La situazione egiziana rimane estremamente aperta. I media occidentali non ne parlano, ma scioperi, manifestazioni e lotte sociali in genere sono cronaca di ogni giorno. La stessa cosa, del resto, avviene nella più piccola ma ugualmente importante Tunisia.
L’Egitto è un grande paese, centrale nel mondo arabo e decisivo per gli equilibri politici di tutta la regione mediorientale. Capire le dinamiche del movimento che è stato protagonista della sollevazione di gennaio-febbraio, capire come si stanno riorganizzando le principali forze politiche, per cercare di comprendere quali potranno essere le future linee di sviluppo, è dunque essenziale.
Sull’attuale situazione egiziana, e sui tentativi di intorbidire le acque da parte del blocco controrivoluzionario, pubblichiamo oggi l’analisi proposta in un editoriale di Medarabnews.
Ancora una volta, venerdì scorso, decine di migliaia di persone si sono riunite a Piazza Tahrir, al Cairo, per ribadire la forza del movimento rivoluzionario egiziano, la sua volontà di unità, la sua condanna degli incidenti settari che ultimamente hanno turbato a più riprese la società egiziana.
Le bandiere con la croce e la mezzaluna insieme, a testimoniare la volontà di unità tra cristiani e musulmani, si sono mescolate alle bandiere palestinesi che intendevano ricordare la Nakba, la “Catastrofe” palestinese del 1948, la cui commemorazione sarebbe avvenuta due giorni più tardi, domenica 15 maggio.
Gli slogan che condannavano le recenti azioni vandaliche ai danni delle chiese sono stati inframmezzati da quelli che chiedevano l’apertura del valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, e che invocavano uno Stato palestinese.
Si è trattato dell’ennesimo segno di vitalità della rivoluzione egiziana, a cui si alternano però sintomi più preoccupanti, come gli incidenti che hanno portato alla morte di 15 persone ed al ferimento di oltre 200, sabato 7 maggio, dopo che alcuni “estremisti salafiti” avevano appiccato il fuoco alla chiesa di Mar Mina, nel quartiere di Imbaba al Cairo.
La tensione era salita già tre settimane fa, quando una nutrita manifestazione di salafiti di fronte alla cattedrale copta aveva chiesto a gran voce la liberazione di una donna cristiana, Camilia Shehata, che i dimostranti sostenevano si fosse convertita all’Islam, e fosse tenuta prigioniera all’interno della chiesa.
La donna ha poi smentito la sua conversione, ma lo stesso episodio si è ripetuto giorni dopo in maniera pressoché identica nel quartiere di Imbaba (la presunta convertita questa volta si chiamava Abeer), tuttavia con un esito molto più drammatico.
Crisi della sicurezza interna
In realtà le tensioni fra cristiani e musulmani in Egitto si inseriscono in un quadro più ampio di contrapposizione – ora latente, ora palese – fra le correnti islamiche e le correnti laiche che costituiscono le due anime dell’opposizione popolare al passato regime, il tutto inserito in un clima di generale insicurezza e di assenza dello Stato, nel quale bande di teppisti e criminali sembrano avere mano libera.
Come scrive il decano dei commentatori egiziani, Mohamed Hassanein Heikal, la storia insegna che una situazione di caos accompagna inevitabilmente ogni rivoluzione, poiché la società interessata va incontro ad enormi cambiamenti. Tuttavia nel caso egiziano, scrive Heikal, sembra che “le forze della rivoluzione stiano compiendo un passo indietro per dare una chance al cambiamento, mentre le forze del caos stanno accorrendo per sfruttare le chance che il cambiamento offre”.
L’improvvisa irruzione della “libertà” nella società egiziana, dove il crollo del vecchio regime non ha ancora portato all’emergere di un nuovo sistema politico con regole chiare e rispettate da tutti, fa sì che gli aspetti negativi e positivi della società egiziana si manifestino senza alcuna mediazione, come in una sorta di calderone in cui l’improvvisa riduzione della pressione ha portato all’immediata ebollizione il contenuto che vi era all’interno.
In questo calderone si agitano nuove forze sociali, emergono nuove formazioni politiche e sindacali, fanno sentire la loro voce elementi religiosi sia moderati che estremisti, mentre il malcontento popolare per le gravi difficoltà economiche e il mancato soddisfacimento dei bisogni essenziali rimane tuttora senza risposta, e i resti del vecchio regime e dell’èlite affaristica ad esso collegata fanno di tutto per salvare i propri privilegi ed il proprio potere residuo.
L’Egitto vive un problema fondamentale a livello della sicurezza interna. La forza coercitiva dello Stato si basa attualmente su un corpo di polizia che è stato duramente colpito dalla rivoluzione e dall’incriminazione di gran parte dei suoi vertici, ed appare attualmente paralizzato, e su un esercito ed una polizia militare che intervengono a singhiozzo, anche perché l’ordine pubblico non dovrebbe rientrare nella loro giurisdizione.
Habib el-Adly, l’odiato ministro dell’interno del vecchio regime, dai cui ordini la polizia di Stato dipendeva direttamente, è già stato condannato a 12 anni per corruzione, ma è incriminato anche per l’uccisione dei dimostranti durante le manifestazioni rivoluzionarie iniziate il 25 gennaio – un’accusa per cui rischia potenzialmente la pena di morte.
Insieme a lui sono stati incriminati burocrati e uomini d’affari del vecchio regime, comprese figure politiche di primo piano come l’ex primo ministro, l’ex ministro delle finanze, e diversi esponenti del Partito Nazionale Democratico (NDP), oltre ovviamente allo stesso Hosni Mubarak, alla moglie Suzanne, ed ai figli Alaa e Gamal.
Con loro sono finiti sotto processo anche diversi funzionari di alto rango delle forze di polizia, molti dei quali hanno tuttavia mantenuto il loro incarico. Costoro sotto il passato regime gestivano una rete di agenti infiltrati che operavano in ogni ambito della società, così come bande di teppisti e criminali che il regime aveva già messo all’opera il 2 febbraio, nella cosiddetta “battaglia del cammello”, quando essi avevano scatenato la loro violenza contro i manifestanti a Piazza Tahrir.
Questa rete di potere e di corruzione all’interno delle forze di polizia non è ancora stata smantellata dall’attuale ministro dell’interno, Mansour Issawi, da più parti considerato come onesto ma poco competente, e contribuisce a far sì che tali forze non svolgano il proprio dovere di mantenere l’ordine pubblico.
Al contrario, gli esponenti di questa rete di potere affiliata al vecchio regime sono fra i primi responsabili – secondo molti osservatori egiziani – dei tentativi di destabilizzazione della sicurezza interna del paese.
Le forze della controrivoluzione
L’insieme di burocrati, magnati della finanza, esponenti dell’NDP, funzionari corrotti degli apparati di sicurezza – ed i sistemi clientelari ad essi affiliati – che costituivano la spina dorsale del vecchio regime, rappresentano a giudizio di molti commentatori egiziani il nocciolo della “controrivoluzione”.
In generale la rivoluzione egiziana rappresenta una sfida senza precedenti ad un sistema di potere che aveva dominato il paese per oltre mezzo secolo, e che a sua volta faceva parte di una più ampia rete di potentati politici, economici e finanziari interconnessi che hanno costituito la struttura portante dell’ordine regionale arabo da decenni a questa parte.
L’incriminazione di esponenti di così alto livello del passato regime, ed in particolare la possibilità che perfino l’ex presidente Hosni Mubarak venga processato e condannato, viene vista con preoccupazione da molti regimi arabi, e soprattutto dai paesi del Golfo.
Mubarak, e molti magnati dell’economia e della finanza legati al vecchio regime egiziano, erano amici personali e partner d’affari della famiglia saudita, così come delle famiglie regnanti negli Emirati Arabi Uniti e nel Kuwait. Questi tre Stati sono fra i maggiori investitori arabi in Egitto.
Alcuni sostengono che le famiglie regnanti di questi paesi temano che, qualora Mubarak venisse processato, possano venire alla luce accordi e rapporti di affari in grado di metterle in grosso imbarazzo.
Ma, al di là di ciò, vi è il fatto che l’eventuale condanna di Mubarak avrebbe un valore simbolico la cui portata andrebbe ben oltre i confini dell’Egitto. Dato il ruolo centrale che questo paese ha sempre avuto da un punto di vista politico e culturale all’interno del mondo arabo, molti autocrati arabi temono che ciò che sta accadendo in Egitto possa avere pesanti ripercussioni anche nei loro paesi.
E’ per questa ragione che – secondo quanto hanno sostenuto anche membri del Supremo Consiglio delle Forze Armate, attualmente al potere in Egitto – alcuni paesi del Golfo avrebbero offerto miliardi di dollari sotto forma di assistenza economica all’Egitto in cambio della concessione dell’immunità a Mubarak.
L’insieme delle forze affiliate al vecchio regime e degli interessi regionali a cui abbiamo appena accennato rappresenta ciò che molti in Egitto hanno definito come le “forze della controrivoluzione”, le quali hanno interesse a bloccare l’attuale processo di democratizzazione soprattutto nella misura in cui esso comporta lo smantellamento del vecchio sistema di potere e di privilegi, e l’incriminazione dei suoi principali rappresentanti.
E’ opinione di molti analisti egiziani ed arabi che, per bloccare il processo di democratizzazione, queste forze abbiano deciso di colpire il tessuto sociale e politico egiziano nei suoi punti più deboli, da un lato fomentando le tensioni confessionali tra cristiani e musulmani, e dall’altro cercando di dividere il fronte dell’opposizione popolare al regime, facendo leva sulle differenze – e sulle diffidenze – esistenti tra il fronte politico islamico e quello laico e liberale.
Si tratta di una tattica tradizionale, a cui il regime egiziano ha fatto più volte ricorso durante la sua storia allo scopo di mantenere il potere nelle proprie mani, facendo in modo che i suoi oppositori si scontrassero fra loro invece di unire le proprie forze contro di esso.
Ciò da un lato ha spinto la minoranza copta a percepire se stessa come una comunità separata dal resto del tessuto sociale egiziano, e dall’altro ha favorito il cristallizzarsi di una sfera pubblica laica e liberale in contrapposizione ad una sfera religiosa islamica.
Tali fratture e contrapposizioni, che sono il risultato di decenni di politiche manipolatorie adottate dal regime sulla base del principio del “divide et impera”, attualmente esistono all’interno della società egiziana, e possono essere sanate solo attraverso un processo di democratizzazione e di riconciliazione inclusivo che anteponga lo Stato di diritto, il principio di cittadinanza e il senso di appartenenza nazionale a qualsiasi altra forma di affiliazione, religiosa o settaria che sia.
Si tratta di un processo che la rivoluzione egiziana ha parzialmente messo in moto, ma che è ancora allo stato embrionale, e che può dunque essere facilmente ostacolato dalle forze che sono ostili al cambiamento.
Il panorama politico islamico
Un primo episodio significativo in questa battaglia è stato il referendum del 19 marzo con il quale sono stati approvati alcuni emendamenti costituzionali frettolosamente formulati da una commissione nominata dal Supremo Consiglio delle Forze Armate.
Questo referendum, che ha aperto la strada alle elezioni parlamentari del prossimo settembre ed alle successive presidenziali di novembre, ha visto il cristallizzarsi di una coalizione di fatto tra Fratelli Musulmani, salafiti e spezzoni del vecchio partito di governo – l’NDP – a sostegno di emendamenti costituzionali a cui si è opposto invece il fronte dei laici, dei liberali e dei movimenti di sinistra, affiancato da molte organizzazioni cristiane.
Questo secondo fronte ha criticato gli emendamenti poiché favorivano le organizzazioni politiche esistenti (dunque i Fratelli Musulmani e il vecchio partito di governo), lasciavano enormi poteri nelle mani del presidente, e non limitavano in alcun modo le odiate leggi di emergenza.
In tale occasione i Fratelli Musulmani sono stati accusati di essersi schierati con le forze della conservazione per ragioni puramente utilitaristiche. La spaccatura tra fronte laico e fronte islamico è stata poi confermata dal fatto che le forze del primo fronte si sono riunite in un’unica organizzazione “ombrello” chiamata Congresso Egiziano per la Difesa della Rivoluzione, mentre i Fratelli Musulmani hanno per il momento aderito al cosiddetto “Dialogo Nazionale”, che include anche esponenti dell’esercito e membri del vecchio partito di governo.
I recenti incidenti a sfondo confessionale hanno invece avuto come protagonisti i gruppi salafiti, movimenti che presentano diversificazioni al loro interno, ma che condividono un’interpretazione rigida, materialista e conservatrice della legge islamica, e spesso si mostrano scarsamente tolleranti anche nei confronti degli altri musulmani. Recentemente, ad esempio, essi hanno attaccato anche i santuari sufi in Egitto.
Va tuttavia detto che questi movimenti, sebbene dopo la rivoluzione abbiano assunto atteggiamenti che ne hanno considerevolmente aumentato la visibilità, rimangono minoritari nel paese.
Inoltre, a giudizio di numerosi analisti egiziani, molti degli incidenti in cui questi gruppi sono rimasti coinvolti (come i recenti scontri nel quartiere di Imbaba) sarebbero stati pianificati ad arte da quelle forze della “controrivoluzione” a cui abbiamo accennato sopra, e scatenati da provocatori infiltrati, arruolati fra elementi delle forze dell’ordine fedeli al vecchio regime o fra le bande di teppisti ad esse affiliate.
Bisogna infine aggiungere che lo stesso panorama dell’“Islam politico” egiziano è molto più variegato di quanto si pensi. Ciò è vero in particolar modo per i Fratelli Musulmani, che rappresentano di gran lunga la principale forza islamica del paese.
Questo movimento è stato tradizionalmente caratterizzato da una base ideologica molto ampia (quando non addirittura “vaga”) e da una struttura decisionale centralizzata, per permetterle da un lato di raccogliere il più ampio consenso possibile e dall’altro di sopravvivere alle campagne repressive che il regime ha periodicamente scatenato nei suoi confronti.
In presenza dei nuovi spazi di libertà che si aprono di fronte al movimento, e della possibilità che esso acquisisca un ruolo politico attivo e propositivo, emergono tuttavia nuove sfide che potrebbero cambiare completamente il volto dell’organizzazione.
Ad esempio, recentemente i Fratelli Musulmani hanno presentato un proprio partito politico, il Partito della Libertà e della Giustizia, che concorrerà per la metà dei seggi in parlamento. Tuttavia da più parti è stato osservato che la base ideologica del movimento è talmente ampia che al suo interno potrebbero emergere numerosi partiti con programmi politici differenti.
La scelta di farsi rappresentare da un’unica formazione politica espone dunque l’organizzazione al rischio di defezioni e scissioni, soprattutto se si tiene conto che la rivoluzione egiziana ha ridato vigore a un serrato dibattito all’interno del movimento, fra riformisti e conservatori, e fra vecchie e nuove generazioni.
Un primo assaggio delle diatribe che potrebbero sorgere all’interno dell’organizzazione l’ha dato il riformista Abdel Moneim Aboul Fotouh, il quale ha annunciato la propria candidatura alla presidenza, dopo che i Fratelli Musulmani avevano deciso di non presentare un proprio candidato al fine di placare i timori diffusi nel paese riguardo ad una possibile presa del potere da parte degli islamici a seguito del rovesciamento del regime di Mubarak.
Con la sua decisione, Aboul Fotouh si è attirato aspre critiche da parte di esponenti di spicco dell’organizzazione, che hanno fra l’altro minacciato di sospenderlo dal movimento. D’altro canto, sebbene egli sia un moderato, la sua mossa ha suscitato le preoccupazioni di cristiani e laici.
In conclusione si può dunque dire che, se il processo democratico proseguirà in Egitto, lo stesso panorama politico delle correnti islamiche egiziane è destinato ad andare incontro a profonde trasformazioni, le quali faranno emergere le componenti più giovani e riformatrici a scapito della sclerotizzata leadership conservatrice.
E’ tuttavia necessario che il fronte islamico e quello laico e liberale individuino dei valori di fondo condivisi, al di là delle evidenti divergenze che li separano, e soprattutto riconoscano nel successo della rivoluzione democratica l’obiettivo comune in grado di unirli.
Altrimenti il rischio è che il perseguimento di obiettivi utilitaristici a breve termine (come la ricerca di successi elettorali immediati), assieme ai tentativi dei resti del vecchio regime di porre ancora una volta islamici contro laici, e di fomentare le tensioni fra cristiani e musulmani, porti al fallimento degli sforzi di democratizzazione dell’Egitto.
da Medarabnews