Impoverimento repentino ed esplosione del conflitto sociale
Quali le radici delle sollevazioni in Nord Africa?

In questo articolo propongo i risultati di uno studio sulle determinanti delle recenti sollevazioni in Nord Africa. L’intento è quello di fornire una traccia che non si esaurisca nella specificità della storia politica di un paese, ma che al contrario fornisca una linea interpretativa basata su universali indicatori economici, demografici e sociali. La conclusione è che la povertà da sola non basta a scatenare il conflitto sociale, nè è sufficiente una forte disoccupazione od una forte disuguaglianza. Il conflitto sociale è però reso più probabile da un repentino e sostanziale peggioramento delle condizioni di vita, e tale probabilità si accresce sensibilmente in presenza di forte concentrazione urbana, elevata istruzione e basse età della popolazione. Ciò ci aiuta a fare un poco di chiarezza sul futuro che ci aspetta.

L’idea che il basso reddito, la disoccupazione e la disuguaglianza sociale generino conflitto sociale, di per sè, è smentita dai fatti. Se così fosse, infatti, dovremmo osservare con una certa regolarità che, a parità delle altre caratteristiche di un paese, una maggiore povertà, una maggiore disoccupazione o una maggiore diseguaglianza sono seguite da maggiori conflitti sociali. Ciò tuttavia non si osserva.

Non sono infatti i livelli assoluti di reddito, disoccupazione o disuguaglianza a predire i conflitti sociali, ma le variazioni di tali livelli. In particolare, ciò che sembra funzionare un po’ meglio per prevedere i conflitti sociali sono le variazioni repentine di tali livelli. Ad esempio, è stato calcolato che un decremento del 5% in un singolo anno del reddito agricolo nei paesi dell’Africa sub-sahariana aumenta la probabilità di una sollevazione popolare armata del 15% (Ciccone, 2008).

Seppur le repentine variazioni di reddito, disoccupazione e disuguaglianza si siano rivelate decisamente più utili dei livelli assoluti per prevedere i conflitti sociali, anch’esse da sole rimangono fortemente erratiche. La ragione di ciò, io credo, è che la forza effettiva della spinta alla rivolta generata da tali variazioni repentine dipende fortemente dalla compresenza di altri fattori economici, demografici e sociali. Lo spunto per una riflessione più precisa a questo riguardo ci è dato dalle inchieste sul Nord Africa pubblicate nei mesi scorsi.

Nella prima inchiesta sul Nord Africa abbiamo visto che, sebbene le differenze di reddito (del paese, pro capite e sua distribuzione) tra i paesi dell’area non possano certo essere negate, esse non paiono tuttavia sufficienti a giustificare da sole previsioni sullo stato di agitazione delle popolazioni. L’indicazione suggerita dai dati analizzati è che le rivolte e le rivoluzioni siano fortemente sollecitate dall’esplosione di una crisi dopo un periodo di crescita sostenuta. Ciò conferma il ruolo appena discusso delle variazioni repentine, anche in senso dinamico (da crescita positiva a recessione).

Nella seconda inchiesta sul Nord Africa abbiamo visto che i dati demografici da soli non consentono previsioni affidabili, ma suggeriscono che la concentrazione delle persone nello spazio della città (urbanizzazione) sia importante, così come la concentrazione della popolazione negli anni della giovinezza adulta (età compresa tra 15 e 30). Entrambe queste caratteristiche sembrano magnificare gli effetti potenzialmente generati dai peggioramenti repentini delle condizioni di vita.

Nella terza inchiesta sul Nord Africa abbiamo visto che i dati a disposizione non danno chiare indicazioni sul ruolo giocato dai moderni strumenti di comunicazione come internet o cellulari. Gli stessi dati suggeriscono tuttavia che il grado d’istruzione della popolazione giochi un ruolo importante, nel senso che una maggiore istruzione è maggiormente presente laddove le rivolte sono più consistenti. In particolare, è lecito pensare che un grado elevato di istruzione magnifichi gli effetti potenziali imputabili a peggioramenti repentini nelle condizioni di vita.

Nella stessa inchiesta abbiamo altresì visto che i livelli assoluti di disoccupazione non danno indicazioni precise sulla conflittualità mentre la scarsa stabilità e l’elevata vulnerabilità del posto di lavoro sembrano addirittura giocare contro l’efficacia della rivolta. Anche in questo caso le indicazioni sono coerenti con il ruolo delle variazioni repentine nelle condizioni di vita. Non è infatti il livello di disoccupazione a contare, ma la sua variazione. Inoltre, condizioni di lavoro estremamente vulnerabili ed instabili sono meno distanti, in termini di benefici netti percepiti dal lavoratore, dalla situazione di disoccupazione, per cui un aumento repentino della disoccupazione in presenza di un maggior numero di lavoratori vulnerabili o instabili ha un effetto minore sulla probabilità che scoppi un conflitto sociale.

In conclusione, ci sono forti ragioni per credere che la povertà, la disoccupazione e la disguaglianza da sole non scatenino il conflitto sociale che, invece, sarebbe reso più probabile dal repentino peggioramento delle condizioni di vita di vasti strati della popolazione. Quanto più probabile dipende tuttavia da altre condizioni demografiche e sociali quali la forte concentrazione urbana, l’elevata istruzione e la bassa età media della popolazione. Se ciò corrisponde al vero è lecito attendersi, ad esempio, che eventuali violente crisi economiche nell’Africa sub-sahariana o in Medio Oriente (con l’eccezione dell’Iran) si rivelino meno esplosive, socialmente, rispetto a quanto visto in Nord Africa. Al contrario, un eventuale violenta crisi economica in Cina potrebbe generare poderose turbolenze sociali.