo meno, vuol dire sostenere i ribelli nella misura che essi richiedono. Significa inoltre non tentare di installare un nuovo governo che sia compiacente e sottomesso all’Occidente. Il venir meno a questi due principi significa pregiudicare la legittimità della campagna contro Gheddafi.
Molti sostengono che l’intervento è un progetto imperialista occidentale. Qui, vale la pena ricordare che le potenze occidentali avevano già il controllo del petrolio della Libia, quindi ben prima che la rivoluzione avesse inizio.
Muammar Gheddafi è stato “il nostro uomo”, tanto quanto lo era uno come Hosni Mubarak. Condoleezza Rice visitò personalmente la Libia e incontrò Gheddafi già nel 2008.
L’anno seguente Tony Blair si adoprò per la liberazione del terrorista condannato per l’attentato di Lockerbie per assicurarsi un accordo di fidanzamento con il regime libico — anche se sarà il suo successore Gordon Brown a farlo rilasciare. Insomma, per le potenze occidentali, se il petrolio fosse davvero il loro principale obbiettivo, sarebbe stato molto meglio sostenere Gheddafi.
C’è un argomento alternativo per coloro che parlano di imperialismo: che l’intervento va nel senso di consolidare il controllo occidentale sulle risorse libiche, e che senza l’intervento i ribelli sarebbero certamente stati annientati dalle forze superiori di Gheddafi.
Allora perché appoggiare il cavallo perdente? Come possono le potenze occidentali essere sicure che riusciranno a creare un governo più compiacente di quello di Gheddafi? Non dovrebbero sostenere il diavolo che già conoscono, soprattutto visto che egli era già il loro diavolo?
Infine, quale che sia il governo che prenderà forma in Libia, esso dovrà affrontare le questioni di fondo che hanno alimentato la rivolta popolare. Gheddafi è un tirapiedi imperiale e un nuovo governo imperiale dovrà assicurare comunque che i vantaggi che egli aveva assicurato non saranno spazzati via.
Ottenere simpatia, evitando picchi del prezzo del petrolio
Allora, qual è la motivazione più profonda delle potenze occidentali nel cercare di conservare il loro potere sulla Libia? E perché l’Occidente non intervenire in Bahrain o in Arabia Saudita o nello Yemen?
Il beneficio potenziale del successo del sostegno ai ribelli sarà un aumento della simpatia e del sentimento di amicizia da parte degli arabi verso l’Occidente. Non è chiaro se questa sia un’aspettativa realistica, ma è uno dei motivi che sembra motivare i leader occidentali.
Del resto, i costi e i rischi di un attacco limitato a Gheddafi e ai suoi mercenari, fornendo al contempo ai ribelli delle armi, sono relativamente bassi. Non è chiaro se il costo sia davvero basso, ma è probabile che esso sia percepito in questo modo.
In Bahrain e Arabia Saudita, è vero il contrario. Il presidente americano Barack Obama cercherà la rielezione, per cui è nel suo interesse evitare che l’economia globale piombi nella stagnazione.
Una rivoluzione vincente in Bahrain potrebbero destabilizzare l’Arabia Saudita, che spingerebbe il prezzo del petrolio all’in su, ciò che getterebbe l’economia degli Stati Uniti in stallo. E’ un rischio troppo grande, che Obama non può correre.
Infine, i timori del risorgente Iran, legittimi o meno (la maggior parte nel Bahrein sono sciiti) hanno un ruolo nello spiegare il comportamento americano.
Stessa musica nello Yemen, dove il governo permette agli americani di dare la caccia agli affiliati di Al Qaeda nel paese. Il che mette in luce la priorità che Obama da alla sicurezza. Se cade lo Yemen, Obama sarà accusato, a torto o a ragione, di permettere ai simpatizzanti dei terroristi di prendere il controllo in un altro paese del Medio Oriente. La campagna elettorale del 2012 è già in corso.
L’intervento in Libia potrebbe dare risultati imprevisti. L’egemonia dell’imperialismo e le “riforme” neoliberiste, che sono problemi che non sono arrivati con la rivoluzione, ma l’hanno preceduta.
Possiamo sperare di aiutare i giovani libici a riformare la loro società per renderla più democratica, più giusta e anti-imperialista. Ma prima essi debbono sopravvivere all’assalto polverizzatore di Gheddafi. E’ proprio questa chance che l’offensiva occidentale dà loro.
*Ahmed Moor è un giornalista freelance palestinese-americano che vive a Beirut. E’ nato nella Striscia di Gaza, Palestina. Collabora regolarmente alla Huffington Post e The Guardian.
Fonte: Al Jazeera.net del 28 marzo
Traduzione a cura della redazione