L’ingloriosa fine del piano nucleare italiano in mezzo ai mille trucchetti di un governo alla disperazione
Probabilmente eviteranno il referendum, ma non la disfatta. La vittoria a tavolino dà meno soddisfazione di quella sul campo, ma in termini calcistici sempre di un 3 a zero si tratta. Da due anni il rilancio del nucleare era diventato una delle bandiere più importanti del governo; adesso questa bandiera è stata frettolosamente risposta nell’armadio, malamente nascosta nel dispositivo dell’emendamento al cosiddetto «decreto omnibus», con la cui approvazione si punta a far saltare il referendum del 12 giugno.
Nei trucchetti Berlusconi è imbattibile, ed anche questa volta si è dimostrato all’altezza. Alcuni vedono in questa abilità il segno di una forza che ancora permane, e che magari prepara il terreno ad un futuro ritorno al piano nucleare non appena si saranno calmate le acque del dopo-Fukushima. La natura e la metodologia del buffone di Arcore sembrerebbero dare ragione a questa ipotesi, ma personalmente non la penso così. Giusto mettere in guardia dalle trappole berlusconiane, ancora più giusto denunciare la sottrazione al giudizio popolare di un tema così importante. Ma la precipitosa fuga dal nucleare di Silvio il codardo, altro non è che il segno della sconfitta di un governo che ormai ha il solo obiettivo di sopravvivere alle proprie quotidiane miserie.
Intendiamoci, la marcia indietro di Palazzo Chigi ha una sua intelligenza tattica: evita la disfatta nelle urne referendarie, espone molto meno il governo nelle prossime elezioni amministrative, rende più difficile il raggiungimento del quorum nei referendum contro la privatizzazione dell’acqua ed il «legittimo impedimento». Non è poco – sempre che la Cassazione cancelli davvero il quesito sul nucleare, il che è probabile ma tutt’altro che certo – ma dov’è finito il leader mediatico che terminava sempre i suoi comiziacci invocando l’insindacabile «giudizio del popolo elettore»? Oggi questo giudizio non solo non viene più invocato, ma è palesemente temuto. Temuti i referendum, temute le elezioni politiche anticipate e perfino le più modeste amministrative di metà maggio.
E’ in questo quadro di arroccamento, di chiusura nel bunker, che va inquadrato il maldestro tentativo di fuggire dal nucleare senza pagare alcun prezzo politico. Del resto, questo tentativo era stato annunciato già a marzo. La (poco) onorevole Prestigiacomo, ministra dell’Ambiente, così si espresse due settimane dopo Fukushima: «E’ finita, non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare. Non facciamo cazzate. Bisogna uscirne ma in maniera soft. Ora non dobbiamo fare nulla, si decide tra un mese». Questo significativo fraseggio, che venne pizzicato a telecamere spente durante una conversazione con Tremonti, annunciava quel che è accaduto ieri l’altro con la presentazione dell’emendamento anti-referendum.
Una furbata? Una ben misera furbata.
Innanzitutto non è affatto detto che la Cassazione blocchi il referendum. La retromarcia del governo vorrebbe lasciarsi aperta una via per il futuro. Un’altra manifestazione di furbizia, o piuttosto un ulteriore segno di codardia di chi non ha neppure il coraggio dell’autocritica? Nella motivazione dell’emendamento abrogativo della normativa sul nucleare si afferma che è necessaria una «pausa di riflessione al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche mediante il supporto dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello dell’Unione Europea». In sostanza un rinvio a tempi migliori, teoricamente anche brevi, cosa ben diversa dalle conseguenze dell’abrogazione referendaria i cui effetti avrebbero valore per almeno cinque anni. Proprio per questo è non solo legittimo, ma anche necessario chiedere lo svolgimento del referendum. Per impedire che la sovranità popolare venga sistematicamente imbrogliata dagli azzeccagarbugli di corte, per mettere la pietra tombale su progetti nucleari motivati soltanto dagli appetiti affaristici dei soliti noti.
Tuttavia, anche ammesso e non concesso che la Cassazione lasci passare questa ben misera furbata, resta il fatto che non sarà comunque possibile una nuova inversione a U di tipo nuclearista, almeno per diversi anni. Non dimentichiamoci che dopo Chernobyl ed il referendum del 1987, è passato quasi un quarto di secolo per tornare a parlare concretamente di nucleare… Se davvero volessimo prendere sul serio l’emendamento governativo, al di là del patetico pararsi dietro la solita Unione Europea, è chiaro che le «ulteriori evidenze scientifiche» e l’attesa di un non precisato «sviluppo tecnologico» richiederebbero comunque parecchi anni.
La verità è che con Fukushima il nucleare è morto. Non solo in Italia ma nel mondo. Naturalmente, questo non significa che le centrali esistenti verranno tutte chiuse in un breve lasso di tempo, e neppure che verranno abbandonati tutti i progetti di sviluppo esistenti. Diciamo che il nucleare è morto nel senso che è finita l’assurda illusione che questa fonte possa essere quella capace di sostituire i combustibili fossili per la produzione di energia elettrica. Questo fatto incontestabile, che avrà conseguenze gigantesche su scala mondiale, in Italia significa soltanto una cosa: che rilanciare un piano nucleare in un paese che non ce l’ha, nel momento in cui per molti paesi il problema sarà piuttosto come uscirne, sarebbe pura follia.
Naturalmente il capitalismo è ben capace di simili follie, e la classe politica italiana ancor di più specie se sente odore di lucrose tangenti. Ma c’è un limite difficilmente valicabile per gli uni e per gli altri. Ed esso consiste nella sempre più pesante sconvenienza economica dell’energia atomica, visto che le eventuali nuove misure di sicurezza avrebbero comunque costi economici insostenibili. Questo non significa che non avremo in futuro nuovi piazzisti del nucleare all’«ennesima generazione». Probabilmente li avremo, ma li avremmo avuti anche con la vittoria referendaria.
Al di là di queste considerazione quel che più conta è l’aspetto prettamente politico del dietrofront governativo. Non sono state le valutazioni tecnico-scientifiche, la presa d’atto di problemi di sicurezza irrisolvibili, a muovere la mano emendatoria di Palazzo Chigi. E’ stata invece la certezza della sconfitta politica. Una sconfitta che a mio modesto parere ci sarebbe stata anche senza Fukushima, ma che dopo la catastrofe giapponese è diventata sicura. Il fatto che questa certezza abbia costretto l’esecutivo alla ritirata è un monito non piccolo per qualsiasi futuro governo, almeno per un periodo non breve. Certo, un plebiscito al referendum sarebbe stata un’altra cosa. Ma se è stata la consapevolezza del plebiscito a far scegliere al governo il ko tecnico, le conseguenze politiche non potranno essere poi troppo diverse.
In ogni caso la battaglia contro il nucleare dovrà continuare. In Italia, tenendo alta la guardia contro eventuali colpi di coda della lobby atomica, nel mondo affinché si arrivi davvero alla parola fine con la chiusura di tutte le centrali esistenti. Intanto, però, è giusto festeggiare la sconfitta del partito dell’atomo. Perché, lo si voglia o no, la ritirata decretata dal governo due giorni fa è il sigillo di una sconfitta alla quale abbiamo sempre creduto, ma che non era però scontata. E che questa sconfitta rappresenti un ulteriore tassello della crisi del berlusconismo non può che farci piacere. Senza illusioni, ma con la consapevolezza di aver segnato un punto. Anzi tre, sia pure a tavolino.
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