Dal tramonto di Berlusconi all’aurora della rivolta sociale
Uno dei morbi che appestano la scena politica è il politicismo. In cosa consiste il politicismo? Nell’illusione dei politici di essere i demiurghi della realtà sociale, nell’idea che la sfera del politico sia effettivamente autonoma da quella sociale. Questa sindrome si manifesta in forma acutissima e lampante nelle sfide elettorali, quando i politicanti, catapultati al centro della scena, vengono presi da un vero e proprio delirio di onnipotenza. Vincenti e perdenti si sentono padroni, dimenticando che la politica, in fin dei conti è una sovrastruttura, che non sono loro da cui dipende l’evoluzione sociale ma, al contrario, che da questa evoluzione dipendono loro. E da cosa anzitutto dipende l’evoluzione sociale in un mondo, quello capitalistico contemporaneo, sovradeterminato dall’economia, se non appunto dall’economia medesima?
La logomachia post-elettorale oltre che stucchevole, è grottesca. Il declino inarrestabile del’Occidente, una finanza predatoria onnivora che rischia di far ripiombare il mondo in una catastrofe peggiore di quella del 2008, il lento scivolamento del paese verso il baratro di una depressione senza uscita, la situazione drammatica di milioni di persone senza lavoro e di altrettante famiglie sull’orlo della soglia di povertà, la desertificazione di interi distretti industriali, un debito pubblico crescente che imporrà una politica economica fatta di sacrifici crescenti, il fallimento totale dei governi di porvi rimedio; in poche parole le ferite che così profondamente affliggono il corpo sociale. Tutto questo viene improvvisamente rimosso dal rito elettorale, seppellito da fiumi di parole sui numeri, le percentuali, ovvero sul quasi-niente. Lo spettacolo della politica odierna, parodia in stile burlesque della vicenda sociale, è destinato a collassare su se stesso, prima di quanto si pensi. Questo collasso può essere determinato da due fattori, o dalla concomitanza dei due: da un nuovo cataclisma finanziario o da una improvvisa sollevazione popolare. Il primo fattore è quello più probabile e presumibilmente, dati gli sconquassi che causerà, precederà il secondo. Discutono del niente, ma galleggiano sull’abisso. Chi vivrà vedrà.
In attesa dei risultati definitivi, la cui analisi, dato il guazzabuglio in cui consistono elezioni di tipo amministrativo, non sarà certo facile, proviamo anche noi, dopo appunto aver scelto l’angolo visuale di cui sopra, a tirare le prime conclusioni.
(1) Abbiamo faticato, in occasione delle regionali dell’anno passato, a smentire la tesi dell’avanzata del berlusconismo. Dimostravamo, analizzando il dato dei voti assoluti, che sia il Pdl che la Lega, avevano perso consensi, malcelati solo a causa del calo del numero dei votanti. Noi parlavamo anzi di «tramonto del berlusconismo». Questo tramonto è il primo dato che emerge, questa volta in modo lampante, dalle urne. Il dato di Milano è incontrovertibile, anche visto il crollo delle preferenze personali del Presidente del consiglio. Fossimo davanti ad un “politico normale” esso si sarebbe già recato al Colle consegnando le sue dimissioni. Ma Il Cavaliere non è un “politico normale”, e nemmeno i suoi leccapiedi lo sono. Un Pdl senza Berlusconi sarebbe polverizzato.
(2) Anche la Lega esce con le ossa rotte da questa competizione. Buona parte del suo elettorato non ha seguito le consegne, seminando il panico nella ristretta cupola dirigente leghista. Esodo dalla Lega perché? Per la troppa vicinanza al puttaniere di Arcore? O per aver troppo preso le distanze? Tutte e due le cose possono ben coesistere. Un dato salta agli occhi: che l’aver incassato il tanto anelato federalismo, non ha portato la messe di voti attesa, anzi. Sia per la debacle del Pdl che della Lega i numeri in sé dicono poco: occorre capire il segno sociale e di classe di questo esodo. Se, come noi pensiamo, il convitato di pietra di queste elezioni è la crisi economica, se è la crisi economica la causa primaria dei flussi elettorali, dovrebbe essere che sia il Pdl che la Lega hanno perso voti proprio tra la gente di più umili condizioni, usando un aggettivo in disuso, tra il proletariato.
(3) La palese sconfitta elettorale del beluscon-leghismo non è tuttavia un crollo. Non c’è il disfacimento del blocco sociale che sorregge l’alleanza. La crisi economica e sociale ha solo scalfito questo blocco, che infatti tiene. Attenti a non scambiare il tramonto del fenomeno politico del berlusconismo col tracollo dell’ectoplasma sociale sottostante. Se le nostre analisi sono giuste questo blocco reazionario di massa è più vivo che mai e l’alleanza di centro-destra ne è solo la forma politica momentanea e larvata. La forma definitiva che potrà prendere lo decide il decorso della crisi economica e sociale.
(4) Il fallimento del “terzopolismo”, ovvero dell’opzione moderata e post-democristiana, più che attestare la solidità del bipolarismo, rivela la tendenza latente, sottotraccia, alla radicalizzazione e polarizzazione sociale e politica. Anche qui, attenti a non confondere la polarizzazione come fenomeno sociale col bipolarismo politico. Tra i due fenomeni non c’è in realtà necessaria corrispondenza.
(5) Infatti nello schieramento anti-berlusconiano non vince affatto “l’anima moderata”, il Pd. Si affermano invece candidati e formazioni più radicali, vedi i casi di Milano, Napoli e Cagliari. A Milano e Cagliari l’ala radicale del centro-sinistra avanza nell’ambito dei patti di coalizione, a Napoli addirittura fuori e contro il Pd. La qual cosa complica, e molto, l’ipotesi strategica del Pd stesso, che è quella di incarnare politicamente il grande capitalismo e dunque di governare il paese senza fare concessioni alle istanze sociali anticapitalistiche che l’ala radicale bene o male, più male che bene, si porta appresso.
(6) Un dato che conferma la tendenza alla polarizzazione-radicalizzazione è l’affermazione delle liste Cinque Stelle. Certo, spiega questo successo la volata che gli è stata tirata dalla coppia Santoro-Travaglio e della lobby che a loro fa capo. La ragione di fondo tuttavia è da cercare nella nettezza con cui i grillini si sono posti come antagonisti ai due schieramenti bipolari. Non c’è dubbio che hanno raccolto un limpido voto di protesta, anzitutto pescando in settori giovanili precari e figli del ceto medio impoverito dalla crisi. En passant: se non fosse per le leggi elettorali truffaldine e bipolariste coattive, scopriremmo che senza grilli e terzopolisti, senza le ali estreme e ammennicoli vari i due blocchi centrali, Pd e Pdl, non arriverebbero al 50% dei voti. Il bipolarismo è tenuto in vita solo con le flebo di marchingegni elettorali antidemocratici.
(7) Un ragionamento a parte va svolto sulle liste a vario titolo comuniste. Il flusso antiberlusconiano non le premia affatto. Nè recuperano davvero gli astensionisti di sinistra. Clamoroso, quasi umiliante, il tonfo di quelle del Pcl (611 voti a Torino! 405 a Milano, lo 0,21% a Napoli). Il gruppo dirigente avrà di che riflettere sulle sue scelte autoreferenziali, settarie e identitarie. Un arretramento pesante che è confermato anche nelle elezioni provinciali e dal fallimento impietoso della lista unitaria a Napoli (842 voti, lo 0,18%) tra Sinistra Critica, Sinistra Popolare, Rete dei Comunisti (strombazzato come laboratorio nazionale). Un tonfo che ha tuttavia ragioni storiche profonde, che non chiama in causa solo limiti soggettivi, e ciò è confermato in maniera solare dal dato rovinoso torinese della lista Federazione della sinistra-Sinistra critica: un deprimente 1,49%. Torino, la città della FIAT dove nell’ultimo anno si sono giocate le due partite decisive di Mirafiori ed ex-Bertone, dove si poteva sperare che l’aver difeso le istanze operaie e della FIOM avrebbe fatto premio alla scelta di andare sganciati dal Pd e contro Fassino, uomo ombra di Marchionne. Niente invece: gli operai o hanno votato per i partiti borghesi che chiedono di schiavizzarli o si sono (giustamente) astenuti. Le liste della Federazione riprendono ossigeno dove e solo dove esse si presentavano avvinghiate al Pd, nel carrozzone di centro-sinistra. La qual cosa ci dice di che sostanza è fatto l’elettorato della Federazione, che esso è solo un’appendice del “popolo del centro-sinistra” (dove Vendola ha la parte del leone), che essa è congenitamente incapace di raccogliere le istanze radicali e antibipolari che pur si sono manifestate. Non si illudano che strappare qualche scranno in Parlamento eviti la consunzione.
(8) Un ultimo ragionamento va fatto sull’astensione, che malgrado i toni da redde rationem che i politicanti hanno dato alla campagna, e cresciuto del 1,8% rispetto alle precedenti comunali, col dato eclatante di Napoli: – 5,92%. Il tutto a conferma della tendenza che va avanti in modo forte almeno dal 2008. Un’astensione che è stata evidentemente frenata dall’affermazione, anzitutto al Nord, delle liste Cinque stelle, e solo in pochissima parte dai vendoliani e dalle liste comuniste. Su questo vale la pena soffermarsi sul dato torinese e il segno largamente operaio che l’astensione ha avuto. A Torino la percentuale alle comunali è stata del 66,53%, quasi cinque punti in meno della media nazionale del 71%. Ma se sommiamo ai 237mila che si sono astenuti, 13760 schede nulle e 6617 schede bianche, abbiamo un tasso di astensionismo reale che veleggia al 40%. Lo stesso conteggio si dovrebbe fare per le altri città e province.
Non è che noi si cerchi conforto, ma la conferma del ragionamento di fondo che facciamo e che è riassumibile in questi punti: (1) la talpa della crisi economica sta solo iniziando a rodere i pilastri su cui si reggono il sistema politico e istituzionale e chi oggi pretende di rappresentare l’opinione pubblica; (2) l’astensione testimonia di uno smottamento lento ma riteniamo inesorabile di questo sistema; (3) quest’astensione è certamente polivoca ma il suo segno di classe è prevalente; (4) è in questa area astensionista enorme che si annidano le più consistenti energie eversive e antisistemiche e dunque la crescita dell’astensionismo va sostenuta; (5) il gioco elettorale non si addice alle forze che ambiscono a rappresentare politicamente queste energie, esso è strutturato in maniera tale che i rivoluzionari a vario titolo non hanno alcuna speranza di affermarsi; (6) il lavoro di costruzione di un nuovo movimento rivoluzionario è affidato non tanto alla capacità di rappresentare elettoralmente la rabbia sociale, ma a quella di costruire un soggetto politico che la sappia intercettare quando essa si manifesterà in tutta la sua potenza; (7) ci conforta invece che gli stessi risultati partoriti dalle urne, con la frammentazione che cresce assieme a liste di protesta, e contestualmente alla batosta subita da Berlusconi, al fallimento del Terzo polo e all’impasse del Pd, lungi dal dare forza al sistema politico, lo indeboliscono. Meglio così.
Ne vedremo delle belle!
da Sollevazione