I diritti democratici rafforzeranno la rivoluzione araba

La Siria resta il solo regime arabo che conserva alcuni tratti antimperialisti: due casi emblematici sono il suo sostegno ad Hezbollah e lo spazio politico che offre al movimento di resistenza palestinese. Tuttavia, irrigidendo i suoi poteri assoluti e dinastici, Bashar al-Assad non aiuta la causa antimperialista. Al contrario, il popolo ha bisogno di aria fresca da respirare, per mobilitarsi, per continuare la lotta di liberazione araba contro il neocolonialismo occidentale imperante.

Come rivoluzionari noi dobbiamo pensare globalmente. Se invece ci rifiutassimo di scommettere politicamente, se cercassimo di evitare ogni rischio, saremmo destinati a perdere. Proprio adesso siamo testimoni della caduta dell’architettura imperialista del mondo arabo, uno dei punti nevralgici dell’ordine globale. In generale e specialmente adesso dobbiamo essere decisamente più audaci delle elites imperialiste, evitando di  aggrapparci agli effimeri successi del passato. In questo contesto non possiamo legare il destino delle lotte rivoluzionarie antimperialiste a figure come Assad, per non parlare di Gheddafi, che difende solo i suoi interessi.

Il popolo egiziano ha fatto cadere il più importante dittatore fantoccio occidentale della regione. Certo, il suo regime resta in sella, ma esso è perlomeno scosso e sicuramente non può andare avanti come se nulla fosse successo. Le masse popolari hanno appena iniziato a muoversi. Così il prossimo periodo sarà caratterizzato da aspre lotte, comprese quelle con un carattere di classe.

In Libia assistiamo ad una battuta di arresto del movimento popolare democratico arabo, ciò a causa del fatto che la dirigenza della rivolta, invitando l’imperialismo a compiere un altro dei suoi famigerati interventi militari “umanitari”, ha permesso a quest’ultimo un vero e proprio sequestro.

Attraverso le sue operazioni in Libia, l’Occidente sta tentando di rovesciare il pluridecennale paradigma sul quale ha imperniato la sua politica regionale, ovvero il sostegno ai tiranni. Vuole essere visto come paladino della democrazia. Tuttavia, esso sembra capire che non deve tirare troppo la corda come ha fatto in Iraq, dove la sua “esportazione della democrazia” gli si è ritorta contro. Per di più, almeno per il momento,  l’imperialismo non ha in vista chissà quale raccolto: in Libia non ci sono risultati in vista per l’imperialismo, il paese è solo un piccolo particolare nel generale contesto arabo, dove in ballo c’è la sua intera architettura.

E’ sufficiente dare uno sguardo al fermento popolare nel Golfo, dove la rivolta in Bahrain è solo la punta dell’iceberg. Ci sono inoltre proteste massicce in Oman, in Yemen e nella testa del serpente, il regno Saudita. Tutti questi regimi sono fortemente protetti dai loro creatori e padroni imperialisti, di qui la connivenza con la sanguinosa repressione, come si è visto nel Bahrain, che è il paese ove risiede la base della Marina degli Stati Uniti, come quello dove esiste il più articolato movimento di sinistra nel Golfo.

In questo più ampio contesto di sollevazione popolare contro l’assetto imperialista della regione non dobbiamo temere una mobilitazione popolare in Siria. Per dirla chiaramente: solo la libertà democratica e la mobilitazione popolare saranno in grado, nel lungo periodo, di sconfiggere l’imperialismo, e non un burocratico, ossificato e autocratico antimperialismo, che troppo spesso svende le conquiste più velocemente di quanto si possa immaginare. Il popolo arabo sarà costretto a condurre una sollevazione popolare prolungata combinata con la guerra di resistenza, per la quale nessuna delle passate direzioni politiche sembra essera idonea. Possiamo metterla così: il futuro è Hezbollah, non Assad.

E’ ovvio che tale polarizzazione non si manifesta in modo così netto. E’ Assad che sostiene Hezbollah, che incarna alcuni slanci antimperialisti del passato. Di sicuro questo elemento va difeso. Ma non dobbiamo chiudere i nostri occhi davanti al fatto che il suo regime è divenuto cupo e privo di sostegno popolare. Assad ha realizzato tutta una serie di riforme economiche liberiste, comprese privatizzazioni e tagli allo stato sociale, che hanno aumentato il divario sociale tra ricchi e poveri.

Disoccupazione e povertà sono molto diffuse in Siria. Il popolo ha bisogno di diritti democratici e giustizia sociale, proprio per proseguire sulla via antimperialista. Esso ha ragione a scendere in piazza per queste richieste e anche ad usare mezzi di protesta violenti. Assad sbaglia nel suo gioco di  promettere la fine dello stato di emergenza senza tuttavia impegnarsi nello stabilire una data. Si risolverà a fare alcune concessioni quando le masse avranno smobilitato? Questo è proprio ciò che vuole Assad. Per la elite baathista le masse popolari sono un pericolo, e un pericolo anche più grande dell’imperialismo.

Gettiamo un breve sguardo alla storia. Non c’è solo il paradigmatico tradimento del panarabismo da parte di Anwar Sadat dopo la morte di Gamal Abd Nasser, basato sulla sconfitta inflitta da Israele a Nasser nel 1967. Quello che fu sconfitto era un vuoto e retorico antimperialismo di una elite che era riluttante ed incapace a mobilitare le masse popolari e a basarsi su di loro. La dinastia di Assad ha giocato virtuosamente questa partita da allora, dato che le alture del Golan non sono state restituite. Esibisce la sua fermezza contro Israele come sua credenziale nei confronti del popolo arabo.

Ma non dobbiamo dimenticare l’intervento militare siriano nella guerra civile libanese negli anni ’70, contro la sinistra e contro i palestinesi, dato che il regime siriano temeva anzitutto una loro  vittoria. E non possiamo perdonare il suo sostegno all’aggressione occidentale all’Iraq nel 1991, che gli valse il tacito consenso degli Stati Uniti per mantenere la presenza in Libano.

Non è un caso che di fronte alla prima esplosione di proteste pubbliche, cui ha risposto con una repressione feroce, Assad si è assicurato il tacito sostegno della gerarchia imperialista. Mentre i neocon legati ad Israele stavano rinnovando i loro appelli per un cambio di regime, il segretario per gli affari esteri Hillary Clinton ha definito Assad un “riformatore”. Anche re Abdallah dell’Arabia Saudita gli ha dato il proprio appoggio, a dispetto del fatto che Assad è alleato con il suo acerrimo nemico, l’Iran! La ragione è semplice: essi temono, ben più di Assad, una sollevazione popolare in Siria, poiché essa sarebbe come benzina sul fuoco di una rivoluzione araba che i regimi non riuscirebbero a contenere.

Come in Egitto, si può ritenere che la principale forza di opposizione in Siria è la Fratellanza Musulmana. Essa ha ancora un conto in sospeso per il massacro di Hama nel 1982, quando decine di migliaia di civili furono massacrati da Assad senior. Oltre al fatto che è pienamente legittimo ritenere Assad responsabile del massacro, cosa c’è da aspettarsi dalla Fratellanza Musulmana?

Si può vedere il ruolo opportunistico che essa ha giocato in Egitto. E’ salita sul carro del movimento contro Mubarak solo dopo che esso è apparso inarrestabile. Essa desidera un compromesso con il regime militare per vedersi riconosciuto un ruolo nella gestione politica del sistema precedente. In tal senso essa ha sostenuto il referendum costituzionale che dovrebbe stabilizzare il regime militare in cambio di elezioni che la Fratellanza Musulmana potrebbe vincere. Un nuovo governo con il coinvolgimento della Fratellanza sarà necessario sia per tenere a distanza l’imperialismo che per rispettare le aspirazioni democratiche delle masse. Sotto ogni aspetto un tale assetto sarà sicuramente migliore di quello con Mubarak. La Fratellanza non può andare contro le masse. Al contrario, ci sarà e c’è già un massiccio contagio democratico. La grande maggioranza dei poveri e della classe media è sia democratica che islamica. Mentre una controrivoluzione in piena regola nelle attuali condizioni è improbabile, dato che l’Occidente politicamente non se la può permettere; le sue principali forze sono l’esercito e i resti del vecchio regime ad esso legato, e non la Fratellanza Musulmana che è strettamente legata al popolo.

La sinistra egiziana e il movimento globale antimperialista debbono spingerla su questa strada e debbono contrastare gli elementi conservatori che erano egemoni nella Fratellanza. Un approccio laicista e secolarista di tipo occidentale significherebbe da un lato la morte della debole sinistra, e dall’altro il rafforzamento della presa conservatrice e reazionaria sulle masse popolari. La sinistra, comunque, può essere una spina nel fianco, dentro il movimento, spingendo in avanti il movimento e anche rafforzando la lotta di classe, che la Fratellanza vuole evitare. Qui la sinistra ha la possibilità di giocarsi una partita che la dirigenza della Fratellanza non può facilmente silenziare o controllare.

Torniamo alla Siria: ci sono condizioni diverse, nel senso che il regime di Assad sembra continuare ad usufruire del sostegno di parti significative delle sette alawite e cristiane. Esso ha mobilitato centinaia di migliaia di persone, che Mubarak e Ben Ali non potevano neppure sognare (Mubarak aveva largamente perso il sostegno dei Copti che un tempo aveva padroneggiato). Dall’altro lato, la Fratellanza Musulmana siriana è fortemente settaria. Così in Siria c’è davvero il pericolo di un conflitto settario, che deve essere evitato dalla forze antimperialiste ad ogni costo.

Nonostante il passato della Fratellanza siriana, sia stato caratterizzato da una stretta cooperazione con il blocco politico saudita del confessionalismo sunnita, la Fratellanza non può andare frontalmente contro le aspirazioni popolari che saranno molto in linea con il globale flusso arabo.

Alla luce di queste specificità e nella diversità degli stati della regione sorvegliata da regimi fantoccio occidentali, la domanda immediata in questo momento non dovrebbe essere il completo rovesciamento del regime baathista. Il centro di gravità deve essere che i pieni diritti democratici siano garantiti e la giustizia sociale sia realizzata. Assad non può restare sordo se vuole sopravvivere.

Campo Antimperialista – Comitato esecutivo internazionale