Prima parte: Kasserine
La prima volta che sono stata in Tunisia era l’agosto del 2002. In ogni stanza d’albergo, in ogni negozietto dei suk, nei luoghi pubblici, nelle case di ogni cittadino, a nord o a sud, campeggiava, immancabile, la foto di Ben Ali. Potevi guardarlo, fotografarlo, ma nessuna domanda su di lui riceveva risposta, se pronunciavo il suo nome, immediatamente mi si faceva segno di tacere, soprattutto se ci trovavamo per strada. Un senso di paura diffusa serpeggiava a tutti i livelli, solo i più temerari si limitavano ad un elogio sui generis del presidente. Nei suoi 23 anni di carriera Ben Ali è riuscito ad annientare qualsiasi forza di opposizione politica e civile interna, creando uno stato (retto da un unico partito, da lui stesso ridenominato Raggruppamento democratico costituzionale – Rdc ) noto per la mancanza di libertà, civile, politica, di stampa, di parola, di uso di internet.
(nella foto: Sahat Chouada, monumento ai martiri dell’insurrezione di gennaio)
Ho seguito con grande attenzione le vicende di questi ultimi mesi che hanno visto protagonisti i giovanissimi tunisini, gli studenti, i disoccupati, il popolo, esultando per la prima vittoria conseguita con la fuga del dittatore. Come membro di Sumud, mi sembrava doveroso prendere parte alla carovana di solidarietà con la rivoluzione popolare organizzata dal Campo Antimperialista e tornare in Tunisia dopo 9 anni, a respirare il vento del cambiamento.
Siamo stati giù dal 22 a sabato 26, recandoci nella capitale e nei luoghi del centro sud in cui tutto ha avuto inizio. Tralascio gli incontri con i vari partiti, con gli intellettuali, su cui altri scriveranno, e mi concentro proprio sulla visita nelle città di Kasserine e Sidi Bouzid, capitali degli omonimi governatorati.
Partiamo dalla stazione degli autobus armati di taccuini e macchine fotografiche, decisi a non lasciarci sfuggire nulla di ciò che vedremo e ascolteremo. Dai vetri del bus, ci passa sotto gli occhi una splendida terra, chilometri di uliveti, con piante rigogliose, tutte in fila, ben tenute, peccato la spazzatura ai bordi della strada. Effettivamente l’economia tunisina si basa sull’agricoltura, con un punto di forza proprio nella produzione di olio d’oliva (4° produttore mondiale). Oltrepassiamo lo splendido sito archeologico bizantino di Sbeitla, e finalmente, dopo aver percorso 290 km, arriviamo a destinazione nella città di Kasserine. Ad accoglierci, giovani volontari di Khayma – in italiano tenda – , Associazione socioculturale e di sensibilizzazione, formatasi appena il 19 marzo, con lo scopo di aiutare gli abitanti di quella che è tristemente divenuta famosa come “città dei Martiri”; nella sola settimana tra l’8 e il 14 gennaio, infatti, sono state uccise più di 70 persone dalla polizia.
Atef e Rached, presidente e segretario di Khayma, con altri amici, ci accompagnano lungo le desolate e polverose strade della cittadina, in direzione di El Zouhour, il quartiere che ha avuto il maggior numero di vittime. Come si vede che la povertà dilaga, qui. La strada non è asfaltata, piccole e basse le case, i cui muri ci dicono della miseria di chi vi abita. Le persone indossano abiti consunti, pochi negozi e molti più venditori ambulanti. Notiamo i segni della rivolta, l’edificio che un tempo era stazione di polizia è stato dato alle fiamme, così pure la sede del partito di Ben Ali. Dovevano essere veramente arrabbiati.
Arriviamo alla piazza che segna l’inizio del quartiere El Zouhour. Sul suolo che calpestiamo, il 9 gennaio, durante il funerale di Mohamed Amin Mbarki, un ragazzo di 16 anni, primo martire di Kasserine, sono state assassinate 14 persone. Perchè il funerale, cui era confluito tutto il paese, non era stato autorizzato. I cecchini sparavano dai tetti mentre la polizia lanciava lacrimogeni. Più raccapricciante ancora sentire che nell’hammam, in un angolo della stessa piazza, la polizia ha spalancato la porta, gettato una bomboletta di gas lacrimogeni e sbarrato la via. Dentro si trovavano 45 donne e bambini. Così, asfissiato, è morto Yakine Guernazi, sei mesi.
Al centro della piazza, giustamente ribattezzata “Shahat Chouada” ossia Piazza dei Martiri, dentro una piccola recinzione, sorge una colonna con incisi i nomi delle giovani vittime, omaggio della città ai suoi morti per il pane e la dignità e la libertà.
La nostra presenza lì non passa inosservata. Si avvicinano in tanti, tutti desiderosi di parlare. Che si sappia come vivono e perchè si sono ribellati. Una signora, con una coda di bambini al seguito, ci dice di essere vedova, e se non fosse per la generosità dei vicini di casa, non saprebbe sotto quale tetto mettere i suoi figli a letto la sera.
Comincia a diventare difficile restare impassibili, una città intera ha fame, ed è a lutto.
Veniamo scortati a casa di Nizar Gribi (nella foto accanto con la famiglia). Lo troviamo immobilizzato a letto. Quello stesso 9 gennaio, un proiettile gli ha perforato il colon discendente e spaccato la testa del femore in più parti, due giorni dopo un occlusione intestinale lo ha costretto a sottoporsi ad una operazione. Non sa quando tornerà a camminare e potrà cercarsi un lavoro. Ha un figlio piccolo, la moglie incinta e una sorella a carico. Inizia il suo sfogo: «Siamo veramente poveri. Mia moglie, come segretaria, ha uno stipendio di 180 dinari (meno di 80 €), l’affito mensile è di 150 dinari. Kasserine, la nostra regione, è stata la prima a sollevarsi. Noi abbiamo iniziato la rivoluzione, chiedevamo Dignità e ci hanno mandato i cecchini ad ucciderci. Peggio che in Palestina. Nessuno si occupa di noi, neppure una visita ufficiale abbiamo ricevuto. Forse a Tunisi hanno ottenuto la libertà, ma qui nulla è cambiato, proprio nulla». Siamo storditi dalle parole di un proletario vero. Tutto quello che queste persone possiedono è la loro prole e la forza-lavoro, che non sanno a chi vendere.
Continuiamo così di casa in casa, ultima, la famiglia di Mohamed Khudrawi, 23 anni (foto a sinistra). Il padre ci mostra con orgoglio la foto, sembra un bambino. La madre ci chiede ciò che tutte le madri hanno ripetuto: «Chi sono, dove sono gli assassini di mio figlio?». Vogliono giustizia.
Ci fanno visitare la casa. Il tetto a momenti viene giù, la calce è caduta e si vedono i pilastri interni, dalle finestre entrano mille spifferi; sopra l’unico tavolo che hanno, tutta la spesa per la famiglia allargata: farina, cipolle, un po’ di verdura.
Altro che legge elettorale e Assemblea costituente, prioritario dovrebbe essere un cambiamento radicale della gestione del potere e di chi lo gestisce, in direzione della salvaguardia dei diritti e dei bisogni dell’essere umano, compresi tutti quelli che non hanno nulla da offrire, che non hanno né mezzi né possibilità.
Il problema della Tunisia è che, pur avendo proiettato all’esterno l’immagine di un paese stabile, grazie alla realizzazione di una serie di riforme economiche volte alla liberalizzazione e privatizzazione del mercato, in realtà Ben Ali e i suoi fedelissimi non hanno potuto adempiere ai loro doveri di redistribuzione socio-economica, dal momento che si sono mangiati tutto. Il largo ricorso agli aiuti di Banca Mondiale ed UE ha creato un ingente debito estero, con i conseguenti onerosi rimborsi. Inoltre, gli investimenti economici, si sono concentrati quasi esclusivamente nelle zone costiere, trascurando il Sud e le zone agricole centro-occidentali. Poi sono arrivati gli aumenti dei prezzi dei beni di prima necessità, cioè pane, farina, zucchero e latte, vitali per i più poveri. Non è un caso che le proteste abbiano avuto inizio a Kasserine e Sidi Bouzid, e che solo in un secondo momento abbiano raggiunto la capitale.