Un sindaco della zona evacuata: «Il nostro tsunami si chiama nucleare»

«Quando il pericolo atomico diventa realtà», così intitolammo un articolo scritto a caldo, non appena iniziata la serie di incidenti nella centrale di Fukushima a seguito del maremoto dell’11 marzo. Quel titolo voleva indicare la drammaticità della situazione, con il peggiore degli scenari che si faceva, ora dopo ora, realtà. L’«impossibile» degli stregoni dell’atomo entrava nella vita quotidiana di milioni di giapponesi, come se il destino avesse voluto una replica di Hiroshima e Nagasaki.

Sono passati 25 giorni, un niente per i tempi di decadimento della radioattività dispersa nell’ambiente, un’enormità se pensiamo al caos che ancora permane a Fukushima. Tre sono gli aspetti che dovrebbero far riflettere anche il più incallito nuclearista: l’incapacità della tecnologia umana di riprendere minimamente in mano la situazione nella centrale; l’assenza di previsioni davvero attendibili sugli sviluppi della crisi; il mix di confusione e disinformazione sull’entità della contaminazione e sui rischi futuri. Enormità che tre settimane fa sarebbero sembrate inammissibili, e che oggi sembrano far parte di una «normalità» pazzesca, oltre che imprevista da orde di tecnici e scienziati abituati a pensare che la tecnica sia capace di dominare ogni problema che gli si pari davanti.

Si ammettono valori enormi di radioattività nell’aria e soprattutto in mare, ma non si sa dire quando le emissioni cesseranno; si scopre (dopo oltre 20 giorni!) una falla che riversa grandi quantità di acqua contaminata in mare, ma non si riesce a ripararla; ed infine la ciliegina sulla torta dell’annuncio della Tepco, che dichiara di dover comunque scaricare nel Pacifico qualcosa come diecimila tonnellate di acqua radioattiva. Alla faccia dei nostrani imbonitori al soldo della lobby, che già la sera dell’11 marzo rassicuravano a tutto schermo su una situazione ormai sotto controllo!

Il sito di Repubblica propone uno schema interattivo della situazione nella centrale di Fukushima, che così sintetizza la situazione:
Reattore 1: 70% del nocciolo danneggiato. Circa il 50% del combustibile è scoperto. La pressione è fluttuante, la temperatura rimane alta anche se stabile.
Reattore 2: nocciolo gravemente danneggiato e si teme la sua parziale fusione. Circa il 50% del combustibile è scoperto. Pressione e temperatura stabili. Parziali danni all’edificio.
Reattore 3: nocciolo danneggiato. Pressione e temperatura stabili. Si sospettano danni al contenitore. Gravi danni all’edificio. Circa il 50% del combustibile è scoperto. Altamente nocivo perché contiene combustibile mox (uranio e plutonio).
Reattore 4: spento dal 30 novembre, ma il combustibile esaurito rimane all’interno dell’edificio e si sta iniettando acqua di mare per raffreddarlo. L’edificio è gravemente danneggiato.
Reattori 5 e 6: in manutenzione al momento del sisma, ma ancora contengono barre irradiate. La temperatura è sotto controllo e non destano preoccupazioni.

Queste informazioni, per quanto approssimative, per quanto ormai relegate nelle pagine interne dei quotidiani, danno l’idea della portata della catastrofe. Il silenzio che il governo giapponese tenta di imporre di sicuro non è rassicurante. I giapponesi sono forse rassegnati, non certo tranquillizzati. In molti hanno capito quello che Katsunobu Sakurai, sindaco di Minami Soma, ha dichiarato al Manifesto: «Il nostro tsunami si chiama nucleare».

E’ proprio così. Il maremoto è stato forte, ma solo negli ultimi sessant’anni vi sono stati sul pianeta 4 terremoti con una magnitudo superiore. Le vittime sono state molte, ma le 27mila che vengono oggi stimate sono circa un quinto di quelle provocate dal terremoto di Tokio del 1923, circa un ottavo di quelle causate dallo tsunami nell’Oceano Indiano del 26 dicembre 2004, meno di un decimo di quelle stimate ad Haiti nel gennaio 2010. Se non vi fossero state centrali nucleari, il sisma dell’11 marzo, pur terribile, non sarebbe apparso come una catastrofe senza precedenti.

Ma le centrali nucleari c’erano e la ferita atomica inferta al Giappone è ben più grave, profonda e duratura di quella geologica. Il fatto che a 25 giorni dal maremoto la tecnica brancoli ancora nel buio, conferma quel che abbiamo sempre saputo sul nucleare e sulla sua intrinseca ed ineliminabile insicurezza. Non sappiamo se questa consapevolezza si farà finalmente strada. Di certo il nucleare ha perso la partita decisiva, non fosse altro per la sua crescente insostenibilità economica. Ne sa qualcosa la Tepco…

Ma l’insegnamento che viene dal Giappone è di più ampia portata. Il capitalismo si è dimostrato un sistema pressoché insuperabile in quanto a capacità di accrescimento delle forze produttive, ma il suo «sviluppo» è incompatibile con le condizioni che garantiscono l’esistenza e la riproduzione della vita sul pianeta. Di questa incompatibilità il nucleare è il simbolo più evidente, non certo l’unico. Effetto serra, mutazioni climatiche, saccheggio delle risorse: tutte questioni che ci parlano dello stesso problema, quello del dominio del profitto sull’ambiente e sulla natura.

E’ tempo che questi temi vengano ripresi con la dovuta forza. E’ tempo che vengano fatti propri da tutti coloro che intendono battersi per la fuoriuscita dal capitalismo. Un sistema in crisi per le sue dinamiche intrinseche, ma anche per la sua natura distruttiva. Una natura che in Giappone, in un impianto di proprietà di una delle più grandi aziende elettriche del mondo, ha preso la forma del disastro atomico. Ecco perché vogliono il silenzio, a Fukushima e non solo, ecco perché non bisogna in alcun modo accettarlo.