Relazione di Moreno Pasquinelli al Convegno teorico-politico di Chianciano terme del 30 – 31 ottobre 2010

Prima parte: Lenin e l’Imperialismo

Dividerò il mio intervento in due parti.

La prima, di carattere esegetico, consiste in una rilettura del testo leniniano, per verificare se gli assunti ivi contenuti, alla luce del secolo trascorso e della più recente evoluzione del sistema capitalistico, abbiano retto o meno alla prova dei fatti. Non sembri accademismo, attaccamento talmudistico ai “testi sacri”. Al contrario! Ho scelto questo punto di partenza per rilevare i limiti e il carattere ossimorico dell’analisi leniniana, limiti e contraddizioni dai quali è ora di congedarsi.

D’altra parte non è meno vero che in quell’analisi era contenuta,  seppure solo in uno stato embrionale, un’ipotesi sull’evoluzione del capitalismo che i giorni nostri dimostreranno profetica: quella cioè che il sopravvento del capitale finanziario e bancario su quello industriale avrebbe condotto, prima o poi, al dominio del ceto dei rentiers su quello dei capitalisti tradizionali, e che i paesi imperialistici sarebbero diventati stati usurai, di qui il “parassitismo imperialistico”. Nella seconda parte, invece, proverò a tirare alcune dirimenti conclusioni sulla crisi dell’Occidente imperialistico, motivando la tesi del “declino”.

Lenin e l’Imperialismo

Fu l’evento traumatico della Grande Guerra, e quindi le incombenze di una furibonda lotta politica in seno all’Internazionale socialista e nelle sue propaggini russe, a spingere Lenin ad occuparsi con più rigore di quanto non avesse fatto fino a quel momento della categoria di Imperialismo.

Il termine fu in verità riportato in auge da uno studioso francese, Victor Bérard, nell’anno 1900, col libro L’Inghilterra e l’imperialismo. Venne ripreso due anni dopo dal fabiano inglese Hobson con la sua opera Imperialismo. Uno studio.
Quale fosse l’opinione dell’anglo-centrico Hobson risulta evidente da questo passaggio:

«L’imperialismo è il prodotto naturale della pressione economica di un improvviso incremento del capitale, che non può trovare impiego in patria e ha bisogno di mercati stranieri per i beni e gli investimenti. (…) Quindi l’imperialismo è nella natura stessa del sistema capitalistico che genera aumenti di capitali improvvisi e inaspettati che non trovano spazio sul mercato interno e devono espandersi all’estero. L’imperialismo non è una scelta ma una necessità e, per quanto costoso, per quanto rischioso questo processo di espansione imperiale possa essere, è indispensabile alla continuità dell’esistenza e del progresso del nostro paese».

In ambito marxista fu l’intellettuale austriaco Hilferding che per primo riprese da Bèrard e Hobson il concetto di Imperialismo, nel suo studio del 1910, Il capitale finanziario (testo imprescindibile, malgrado l’assunzione da parte dell’autore della tesi weberiana della netta distinzione tra giudizi di fatto e di valore, di qui la sua tesi che il marxismo, come scienza, doveva essere separato e distinto dal socialismo, considerato un mero ideale etico).

E’ proprio Hilferding a trasformare un concetto ancora vacuo, in una vera e propria categoria scientifica. Sono infatti di Hilferding i quattro capisaldi della nuova teoria: (1) che l’imperialismo era un nuovo stadio evolutivo del capitalismo; (2) che esso era fondato, grazie alla formazione di nuovi monopoli della finanza, sulla sussunzione del capitale industriale da parte di quello bancario; (3) che esso era la fase conclusiva della parabola dello sviluppo capitalistico a cui necessariamente sarebbe seguito un ordinamento socialista. (4) Per  quanto attiene alla conclusione politica di fondo Hilferding afferma: «La risposta del proletariato alla politica economica del capitale finanziario, la risposta all’imperialismo, non può essere il ritorno al liberoscambismo, all’ideale ormai divenuto reazionario del ripristino della libera concorrenza, ma solo il socialismo».

Mentre Hilferding, sulla base della sua analisi, si avvicinerà a Kautsky e alla sua tesi del super-imperialismo, Lenin riprenderà tutti e quattro i suoi capisaldi, ma attuando una torsione rivoluzionaria piuttosto che massimalista, ricavandone conclusioni tattiche e strategiche ben più audaci.

Lo fa per la prima volta a guerra già iniziata, nel dicembre del 1915, scrivendo la prefazione all’opuscolo di Bukharin L’economia mondiale e l’imperialismo, nel quale afferma perentoriamente: «Il problema dell’imperialismo è non solo uno dei più importanti, ma è, si può dire, il problema essenziale nel ramo della scienza economica che studia il cambiamento delle forme del capitalismo nel periodo attuale».

Una prefazione per niente economicistica in cui Lenin si scaglia infatti contro l’ultima tesi di Kautsky, quella del super-imperialismo — ovvero l’idea, sostanzialmente ripresa da Toni Negri ne L’Impero, che il predominio di un manipolo di grandi trust e cartelli finanziari avrebbe portato al superamento dei conflitti tra stati-nazione, ad una specie di “governo mondiale”— opponendo la concezione per cui l’epoca imperialistica, proprio essendo l’ultimo stadio del capitalismo, è segnata  da inasprimento dei conflitti, sconvolgimenti e catastrofi.

Anche in questo caso Lenin, come gli era usuale, non si stava inventando nulla, faceva anzi appello alla “ortodossia marxista”, rimproverando a Kautsky di avere lui abbandonato le sue stesse idee, dal momento che ne La via verso il potere del 1908 riconosceva che «… l’epoca pacifica era finita ed era cominciata l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni».

“Ortodossia” che per Lenin era incorporata nel noto Manifesto del congresso di Basilea approvato dalla Seconda Internazionale nel 1912, che definiva imperialistici i conflitti latenti tra le potenze europee, e per questo dichiarava inammissibile ogni posizione di difesa della patria in caso di guerra inter-imperialistica.

Saranno anche in questo caso le incombenze della furibonda lotta politica in seno alla Seconda Internazionale sul problema della guerra a spingere Lenin a dedicarsi ad uno studio più sistematico dell’imperialismo. Lo farà tra il gennaio e il giugno 1916, scrivendo nell’esilio di Zurigo quello che diventerà il celeberrimo opuscolo Imperialismo, fase suprema del capitalismo. Saggio popolare, che vedrà le stampe nell’aprile del 1917, in pieno subbuglio rivoluzionario.

Proprio nella prefazione Lenin indica lo scopo principale del suo lavoro:

«Voglio sperare che il mio lavoro contribuirà a chiarire la questione economica fondamentale, la questione cioè della sostanza economica dell’imperialismo, perché senza questa analisi non è possibile comprendere né la guerra odierna né la situazione politica odierna», senza dimenticare il suo proprio incrollabile convincimento, che l’imperialismo rappresentava «la vigilia della rivoluzione socialista».

Vedremo subito quale fosse per Lenin la “sostanza economica dell’imperialismo”, non senza ribadire che quest’ultima “sostanza” dev’essere inquadrata in un contesto storico-politico, se mi è consentito, teleologico.

Ribadita la periodizzazione per cui l’imperialismo ha sostituito il vecchio capitalismo “all’inizio del ventesimo secolo”, Lenin afferma:

«La concorrenza si trasforma in monopolio. Ne risulta un immenso processo di socializzazione della produzione. In particolare si socializza il processo dei miglioramenti e delle invenzioni tecniche. (…) Il capitalismo, nel suo stadio imperialistico, conduce decisamente alla più universale socializzazione della produzione; trascina, per così dire, i capitalisti, a dispetto della loro coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segna il passaggio dalla libertà di concorrenza completa alla socializzazione completa».

Dunque, l’imperialismo era per Lenin non solo l’ultimo stadio del capitalismo, esso era più precisamente il periodo di passaggio, per quanto violento e catastrofico potesse essere, al socialismo. E’ proprio grazie all’imperialismo, ovvero all’evoluzione del capitalismo, che il socialismo diventava per Lenin, non solo possibile, ma ineluttabile. Per quanto possa sembrare ossimorico Lenin afferma infatti che l’imperialismo va colto nel suo duplice aspetto: esso è “reazionario su tutta la linea” (in quanto spinge all’estremo le forme dell’oppressione di classi e interi popoli) e al contempo progressivo in quanto anticamera del socialismo. Non c’è infatti antinomia, agli occhi di Lenin, tra il fatto che l’imperialismo porti gli antagonismi al loro livello più estremo e che allo stesso tempo prepari le migliori condizioni per la fuoriuscita dal capitalismo, poiché sono proprio tali antagonismi estremi la precondizione per la vittoria rivoluzionaria. Il primo fattore è politico, il secondo economico. I due aspetti si tengono assieme e assieme vanno considerati.

Dal punto di vista politico e strategico Lenin tira precise conseguenze: prepararsi, senza esitazione o esclusione di colpi, alla battaglia finale, dato che, per quanto “morente”, il capitalismo non avrebbe tolto il disturbo ma resistito con tutte le sue forze. Battaglia che non era velleitaria, blanquista o bakunista, appunto perché  l’imperialismo, ovvero la massima concentrazione monopolistica aveva reso più che mature le premesse economiche, lèggi strutturali, del socialismo, realizzando così, una volta per tutte, la profezia di Marx.

Non è quindi un caso che Lenin chiuda il suo saggio ribadendo con forza la sua concezione:

«Quando una grande azienda assume dimensioni gigantesche e diventa rigorosamente sistematizzata e, sulla base di un’esatta valutazione di dati innumerevoli, organizza metodicamente la fornitura della materia prima originaria nella produzione di due terzi o tre quarti del’intero fabbisogno di una popolazione di più di dieci milioni: quando è organizzato sistematicamente il trasporto di questa materia prima nei più opportuni centri di produzione, talora separati l’uno dall’altro da centinaia e migliaia di chilometri; quando un unico centro dirige tutti i successivi stadi di elaborazione della materia prima, fino alla produzione dei più svariati manufatti; quanto la ripartizione di tali prodotti, tra le centinaia di milioni di consumatori, avviene secondo un preciso piano; allora diventa chiaro che si è in presenza di una socializzazione della produzione e non già di un semplice “intreccio”; che i rapporti di economia privata e di proprietà privata formano un involucro che deve andare inevitabilmente in putrefazione qualora ne venga ostacolata artificialmente l’eliminazione, e in stato di putrefazione potrà magari durare per un tempo relativamente lungo (nella peggiore delle ipotesi, nella ipotesi che per la guarigione… del bubbone opportunistico occorra ancora molto tempo!), ma infine sarà fatalmente eliminato».

Così Lenin chiude il suo Saggio dando addirittura la parola a Saint-Simon, il quale, da buon positivista, scriveva:

«L’odierna anarchia della produzione, derivante dal fatto che i rapporti economici si svolgono senza una regolamentazione uniforme, deve cedere il posto all’organizzazione della produzione. Non saranno più gli imprenditori isolati, indipendenti fra di loro e ignari dei bisogni economici degli uomini, a dare la direzione e l’indirizzo alla produzione, ma ciò spetta invece ad un’apposita istituzione sociale. Un’autorità amministrativa centrale, in grado di osservare da un più elevato punto di vista l’ampio terreno dell’economia sociale, regolerà quest’ultima in modo utile a tutta la collettività e assegnerà i mezzi di produzione a mani idonee, e segnatamente vigilerà affinché vi sia una costante armonia tra produzione e consumo. Vi sono delle istituzioni che hanno introdotto fra i loro compiti quello di dare una certa organizzazione al lavoro economico, e sono le banche».

Oggi possiamo fare spallucce o sorridere su questo incrollabile ottimismo rivoluzionario, su questa vera e propria fede futuristica nella direzione progressista della storia e nelle potenze della tecnica. Possiamo prendere le distanze da questa concezione unilineare del corso storico, del vero e proprio culto delle forze produttive capitalistiche. Possiamo e dobbiamo congedarci da una visione semplicistica del passaggio al socialismo, tutto ancorato all’idea della autosufficienza della pianificazione centralizzata, dell’industrializzazione e del  dirigismo tecnocratico. Possiamo infine comprendere come quel colossale fenomeno storico che va sotto il nome di stalinismo, pur se con un dispotismo patologico, non faceva che applicare la visione saint-simoniana che, pur con le pinze, Lenin riportò alla ribalta.

Tornando alla cosiddetta “Essenza economica dell’imperialismo”, ad un certo punto Lenin indica “i cinque tratti più essenziali” del fenomeno . Quelli che la vulgata successiva ha considerato come veri e propri assiomi. Dobbiamo velocemente ricapitolarli, non senza prima segnalare che Lenin li fa precedere da questa decisiva premessa epistemologica prudenziale:

«Quindi noi —senza tuttavia dimenticare il valore convenzionale e relativo di tutte le definizioni, che non possono mai abbracciare i molteplici rapporti, in ogni senso, del fenomeno in pieno sviluppo — dobbiamo dare una definizione dell’imperialismo che contenga i suoi cinque principali contrassegni». Quali? 1) la concentrazione del capitale fino al sopravvento dei monopoli; 2) la fusione tra capitale bancario e industriale, quindi il formarsi del capitale finanziario e di un’oligarchia finanziaria; 3) la preponderanza dell’esportazione di capitale su quella delle merci; (4)  la nascita di associazioni monopolistiche in grado di ripartirsi il mondo; (5) la compiuta ripartizione del mondo tra le più grandi potenze».

La polemica col “Papa Rosso” Kautsky e la sua tesi dell’ultra-imperialismo, era in effetti uno dei motivi del Saggio, forse quello portante. Si trattava per Lenin — erano, ripetiamolo, i tempi di Zimmerwald e della lotta contro il “social-imperialismo” e le posizioni interventiste —, di creare le premesse programmatiche di una nuova internazionale.

Ma cosa affermava Kautsky, in piena guerra?
Sentiamo:

«Dal punto di vista strettamente economico non può escludersi che il capitalismo attraverserà ancora una nuova fase: quella cioè dello spostamento della politica dei cartelli nella politica estera. Si avrebbe allora la fase dell’ultra-imperialismo, cioè del super-imperialismo, della unione degli imperialismi di tutto il mondo e non della guerra tra essi, la fase della fine della guerra in regime capitalistico, la fase dello sfruttamento collettivo del mondo ad opera del capitale finanziario internazionalmente coalizzato».

Quindi, per Kautsky: «L’impulso del capitale ad ampliarsi può trovare la migliore soddisfazione non coi metodi violenti dell’imperialismo, ma con una democrazia pacifica».

Fino a che punto Lenin, mentre rompeva politicamente col kautskysmo, fosse ancora ammaliato dalle suggestioni dottrinarie di Kautsky, lo si può verificare quando egli, sempre nel Saggio popolare, afferma di non negare che “in astratto”, “dal punto di vista strettamente economico” «…l’evoluzione si muova nella direzione dei monopoli, e quindi verso un unico monopolio mondiale, un unico trust mondiale. Ciò è indubbiamente esatto, ma senza significato…».

E’ sul piano politico e geo-politico che per Lenin, le cose vanno diversamente: non prevaleva questa tendenza astratta, ma quella opposta: prevalevano le tendenze conflittuali, i fattori di competizione. Il dominio del capitale finanziario aumentava e non attutiva tutte le contraddizioni sia economiche che statuali. Occorreva dunque prepararsi perché tali contrasti si sarebbero risolti con la forza. Eravamo anzi oramai entrati “nell’epoca delle guerre imperialiste”.

E’ evidente, almeno ai miei occhi come, per Lenin, la tendenza economica obiettiva non cancellava gli stati-nazione, la loro centralità, le loro prerogative. Concludeva infatti: «Questo inasprimento degli antagonismi costituisce la più potente forza motrice del periodo storico di transizione, iniziatosi con la definitiva vittoria del capitale finanziario mondiale».

«Le alleanze “inter-imperialiste” non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre.»

Ecco quindi il punto focale del ragionamento strategico leniniano: la fase suprema o del capitalismo morente era, dal punto di vista economico, la fase della transizione dal capitalismo al socialismo. Politicamente questo significava tuttavia  l’acutizzazione e non l’attutimento delle contraddizioni, e le forze rivoluzionarie avrebbero dovuto giocare su questo terreno invece di illudersi che il socialismo sarebbe stato loro servito dall’imperialismo su un piatto d’argento. Di qui, di contro all’imbelle “non interventismo”, al “né aderire  né sabotare”, alla “neutralità attiva e operante”, il cogente assunto strategico della “trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile”.

Tuttavia è un’altra la parte che ora ci interessa del Saggio di Lenin, la profezia di cui sopra. Si tratta del  capitolo VIII intitolato “Parassitismo e putrefazione del capitalismo”.

Lenin lo apre affermando che “il monopolismo porta con sé la tendenza alla stasi e alla putrefazione”. Dice anzi che sorgerebbe «… la possibilità economica di fermare artificiosamente il progresso tecnico». Ma quale, delle due tendenze, quella alle innovazioni per ricavare plusvalore e quella alla stagnazione, Lenin riteneva quella principale? Egli lascia intendere che sarebbe stata quella alla putrefazione parassitaria, tuttavia, evitando d’impiccarsi a questa previsione, prudentemente asseriva che la tendenza alla stagnazione e quella dello sviluppo sarebbero coesistite l’una accanto all’altra. Sentiamo:

«Sarebbe erroneo credere che la tendenza alla putrescenza escluda il rapido incremento del capitalismo: tutt’altro. Nell’età dell’imperialismo i singoli paesi palesano, con forza maggiore o minore, ora l’una ora l’altra di quelle tendenze. In complesso il capitalismo cresce assai più rapidamente di prima, senonché tale incremento non solo diviene in generale più sperequato, ma tale sperequazione si manifesta particolarmente nell’imputridimento dei paesi capitalistici più forti».

«Il più rapido sviluppo capitalistico si verifica nelle colonie e nei paesi transoceanici. Tra essi sorgono nuove potenze imperialistiche (il Giappone)».

E’ sotto gli occhi di tutti che non sarà la tendenza alla putrefazione parassitaria, alla stagnazione delle forze produttive, quella dominante. Noi oggi sappiamo che il capitalismo mondiale ha conosciuto, dopo il 1917, non solo crisi catastrofiche ma anche poderosi slanci.

Ahimè, diventerà invece un dogma economicistico per le due correnti comuniste che si contenderanno l’egemonia fino agli anni ‘60, quella stalinista e quella trotzkysta, che affermeranno che la tendenza alla putrefazione individuata da Lenin fosse ormai, sic et simpliciter, “l’agonia mortale del capitalismo”.

Tornando al punto. Qual è in buona sostanza la profezia leniniana? La si deve cavar fuori, liberarla da ciò che nel Saggio popolare la circonda, astrarla dal resto del testo, scritto in gran parte per rispondere alle  impellenze della battaglia politica.

Lenin accoglie ed anzi radicalizza l’intuizione di Hobson sul destino dell’Inghilterra. Afferma che i paesi imperialistici sono destinati a conoscere un processo per cui, dominante, sarebbe diventata «… la classe, o meglio, il ceto dei rentiers, cioè di persone che vivono del “tagli di cedole”, non partecipano ad alcuna impresa ed hanno per professione l’ozio. L’esportazione di capitale, uno degli essenziali fondamenti economici dell’imperialismo, intensifica questo completo distacco del ceto dei rentiers dalla produzione e ciò da un’impronta parassitaria a tutto il paese, che vive dello sfruttamento del lavoro di pochi paesi e colonie d’oltre oceano».

E aggiunge: «Nel paese più “commerciale” del mondo i profitti dei rentiers superano di cinque volte quelli del commercio estero! In ciò sta l’essenza dell’imperialismo e del parassitismo imperialista. Per tale motivo nella letteratura economica sull’imperialismo è di uso corrente il concetto di “Stato rentier” (Rentnerstaat) o Stato usuraio. Il mondo si divide in un piccolo gruppo di Stati usurai e un’immensa massa di Stati debitori. (…) l’Inghilterra impresta all’Egitto, al Giappone, alla Cina, all’America del Sud. E in caso di bisogno la sua flotta da guerra funziona come ufficiale giudiziario. (…) Lo Stato rentier è lo Stato del capitalismo parassitario in putrefazione. Questo fatto necessariamente influisce su tutti i rapporti politico-sociali dei relativi paesi, e quindi anche sulle correnti principali del movimento operaio».

Ascoltate adesso questo passaggio, e ditemi se diagnosi fu più giusta!

«In generale il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dall’impiego del medesimo nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impiego del capitale. L’imperialismo, vale a dire l’egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo, in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi. La prevalenza del capitale finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale importa una posizione predominante del rentier e dell’oligarchia finanziaria, e la selezione di pochi Stati finanziariamente più “forti” degli altri».

Quanti decenni la più parte dei marxisti hanno perduto non avendo saputo riconoscere ciò che stava accadendo sotto i loro occhi! Sarebbe stato sufficiente prendere, nella debita considerazione, le tesi di due economisti americani di peso, Shumpeter e Galbraith i quali, senza forse nemmeno aver letto Lenin,  ma osservando empiristicamente l’evoluzione della società americana, erano giunti alla medesime conclusioni. Il primo (Capitalismo, socialismo e democrazia, 1928) sostenendo che l’evoluzione del capitalismo portava con sé l’esaurimento della “classe imprenditoriale”, ovvero l’estinzione della classe borghese che era stata la forza propulsiva dello sviluppo capitalistico. Il secondo (vedi La società opulenta, 1968), sottolineando come stesse prendendo il sopravvento, nell’ambito della società consumistica, una improduttiva “nuova classe” dominante, che svolgeva lo stesso ruolo di quella feudale degli oziosi (non meramente riducibile ad una minoranza oligarchica), la quale avrebbe trascinato il capitalismo verso “un tragico destino”.

Tornando a Lenin. Per lui quella imperialistica era una “sovrastruttura”. Sottolineo questo concetto: per il Nostro l’imperialismo era una “sovrastruttura del vecchio capitalismo”. Lo affermerà, in modo secondo me affrettato, polemizzando con Bucharin e le sue concezioni meccanicistiche nel marzo 1919 in occasione del VIII Congresso del partito russo. Una “sovrastruttura” che tuttavia innervava tutta la società imperialistica e determinava la composizione di classe: così egli si spiegava la “corruzione degli strati superiori del proletariato”, “l’imborghesimento di piccoli (al tempo piccoli!) strati di proletariato”, quindi la formazione di “un’aristocrazia del lavoro o operaia”, vera base sociale dell’opportunismo e del “riformismo”. Chi non riconosce la natura e la funzione dell’aristocrazia operaia, ripeteva spesso Lenin, non capisce un aspetto cruciale dell’imperialismo, e quindi si preclude la possibilità di accesso al proletariato vero e proprio.

Infatti: «Una delle particolarità dell’imperialismo è l’aumento dell’immigrazione di individui provenienti da paesi più arretrati, con salari inferiori. (…) Negli Stati Uniti gli immigrati dall’Europa orientale e meridionale coprono i posti peggio pagati, mentre i lavoratori americani danno la maggiore percentuale di candidati ai posti di sorveglianza e ai posti meglio pagati. L’imperialismo tende a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari. (…) Così l’ideologia imperialista si fa strada anche nella classe operaia, che non è separata dalle altre classi da una muraglia cinese».

Imperialismo come mera sovrastruttura? E’ difficile, alla luce dei cento anni che ci separano da Lenin, sostenere questa tesi. L’imperialismo non è affatto un puro e semplice rivestimento del sistema capitalista nella sua massima fase di sviluppo.
Esso è una struttura che il capitalismo si e’ dato storicamente, costituisce una vera e propria formazione sociale. Il “capitalismo”, per capirci quella preso in considerazione da Marx ne Il Capitale, è solo un’astrazione funzionale all’analisi dei reali processi storici. Non è lecito scambiare i processi reali coi modelli teorici che la scienza deve pur utilizzare allo scopo di afferrare meglio i primi. L’imperialismo e’ il capitalismo realmente esistente, la forma senza la quale il capitalismo stesso non funzionerebbe un solo istante. Di qui l’imprescindibilità di questa categoria, che è scientifica perché sa indicare alcuni presupposti costitutivi del capitalismo, senza i quali non ci è possibile comprendere i suoi meccanismi evolutivi e quelle che noi fissiamo come contraddizioni.

Quali sono questi presupposti?
Marx non ha mai affermato che l’esistenza di un proletariato nullatenente fosse condizione sufficiente all’avvio di un’accumulazione capitalistica su grande scala. In un sistema chiuso e autarchico il capitalismo non sarebbe mai potuto sorgere. Affinché quest’accumulazione potesse darsi (che cioè impiegasse in modo capitalistico la forza lavoro dei proletari) occorreva una condizione preliminare: l’esistenza di una ingente massa di valore di scambio nella forma simbolica di denaro, di capitale in potenza. Questa massa l’hanno fornita principalmente la rapina e il saccheggio colonialistico delle aree non-capitalistiche (Americhe, Africa, Asia e anche zone europee). Solo il colonialismo ha permesso che si concentrasse, anzitutto in Inghilterra, una larga massa di capitale potenziale destinato a cercare la propria valorizzazione. E così ci spieghiamo come mai il capitalismo, pur essendo nato nell’Italia dei Comuni, ha dovuto cedere il passo a quelli inglese e olandese.

Storicamente parlando la rapina colonialistica ha preceduto l’espropriazione dei contadini e la formazione di un proletariato urbano diseredato disponibile a vendere la sua forza lavoro in cambio di un salario. Il colonialismo (non solo la rapina pura e semplice di vaste aree ma la loro trasformazione in mercati di sbocco di merci e capitali in cerca di valorizzazione) non è dunque un orpello, ma la precondizione costitutiva del capitalismo medesimo. Il capitalismo era dunque già allora un imperialismo incipiente. Di questo Marx parla nel noto capitolo sulla “Accumulazione primitiva”.

Abbiamo dunque, di contro ad una lettura semplicistica ed eurocentrica dello sviluppo capitalistico, che il capitalismo, ancora in fasce, porta con sé, non una ma due contraddizioni costitutive: accanto a quella endogena tra proletariato e borghesia, quella esogena tra le nazioni capitalistiche emergenti e i popoli coloniali precapitalisti. Esse non solo sono apparse appaiate, non solo sono complementari l’una all’altra, sono due forme del medesimo processo. Sono quindi due aspetti della medesima contraddizione dominante, e quale delle due sia quello principale o secondario, non può essere stabilito a priori, dipende dalle circostanze storiche, cioè da tutta una serie di condizioni collaterali che vanno debitamente svelate, analizzate, identificate con la massima esattezza.