Fukushima: come Chernobyl o peggio di Chernobyl?

Ci hanno impiegato un mese esatto per dire una verità chiara fin dall’inizio. Un mese nel quale non sono minimamente riusciti a venire a capo del problema. Una figuraccia per l’iper-tecnologico Giappone, ma soprattutto la smentita più plateale che ci si potesse attendere sulla presunta «sicurezza» delle centrali nucleari. L’incidente di Fukushima è ora classificato di «livello 7», come «catastrofico», con conseguenze estese se non addirittura globali. In realtà, una veloce lettura della scala INES non lasciava dubbi sulla classificazione corretta delle conseguenze delle emissioni radioattive in atto dall’11 marzo. Ma le reticenze, come le bugie, fanno parte da sempre della storia dell’energia atomica.

Nessuna sorpresa, dunque, tuttavia il fatto che si sia insistito a lungo a classificare il disastro come di livello 5 (incidente con possibili conseguenze all’esterno dell’impianto), oltre a rappresentare un insulto all’intelligenza di un qualsiasi osservatore, risultava particolarmente offensivo per la popolazione evacuata. 

Arrivati al livello 7, le autorità giapponesi (dal governo, all’agenzia atomica NISA) si sono subito preoccupate di rassicurare: la quantità di isotopi di iodio 131 emessi dalla centrale di Fukushima sarebbero attorno ai 600mila terabequerels, poco più di un decimo dei valori di Chernobyl (5,2 milioni di terabequerels). Da qui i titoli dei giornali sul fatto che, nonostante tutto, «Fukushima non è Chernobyl». Ora, a parte il fatto che questi dati si riferiscono alle sole emissioni nell’aria, mentre in questo caso gravissimo appare anche l’inquinamento marino, è realistico il relativo ottimismo che si vorrebbe trasmettere all’opinione pubblica mondiale?

Purtroppo no, perché l’incidente è tutt’altro che risolto, ed in nessuno dei 6 reattori della centrale la situazione è stabilizzata. Lo ha dovuto ammettere perfino la Tepco, il cui portavoce Matsumoto ha riconosciuto che alla fine le emissioni di Fukushima potrebbero superare quelle di Chernobyl. E del paragone con la catastrofe ucraina del 1986 (tra pochi giorni ricorrerà il venticinquennale) si è occupato il fisico Giorgio Ferrari sul Manifesto del 13 aprile. Queste le considerazione dell’esperto di combustibile nucleare:

«Mentre a Chernobyl, paradossalmente, dopo pochi giorni si è potuto intervenire – con costi umani elevatissimi – per “sommergere” le radiazioni gettando sabbia, piombo e cemento sul nocciolo scoperto, a Fukushima questo non è possibile. Quello che si può dire è che se dal punto di vista del danno biologico l’incidente di Fukushima è (per adesso) inferiore a Chernobyl, risulta molto più complicato e grave per ciò che riguarda la sua gestione/risoluzione che, non a caso, dopo trenta giorni appare ancora lontana».

Ferrari, dopo aver chiarito che se da un lato l’immissione dell’acqua nei noccioli dei reattori 1, 2 e 3 è necessaria per cercare di evitare l’esplosione per sovrapressione, evidenzia come d’altro canto, nelle attuali condizioni, questa stessa operazione «potrebbe risultare dannosa in quanto in alcune zone di quella massa informe che è diventato il nocciolo, l’effetto delle barre di controllo potrebbe essere nullo mentre l’effetto di moderazione dell’acqua potrebbe riavviare la reazione a catena con picchi di potenza localizzati che avrebbero l’effetto di aumentare temperatura e pressione all’interno del vessel fino a distruggerlo, come del resto avvenne a Chernobyl».

Il peggio deve ancora accadere? Non possiamo saperlo, ma chi lo sa davvero?
Illuminante la conclusione di Ferrari: «Il meno peggio che si può fare è gestire questa emergenza raffreddando i noccioli e contemporaneamente rilasciando radioattività in aria per diminuire la pressione dentro il contenitore primario nel quale hanno cominciato a pompare azoto per renderlo inerte e per espellere l’idrogeno che è esplosivo. Ma anche questa operazione ha il suo rovescio: il rilascio in atmosfera di altri contaminanti. Comunque la si voglia mettere è una gara a perdere».

Una «gara a perdere», ecco una precisa fotografia di dove ci ha portato la follia nucleare. Una follia talmente folle da non poter neppure calcolare almeno in maniera approssimativa i tempi di questa «gara». Eppure c’è ancora chi garantisce sulla bontà del nucleare futuro: dalla follia – perlomeno da questa – non si guarisce tanto facilmente. E si guarisce ancor meno quando in gioco ci sono gli interessi miliardari del partito atomico, come abbondantemente dimostrato dal caso giapponese.

Oggi, ad un quarto di secolo da Chernobyl, si calcola che quella catastrofe abbia causato la morte di circa 150mila persone. Tra venticinque anni avremo il bilancio di Fukushima. Intanto vaste aree dell’isola di Honshu risulteranno contaminate ed inabitabili, l’inquinamento marino avrà fatto il suo corso con gli inevitabili effetti sulla catena alimentare, mentre le emissioni nell’aria andranno a depositarsi su una superficie ben più grande di quella delle zone evacuate.

Impossibile quantificare i costi umani e ambientali di un simile disastro. E tutto questo – non dimentichiamolo mai – non per risolvere le esigenze energetiche della popolazione del pianeta, ma per fornire un misero 6% dei consumi globali di energia. Un niente che però rende molto alla lobby dell’atomo.

Tra i crimini del capitalismo c’è anche questo: l’arrogarsi il diritto di sconvolgere le stesse condizioni ambientali che permettono la vita e la sua riproduzione. Un diritto di vita e di morte che oggi non sembra scandalizzare quasi più nessuno, una mostruosità che è sotto i nostri occhi tutti i giorni, e non solo in Giappone.