La decrescita e il socialismo
Critica dello scritto di Domenico Moro contro i teorici della decrescita
Nel titolo di questo lungo articolo di Domenico Moro (La decrescita non è la soluzione), che si ispira con tutta evidenza a quello di uno dei primi scritti di Lenin rivolto contro i populisti russi, si compendia il nocciolo delle sue critiche ai teorici della decrescita, considerati, per l’appunto al pari degli Amici del Popolo, degli ingenui idealisti fautori del ritorno a un passato che alla luce della scienza marxista si dimostra non potere oggettivamente avverarsi (oltre ad essere comunque in realtà molto peggiore dello stato di cose presenti che invano pretenderebbe di superare, ben diversamente da quanto vagheggiato dalle idilliache fantasticherie dei suoi propugnatori), e dunque considerati di fatto degli utili idioti al servizio della conservazione sociale e della reazione.
Non credo si possa negare che c’é del vero in queste sue critiche, ma ritengo che in gran parte ciò dipenda dal fatto che esse prendono in considerazione principalmente i “punti deboli” di quello che è un grande e variegato movimento culturale in fase di sviluppo e di definizione, che a mio parere nasce dalla considerazione di fatti e problemi del tutto reali e assai gravi che ai tempi dei classici del materialismo storico non erano di fatto all’ ordine del giorno, e probabilmente nemmeno ragionevolmente prevedibili (se non in termini di vaghi accenni fugaci che pure nei classici stessi non mancano, come rileva anche Moro). Un movimento ideale e politico che proprio per questo suo essere in fieri in conseguenza di fatti reali estremamente corposi e drammatici non può essere da subito o “preventivamente” esente da contraddizioni, implicando sia potenziali sviluppi verso prospettive più o meno conseguentemente progressiste o anche rivoluzionarie, sia tendenze più o meno conseguentemente conservatrici o anche reazionarie (alquanto analogamente al movimento anticapitalista della prima metà del XIX° secolo, come è chiaramente spiegato nella terza parte del Manifesto di Marx ed Engels, cui si accenna anche nello scritto in questione).
Così Domenico Moro ha buon gioco nello stigmatizzare elementi di confusione, banalità e contraddizioni in Serge Latouche; per esempio gli eccessi del suo “localismo” che effettivamente ricordano molto il proudhonismo, invero anche estremizzandoli alquanto caricaturalmente, ma ignorandone completamente l’importante nucleo di verità che comunque contengono; e cioè il fatto che i trasporti delle merci richiedono consumi di energia non più a lungo sostenibili date le riserve di fatto disponibili in natura (e non affatto “magicamente moltiplicabili” dalla scienza e dalla tecnica, come pretenderebbe l’ideologia dominante dello sviluppismo); e dunque devono effettivamente essere quanto più possibile limitati, ovviamente cum granu salis e senza alcuna fondamentalistica frenesia: devono comunque essere evitati in tutti i casi nei quali possono essere adeguatamente sostituiti da produzioni locali che non richiedano ingiustificati sprechi di energia per i trasporti.
Lo stesso dicasi per quanto riguarda più in generale la necessità di superare il consumismo illimitato ed acritico che è tipico del (e indissolubile dal) capitalismo, sul quale Domenico Moro fa dell’ ironia decisamente fuori luogo: “Pensiamo a un’assemblea che – omissis – decida non solo quante scarpe ma quanto di tutte le migliaia di prodotti di cui oggi disponiamo siano il giusto per ogni singolo e che soprattutto decida quali bisogni siano giusti e quali no. Esilarante!”. Forse gli sfugge un piccolo particolare del mondo attuale, e cioè che il consumo sfrenato di materie prime e di fonti energetiche in corso, con la connessa, in larga misura inevitabile diffusione di sostanze ed effetti nocivi, sta gravemente deteriorando l’ambiente naturale (surriscaldamento della terra ed alterazione dei climi, riduzione dell’ozono troposferico, collasso della biodiversità, avvelenamento delle falde acquifere, per accennare solo ad alcuni dei guasti più catastrofici in corso); e che lo sta facendo in maniera tale da mettere seriamente a repentaglio la stessa sopravvivenza umana; e che produce continuamente ingravescenti sciagure di proporzioni di già “bibliche”, oltre ad impoverire irreversibilmente le generazioni future (se ve ne saranno ancora!) di utilissime risorse non rinnovabili e difficilmente sostituibili. Dunque, è meglio avere diciassette paia di scarpe a testa (o il SUV, o andare in montagna a sciare tutti i fine settimana da Novembre a Marzo, ecc. ecc.) e non avere discendenti che portino avanti la civiltà umana o avere due paia di scarpe, magari più durature, spostarsi in treno e solo per motivi utili o giustificatamente dilettevoli e consentire all’umanità di sopravvivere e alla sua civiltà di continuare a progredire?
Non mi stupirei se Domenico Moro fosse fra i tanti che di fronte al disastro di Fukushima del 2011 si limitano a dedurne che bisogna bandire l’energia nucleare (ma dato il suo baldanzoso sviluppismo e scientismo non mi stupirei nemmeno se facesse parte dei pochi e malconci nuclearisti imperterriti), dimenticando già a nemmeno un anno di distanza l’altro comunque gravissimo disastro del Golfo del Messico del 2010; non credo faccia parte dei pochissimi che giungono conseguentemente a comprendere che questo non basta, ma che bisogna innanzitutto ridurre drasticamente i consumi energetici tutti, complessivamente (in diversa misura a seconda dei diversi casi, ovviamente; anche incrementando in qualche misura quelli da fonti limitatamente rinnovabili; e ovviamente non senza migliorare per quanto possibile l’efficienza dei processi tecnologici): disastri come quello del Golfo del Messico sono destinati a ripetersi, e anche in forme tendenzialmente più gravi se, rinunciando al nucleare, continueranno o peggio si accresceranno gli attuali sfrenati consumi energetici dal momento che, essendo le altre fonti più o meno relativamente pulite decisamente limitate e l’entità dei giacimenti petroliferi più facilmente accessibili finita, ciò imporrà trivellazioni sempre più difficili e rischiose, del tipo appunto di quella sciagurata della Deepwarer Horizon o peggio.
Ma a mio parere Domenico Moro cade anche lui in ingenuità non meno gravi di quelle di Latouche, per esempio allorché sostiene che la decrescita sarebbe del tutto compatibile con il capitalismo. In realtà il capitalismo, al fine che gli è connaturato e ineludibile della ricerca del massimo profitto possibile a breve termine e a qualunque costo da parte di imprese private reciprocamente in concorrenza fra loro, impone o comunque tende inevitabilmente ad imporre (esistendo certo anche limitate controtendenze) una crescita continua ed illimitata di consumi e produzioni, la quale non potrà comunque proseguire indefinitamente nel tempo stante la limitatezza delle risorse naturali effettivamente disponibili; e dunque è destinato comunque a scomparire con la fine prima o poi inevitabile della crescita stessa, conseguente (deprecabilmente) all’esaurimento delle risorse naturali e all’estinzione “prematura e di sua propria mano” dell’umanità, se non (auspicabilmente) alla rivoluzionaria realizzazione di superiori rapporti di produzione comunistici.
Alquanto penosa (o forse maliziosamente pretestuosa) mi sembra la confusione fra la decrescita come libera scelta dell’umanità emancipata dal capitalismo (che significherebbe, se realizzata, minor produzione-consumo quantitativo di beni materiali ma non certo minore sviluppo culturale e civile qualitativo, non certo minor benessere reale diffuso, anzi!) e la “decrescita forzosa dei consumi” (ma non dei bisogni, sia più o meno fittizi e artificiosi -classico esempio: il fumo – sia reali e vitali) degli sfruttati in conseguenza della riduzione, in corso da decenni, dei salari reali.
Anche verso gli altri due teorici della decrescita esplicitamente attaccati, Bontempelli e Badiale, trovo condivisibili alcune tesi di Moro ma del tutto mancato il bersaglio principale che si propone di colpire.
Concordo sul fatto che questi due autori indulgano in qualche misura verso una sorta di “utopismo da anime belle”, sottovalutando decisamente in generale la corposa e decisiva realtà della lotta di classe, e in particolare della violenza che in qualche misura inevitabilmente la caratterizza. Mi sembra infatti vero, per quel poco che li conosco, che Bontempelli e Badiale tendano a trascurare o a considerare scarsamente rilevante il problema spinosissimo e decisivo della necessaria conquista del potere da parte di un adeguato blocco sociale antagonistico a quello attualmente dominante e di uno schieramento politico radicalmente alternativo a quelli che attualmente si alternano in una sostanziale continuità di esercizio e di tutela degli interessi delle attuali ristrettissime classi dominanti (problema che comunque non può certo semplicisticamente essere risolto riproponendo pedissequamente ed acriticamente esperienze e teorizzazioni del passato, le quali fra l’altro, poste di fronte al vaglio dell’esperienza storica effettiva, hanno dimostrato per lo meno notevoli limiti ed elementi di inadeguatezza).
Probabilmente valide sono anche le sue rigorose puntualizzazioni sulla natura e la dinamica delle crisi economiche capitalistiche (questione sulla quale confesso la mia totale inadeguatezza).
Del tutto infondata mi sembra tuttavia la sua pretesa che Marx avesse già sostanzialmente trovato una soluzione definitiva delle odierne questioni ambientali, pretesa sostenuta mediante la citazione dal Capitale di quelli che mi sembrano solo limitati accenni di riflessione critica, per quanto audaci e lungimiranti; e trascurando invece per esempio la concezione del comunismo pienamente realizzato come società dell’abbondanza illimitata, in cui si realizzerebbe il principio “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondi i suoi bisogni” e verrebbe meno la stessa divisione tecnica del lavoro e qualsiasi specializzazione e differenziazione professionale, quale è esposta nella Critica del programma di Gotha, e ribadita da Lenin in Stato e rivoluzione.
Mi sembra inoltre che, a dispetto delle argomentazioni teoriche di Moro, l’esperienza pratica confermi la tesi di Bontempelli e Badiale secondo cui (malgrado le crisi ricorrenti e in ultima istanza inevitabili) “il capitale non produce affatto la stagnazione delle forze produttive ma produce al contrario il loro sviluppo” (per lo meno tendenzialmente; e quantitativamente; e in tempi sufficientemente lunghi, n. d. r.); nonché quella circa la necessità di “effettuare una sintesi fra Marx e la decrescita” (ovviamente intesa in maniera razionale e scientificamente fondata, e non certo nelle sue tendenze e varianti irrazionalistiche e fantasiosamente arcadiche).
Marx non era né mai ha preteso di essere un profeta infallibile e di poter risolvere anticipatamente problemi che sarebbero stati evidenti di fronte all’umanità parecchi decenni dopo la sua morte, come sembrerebbe quasi ritenere Moro.
E credo che affrontare nello spirito allo stesso tempo ed indissolubilmente militante e scientifico che fu di Marx e di Engels i gravissimi problemi ambientali oggi drammaticamente incombenti comporti anche qualche correzione delle loro teorie, il superamento di alcuni limiti ed elementi di inadeguatezza e la correzione di alcune tesi rivelatesi errate di fronte all’esperienza reale dei fatti; il che è ovvio per qualsiasi teoria scientifica (e non desterebbe alcun imbarazzo o stupore, se di fatto il “marxismo reale” non fosse stato pesantemente inquinato da elementi di dogmatismo del tutto antiscientifici).
Per esempio il concetto di “sviluppo delle forze produttive”, fondamentale nel materialismo storico, meriterebbe probabilmente di essere ristudiato e inteso in un senso profondamente diverso da quello dei classici, in un’accezione decisamente meno quantitativa, dal momento che la realtà empirica dei fatti ha dimostrato: da una parte che il capitalismo non impedisce affatto un siffatto sviluppo quantitativo illimitato delle forze produttive (e forse lo favorisce anche più del socialismo, per lo meno di quello “reale”); e dall’altra che in un mondo quale quello realmente esistente, ineluttabilmente caratterizzato dalla limitatezza delle risorse naturali e della possibilità di metabolizzazione da parte dell’ambiente degli effetti nocivi delle produzioni e dei consumi umani, questo sviluppo illimitato non può che essere effimero (in tempi storici; addirittura quasi impercettibile in tempi geologici) e concludersi catastroficamente più o meno a breve termine con l’estinzione “prematura e di sua propria mano” dell’umanità. A meno che non venga tempestivamente superato da uno sviluppo di tipo radicalmente diverso, inteso sostanzialmente in senso qualitativo (innanzitutto come indefinita crescita e incremento delle conoscenze, della cultura, della salute, dell’etica, della convivialità, di un benessere in preponderante misura “immateriale” ma più autentico); un diverso sviluppo, ben più genuino e duraturo, che é possibile solo alla condizione della pianificazione generale delle attività produttive e dunque della proprietà sociale delle forze produttive (questa necessaria riconsiderazione del concetto di sviluppo delle forze produttive mi sembra del tutto analoga alla ridefinizione dei concetti newtoniani di spazio e di tempo nell’einsteiniano spazio-tempo, nonché di quello della gravitazione, nell’ambito della scienza fisica di inizio novecento).
In questa direzione credo che dovrebbe svilupparsi (fra l’altro) il marxismo odierno, purché autenticamente inteso e praticato in quanto scienza (per quanto “umana” e non certo “esatta”); mentre trascurare questa necessaria ricerca di sviluppi e adeguamenti e limitarsi ad attaccare gli elementi ed aspetti più irrazionalistici e antiscientifici del movimento culturale decrescista mi sembra che comporti il serio rischio di gettare il bambino con l’acqua sporca, lavorando davvero di fatto al servizio della conservazione e della reazione (nonché della fine dell’umanità).
da Sollevazione