Se l’impero e il suo sciame di servi e di pretoriani necrofili esultano per aver tolto di mezzo il “nemico pubblico numero uno”, milioni di musulmani e di diseredati sono invece in lutto. Per loro, come ha detto Ismail Haniyeh, è stato ammazzato, quali che siano le nefandezze da egli compiute, un “combattente della guerra santa”. Dove sta la verità? E da che parte dobbiamo stare noi?
Non cercate, in un mondo segnato dall’ingiustizia e dall’oppressione, una verità immacolata e neutrale. Anche la verità è intrisa si sangue. Decidete piuttosto da che parte stare, poiché c’è la verità dei tiranni, e c’è quella di chi si ribella alla tirannia. E se la ragione e il cuore ti dicono che la causa dei diseredati, degli schiavi, dei ribelli, è sacrosanta, allora non ti sei sbagliato, tienitela stretta. È quella la verità, la forza spirituale che muove la storia, che sospinge, in mezzo a tormenti e temporanee sventure, la rivolta antimperialista.
Osama Bin Laden abbracciò questa rivolta, convinto che la lotta non dovesse più essere portata contro questa o quella satrapia, ma direttamente contro l’imperialismo americano. Ma nella forma del Jihad, della guerra di religione contro i crociati occidentali. L’abbracciò, dopo essersi messo al loro servizio contro i sovietici, da musulmano wahabita, ritenendo che l’Islam fosse sufficiente a se stesso, escludendo dalla battaglia non solo chiunque non avesse la sua stessa fede, ma non rispettasse il suo rigorismo salafita e puritano. Così, prima ancora che ad un movimento politico, Bin Laden diede vita ad una confraternita religiosa settaria, alimentata dal culto mistico del martirio. Al-wala’ wa-l-bara’ fi-l-islam: «E’ un dovere amare i Credenti e detestare i miscredenti nell’Islam» Nella sua genesi, nell’anelare ad un passatistico ritorno al califfato, nell’odio irriducibile per tutto quanto è non-islamico, e solo in subordine per l’imperialismo occidentale, era inscritta l’ineluttabile disfatta. Come accadde nella battaglia di Mu’ta, l’atteso soccorso divino non è giunto e la satanica macchina imperiale della morte non poteva che avere la meglio.
Non si sconfigge la più impressionante potenza politico-militare di tutti i tempi se non con una forza altrettanto enorme. E una forza enorme la si può trovare solo nella rivolta popolare, in una sollevazione di ampie masse. Il Jihadismo, per sua stessa natura, per l’ossessione religiosa e per la paranoia militaristica, per la sua ripulsa anche dei valori universali e rivoluzionari che l’Occidente porta seco, non poteva spingere le grandi masse ad entrare in scena. Esso anzi, gioco forza, le escludeva, riconciliandole con la loro impotenza.
Le insurrezioni che hanno rovesciato tiranni come Ben Alì e Mubarak hanno ottenuto in poche settimane ciò che il jihadismo non sarebbe mai potuto riuscire a raggiungere. Nessuna minoranza, per quanto decisa e armata fino ai denti può vincere senza l’intervento delle masse. L’Impero non si vince sul piano militare se prima non lo si sconfigge politicamente. La catena va sempre spezzata nel suo anello debole. L’esempio ci è fornito anche da Palestina e Afghanistan, che avanzano perché la Resistenza è di popolo, ed è di popolo perché il fattore dell’emancipazione nazionale, e quindi democratico, non quello meramente religioso, è l’obbiettivo primario della battaglia.
E’ in Iraq, proprio lì dove, ad un certo punto, il jihadismo prese la testa della lotta di liberazione antimperialista, che ha perso la sua propria e si è schiantato, ed è stato sconfitto appunto perché, invece di unire il popolo contro il comune nemico comune, ha contribuito a dividerlo su basi confessionali, trasformando la guerra di guerriglia antimperialista in stragismo takfirita. Bin Laden sarà forse stato ammazzato nel suo rifugio pakistano, il suo corpo politico, il jihadismo, era già morto in Iraq tra il 2006 e il 2007. Da allora esso non aveva più nulla da dire né alla nazione araba né alla umma musulmana. Ai popoli d’occidente non aveva nemmeno tentato di parlare, considerandoci tutti dei servi pagani, dei bersagli della loro pur legittima sete di vendetta.
Le incongruenze sulla dinamica che ha portato all’uccisione di Osama Bin Laden, le manifeste bugie, le versioni contrastanti sull’accaduto, forniscono una miniera di materiale grezzo per i complottisti e i dietrologi. Non facciamo parte, com’è noto, della setta della conspiracy. Non disdegniamo di guardare l’albero, ma prima osserviamo la foresta. Non crediamo che il mondo sia un agghiacciante matrix, o che i fenomeni politici siano kantiani noumeni a causa delle cortine fumogene e dei depistaggi orditi da onnipotenti servizi segreti — per la verità abbiamo ragione di credere che la pretesa di questi ultimi di orientare il corso degli eventi sia solo una leggenda, che i complottisti finiscono per alimentare, nutrendo i sentimenti di impotenza e di paura.
Farsa o tragedia il blitz che ha portato all’uccisione di Bin Laden? Di sicuro una macabra messa in scena. Di più nessuno può dire, se non ristretti ambiti dei servizi segreti americani e pakistani. I particolari verranno a galla, quando gli assassini decideranno di farceli venire. E dunque, invece di alambiccarsi il cervello per stabilire se Osama era già morto o se le cose sono andate come dice la Casa Bianca, partiamo dal fatto che Bin Laden è defunto, estinto; e chiediamoci cosa adesso può cambiare nel corso degli eventi.
Una cosa noi non crediamo: che il blitz sia stato compiuto all’insaputa dell’ISI pakistano. Ma allora, se l’azione è stata fatta in combutta, se l’ISI ha deciso di togliere la sua protezione a Bin Laden e ha venduto il suo ostaggio agli americani; in cambio di cosa l’ISI l’ha fatto? Quale è stata la merce di scambio? Avanziamo un’ipotesi politica: l’oggetto dello scambio si chiama Afghanistan, dove oramai gli imperialisti sanno di aver perso la loro partita, e sanno che più prima che poi dovranno fare armi e bagagli.
In cambio dello scalpo di Bin Laden l’ISI, il vero centro del potere in Pakistan, ha chiesto agli americani che l’Afghanistan torni ad essere, come ai tempi del dominio talibano, un loro protettorato, di poter di nuovo disporre di quello che essi considerano il loro vitale retroterra strategico.
Se la nostra tesi è plausibile lo vedremo non nei prossimi anni, ma nei prossimi mesi. La Casa Bianca e i suoi ammennicoli NATO inizieranno il ritiro delle truppe, contestualmente dovranno lasciare spazio ad un governo in cui egemoni saranno le forze guerrigliere e Kharzai dovrà farsi da parte. Cosa succederà poi con Alleanza tagika del Nord, questa è un’altra storia. Saranno fatti loro. Washington e i suoi diadochi occidentali dovranno ingegnarsi a salvare la faccia, a spacciare una pesante sconfitta, politica e militare, come un successo. La minaccia di al-Qaeda non era forse stato il motivo ideologico e propagandistico dell’invasione dell’ottobre 2001? Non è stato fatto a caso di Bin Laden un simbolo, un totem del male assoluto. Ora che il suo corpo giace negli abissi e che agli americani è stato concesso di celebrare il loro plebeo rito apotropaico, ora si prepareranno alla prossima messa in scena, quella di far passare una disfatta strategica per un trionfo diplomatico.
Il Jihadismo è stato sconfitto, ma la Resistenza afghana sta ottenendo una vittoria clamorosa. E questo mentre le rivolte popolari arabe, il cui soffio spirerà ancora per molti anni, ha tutta l’aria di ridurre in cenere le locali traballanti satrapie, quella sionista in primis.
Per questo non possiamo dire, in morte di Osama Bin Laden, ciò che il Che disse a suo tempo: «Non piangere…fai quello che faceva e continuerà vivendo in te». Chiunque intendesse difendere la sua memoria di combattente, non può raccoglierne l’eredità.