Risoluzione adottata dall’XI Assemblea nazionale del Campo Antimperialista (9-10 aprile 2011)

Avevamo previsto e sperato che il sopraggiungere, nel settembre del 2008, della grande crisi dell’economia mondiale, avrebbe causato una forte accelerazione della crisi sociale e politica, e di conseguenza riacceso la conflittualità sociale. Ci confortava, in questa convinzione, la fiammata dello scontro sociale in Grecia, il quale sembrava annunciare un nuovo ciclo di lotte operaie, giovanili e popolari nel continente, a partire dall’Italia.  Affermavamo che questa crisi, non solo avrebbe fatto traballare l’Unione europea, ma avrebbe portato al suo collasso.

Dopo il collasso della Grecia sono giunti quelli dell’Islanda e poi dell’Irlanda. Il Portogallo è sull’orlo del baratro, a ruota potrebbe seguire la Spagna. L’Italia, checché se ne dica, può essere trascinata nel vortice prima di quanto si pensi, a causa del combinato disposto della costante crescita del debito pubblico e della stagnazione del ciclo economico. Date le piccole dimensioni dei paesi sin qui travolti dalla crisi finanziaria e ora preda di pesanti recessioni, l’Unione europea non è stata scossa alle sue fondamenta. Non sarà così se dovesse implodere il sistema bancario spagnolo o se i grandi predoni della finanza speculativa decidessero di colpire il debito pubbblico italiano, innescando un meccanismo a catena di fuga dai titoli italiani. In questo caso Francoforte e Bruxelles non avrebbero risorse sufficienti per “salvare” due colossi come Spagna e Italia, che vedrebbero messa in forse la loro adesione alla moneta unica europea.

Avevamo centrato la tendenza generale, il cambio di fase, e nell’affermare che le misure colossali di salvataggio non avrebbero evitato il contagio e altri tracolli, tuttavia queste misure sono riuscite, almeno per ora a contenere devastanti crisi sociali.

Lo si è visto con le grandi difficoltà incontrate dai movimenti sociali in Italia, Regno Unito, Francia, Spagna e Portogallo. In questi paesi la recessione ha colpito durissimo, ma non abbiamo assistito ad un generale contrattacco anticapitalistico. Non ce lo aspettavamo nella forma di una crescita del movimento di scioperi (visto che è fisiologico che essi declinino nelle fasi recessive), quanto in quella di un risveglio robusto del movimenti antagonistici, nella forma di una rinascita del protagonismo politico. Questo risveglio, questa ripresa, sono avvenuti, ma sono stati poco consistenti, deboli, spesso effimeri. Nella stessa Grecia, dopo una grande fiammata, il regime è riuscito a tenere botta, e il movimento ha subito un profondo riflusso. Nei paesi come la Germania, dove la recessione è stata più breve e il ciclo economico ha potuto riprendere fiato, non abbiamo avuto alcuna fatturazione sociale e il sistema ha tenuto le sue posizioni.

Venendo al nostro paese. La crisi economica pur non avendo cambiato qualitativamente il panorama sociale, ha iniziato a scavare plurime fratturazioni sociali. Esse non si manifestano tutte con la stessa forza, i molti rivoli della protesta sono ancora tali, non sono confluiti nel medesimo fiume. Ciò non è dipeso soltanto dalla totale assenza di un forte soggetto politico dirigente e unificante, ma da potenti cause oggettive. Resta che sulla scala di grandezza dei diversi fattori di crisi, sono proprio le fratturazioni sociali causate dal collasso economico, quelli determinanti. Il rango dei fattori non significa tuttavia che i più importanti siano destinati a produrre i primi frutti, né che essi occupino la ribalta.

E’ certo che una catastrofe del sistema finanziario e bancario, contrariamente a quanto accaduto in Irlanda, causerebbe un’esplosione generale della conflittualità sociale. Nell’eventualità che questo non accada, che le misure di tamponamento continuino a sortire il loro effetto, essa è destinata a restare latente, e i tanti rivoli a procedere separatamente, in maniera carsica.

Una simile esplosione dei conflitti cambierebbe lo scenario sociale da cima a fondo. Non c’è da farsi alcuna illusione sul fatto che essa lo cambierebbe, intendiamo dal punto di vista di una prospettiva anticapitalistica, in meglio. Da decenni, per quanto con modalità contraddittorie e informi, è andato prendendo consistenza un flusso reazionario di massa che una catastrofe potrebbe portare a condensazione nella forma di un vero e proprio movimento politico. Questo flusso viene da molto lontano, è sorto sulla spinta della storica sconfitta del movimento rivoluzionario dei settanta, che ha anticipato il crollo del movimento comunista e dell’URSS che disgraziatamente ne rappresentava la potenza simbolica. Esso si è andato rafforzando nell’ultimo ventennio per la concomitanza di due fattori apparentemente contraddittori: la fine del lungo ciclo espansivo con il lento ma inesorabile peggioramento delle condizioni concrete di vita di larghe masse popolari (derivato dall’avvento del neoliberismo e dal drastico ridimensionamento delle politiche di welfare), dall’altro per la potente offensiva ideologica reazionaria, che alla fine è penetrata in ogni poro sociale.

La visione liberista del mondo, in un paese in cui non lo era mai stata, è diventata dominante.  Un mutamento di paradigma, culturale e ideologico, di portata storica. E’ stata conculcata l’idea stessa della priorità del “bene comune”, del senso di appartenenza ad una comunità solidale quale che sia, da quella di classe a quella nazionale, a favore del sopravvento dell’individualismo più bieco e sfrontato. Vincoli territoriali e corporativi hanno preso il posto di quelli preesistenti. Gli stessi partiti, in quanto organizzatori di interessi collettivi fondamentali, sono stati spazzati via. La prima vittima di questa vera e propria controrivoluzione ideologica è stata proprio la sinistra, in ogni sua articolazione, sociale e politica.

La cosiddetta “società civile”, è stata in larga parte colonizzata, infettata dal virus del liberismo ideologico, egemonia che si riverbera anche nei movimenti antagonistici, nella forma di un anarco-individualismo ribellistico, refrattario e ostile ad ogni forma di normazione collettiva. In genere, addirittura, alla politica. Ciò che rimane dell’eredità solidaristica e collettivistica si manifesta nella resistenza alla privatizzazione degli ultimi residuali spazi pubblici, facciamo riferimento alla difesa dell’acqua come bene non mercantile, ai movimenti ambientali e antinuclearisti. Ma da questi non sembra sorgere alcuno slancio programmaticamente anticapitalistico, tantomeno rivoluzionario. Essi non riescono a spezzare il cordone che li lega alla sinistra del capitale, un cordone rappresentato dall’ossessione di un antiberlusconismo tanto intransigente quanto succube di una concezione del mondo liberale, di qui il feticismo della Costituzione, il legalismo che si spinge fino alla difesa, non solo della democrazia che fù, ma dello stesso Stato e dei suoi apparati, alcuni dei quali, infatti, nella guerra per bande che li dilania, non esitano ad offrire la loro solidarietà a questi medesimi movimenti.

Il grosso della sinistra, organizzazioni sindacali comprese, non ha avuto meno responsabilità delle destre vecchie e nuove nel rendere possibile questo mutamento di paradigma ideologico. Ha cavalcato, in nome della “modernizzazione”, della campagna per fare dell’Italia un “paese normale”, la spinta reazionaria generale, contribuendo in maniera decisiva a rendere pervasivo un doppio inganno: che il capitalismo era la sola e irreversibile forma di progresso, che la causa delle nuove sofferenze e delle pene fosse eredità del vecchio passato e non invece del neo-liberismo. Un simile inganno non poteva durare a lungo. Ora che la crisi generale crea miseria diffusa e che implode la promessa del benessere ininterrotto e del Bengodi capitalistico; ora che si fa strada la percezione di un mutamento epocale in senso contrario, è proprio la sinistra del capitale a pagarne le conseguenze maggiori. Ne è da sottovalutare l’enorme responsabilità della sinistra del capitale nell’avere avuto un ruolo primario nel seppellire la Prima repubblica e con essa il regime democratico-parlamentare, sostituito con quello oligarchico bipolare. Questa sinistra si è scavata la fossa e non potrà risorgere, trascinando nel baratro i suoi reggicoda della “sinistra radicale”.

La decomposizione della sinistra sistemica non ha aiutato la sinistra rivoluzionaria a guadagnare consenso e posizioni. Sarebbe facile affermare che ciò è stato determinato dai suoi evidenti limiti intrinseci. In realtà è appunto dipeso dal fatto che il flusso reazionario è stato il fattore dominante, che esso ha dilagato anche nel mondo del lavoro salariato, comprese le sue roccaforti. Nemmeno i chiari segnali di resistenza proletaria, come manifestatisi a Pomigliano e a Mirafiori, hanno invertito la crisi della sinistra rivoluzionaria, incapace, questo va sottolineato, di andare oltre ad uno stantio e inadeguato sindacalismo radicale e/o al propagandismo generico e dogmatico.

La difficoltà che trovano i momenti di resistenza operaia a generalizzarsi si spiegano prima di tutto a causa della profonda frantumazione sociale del proletariato. La estrema precarizzazione del lavoro, la sua natura “coriandolare”, la deregolazione e la mobilità in entrata e in uscita, rendono difficilissima la centralizzazione delle battaglie, l’unificazione in un unico fronte. Il capitale è invece sostanzialmente unito, protetto dal sistema politico e istituzionale (di cui i sindacati sono parte integrante), ha quindi facile gioco a vincere i momenti di resistenza isolati. A complicare ulteriormente le cose c’è di mezzo un’altra decisiva fratturazione sociale, quella anagrafica: ogni strutturale legame tra la vecchia generazione operaia e quella giovanile precaria è stato rescisso, e non si vede come porre rimedio a questo serissimo fattore divisorio.

La crisi economica non ha fermato il generale e profondo flusso reazionario, esso è ciò che sorregge il blocco sociale politicamente imperniato nella alleanza tra Pdl e Lega nord. Questo flusso è anzi destinato a consolidarsi, e a manifestarsi tendenzialmente in forme ancor più virulente, attraversando e quindi scomponendo sia l’alleanza Pdl-Lega nord che entrambi. Non vanno confusi il blocco sociale reazionario di massa, ovvero l’amalgama di interessi che lo tiene assieme, con la sua attuale rappresentazione politica: lo sfaldamento di quest’ultima potrebbe trovare una nuova conformazione politica, più aggressiva della precedente.

Beninteso, lo sviluppo non solo non è mai unilineare, non è univoco. La spinta reazionaria, ove davvero prendesse forme più aggressive, produrrà una polarizzazione, una reazione opposta, le cui forme oggi non sono prevedibili. Lo sviluppo di movimenti reazionari, xenofobi e neonazionalistici in svariati paesi europei, dall’Ungheria alla Svezia, dall’Olanda alla Francia, fino agli USA col Tea Party, sta ad indicare quanto profondo e ampio sia il flusso reazionario. Se in Italia questo flusso non ha prodotto simili effetti è solo perché l’egemonia del berlusconismo e del leghismo li ha sin qui trattenuti nel suo seno.

Nell’eventualità dell’esplosione del bubbone del debito, le cose potrebbero cambiare, e nuovi populismi reazionari farsi strada. Non è detto che la polarizzazione avvenga su linee di classe, o si manifesti sulla scala destra-sinistra, in forme insomma tradizionali. Potrebbe invece diventare portante la latente fratturazione tra il nord e il resto del paese, innescando un processo di tipo belga, spingendo il Nord (che è la zona più ricca e industriosa d’Europa) a tentare di agganciarsi all’Euro forte determinando così una crisi fatale dell’Italia come stato-nazione. Uno scenario di questo tipo chiama in causa la tenuta dell’Unione europea, e potrà essere evitato solo se Francoforte e Bruxelles avranno la forza e le risorse per tenere unita tutta la baracca.

Anche se oggi improbabile, questo scenario, di cui comunque si discute nelle stanze dei bottoni europee, mostra quanto sia minaccioso lo sconquasso economico globale e porta alla luce l’ordine di grandezza delle sue possibili conseguenze. Anche ove l’ipotesi della spaccatura dell’Unione, tra i paesi “virtuosi” capeggiati dalla Germania e il resto (principalmente i paesi mediterranei) sia ritenuta improbabile, resta che questi ultimi, tra cui il nostro, per restare agganciati alla Germania, dovranno applicare per un lungo periodo severissime politiche di austerità che non solo pregiudicheranno la cosiddetta “crescita”, ma getteranno al di sotto della soglia convenzionale di povertà milioni di persone.

Una forza politica che non indichi un’alternativa di sistema non potrà giocare alcun ruolo domani. Non parliamo di astratte declamazioni socialiste, ma di soluzioni radicali a problemi non solo radicali, ai concreti ed effetti problemi in ballo. Proposte non solo per tamponare la crisi, ma per vincerla in una prospettiva di fuoriuscita dal capitalismo, una fuoriuscita che la catastrofe che si avvicina porrà all’ordine del giorno, a meno che non si voglia sprofondare nell’abisso.

I temi fondamentali sono quelli dell’uscita dall’Europa e dall’euro, della riconquista della sovranità nazionale, dell’azzeramento del debito pubblico come premessa necessaria per la riconquista dei diritti sociali fondamentali, delle nazionalizzazioni indispensabili a mettere l’economia sotto il comando della politica. Temi decisivi e imprescindibili, sui quali scontiamo tuttavia l’arretratezza del movimento e di quelle che dovrebbero essere le sue avanguardie, ancora troppo impregnate da una concezione meramente sindacalistica del conflitto di classe.

Occorre dunque un lavoro paziente, sia per sviluppare un’elaborazione all’altezza della situazione, sia per iniziare ad affermare nel concreto le idee-forza sulle quali potrà imperniarsi un effettivo movimento anticapitalista. Il perseguimento di questo obiettivo presuppone la massima attenzione ed apertura verso tutti i tentativi che dovessero muoversi in questa direzione. L’assemblea nazionale del Campo Antimperialista impegna quindi il direttivo ad intraprendere tutte le iniziative utili a dare concretezza a questa prospettiva.