La sede centrale della Panafrican Youth Union si sposta a Khartoum

Faceva un certo effetto essere la sola delegazione occidentale in mezzo a tanti delegati africani. Per la verità, l’invito a partecipare come osservatori alla cerimonia inaugurale della nuova sede centrale della Unione Panafricana della Gioventù (PYU) c’era stato inoltrato dai fratelli della Federazione Nazionale della Gioventù Sudanese (NFSY). Invito che abbiamo volentieri accettato, visto che non capita tutti i giorni poter incontrare tutto in una volta così tante realtà politiche africane.

La PYU nacque nell’aprile del 1962 a Conakry, in Guinea, e ben presto trovò la sua sede centrale in Algeria, che da solo un mese si era liberata dall’occupazione francese. Erano gli anni in cui veniva a compimento il processo di decolonizzazione, che trovò appunto il culmine, in quegli anni, nella vittoria della lotta di liberazione algerina.

Da allora la sede centrale della PYU è infatti sempre restata ad Algeri. Fosse solo per questo l’evento di Khartoum ha un suo grande significato simbolico, visto che il Sudan ospiterà d’ora in avanti il Comitato esecutivo permanente dell’Unione Panafricana della Gioventù.

Non si deve pensare che la PYU sia una specie di fronte antimperialista. Affatto. Essa è una federazione composta in alcuni casi di gruppi legati ai locali governi africani, molti dei quali tutto sono meno che antimperialisti. In altri casi i gruppi giovanili hanno posizioni più radicali, come quelli del Sud Africa, dello Zimbabwe, della Namibia o del Sudan. In questi casi si incontrano un antimperialismo di tradizione marxista con quello dell’islam politico.

Grandi assenti alla cerimonia non solo angolani e mozambicani, ma pure algerini, libici, eritrei, paesi che sono stati in prima linea nel discorso panafricanista. Altri paesi, come l’Egitto, la Somalia o la Tunisia erano rappresentati da singoli delegati poco o per nulla rappresentativi di movimenti reali.

Al di là della cerimonia inaugurale dell’edificio che ospiterà d’ora in avanti l’Esecutivo della PYU, due sono stati i momenti topici dell’evento: la grande assemblea in cui è intervenuto il Presidente sudanese Omar Hassan Ahmed al-Bashir (il quale ha rivolto davanti a centinaia di presenti, vedi la foto, un vibrante discorso a favore dell’emancipazione dei popoli africani dal neocolonialismo e dall’imperialismo) e il forum tra tutte le delegazioni.

Qui sono venuti a galla i problemi, le differenze politiche, un dibattito che ha dato la misura di cosa stai bollendo in pentola nel continente africano. Da una parte chi, prendendo a motivo le rivolte arabe, perora un approccio che chiameremmo obamiano, con un forte accento sulla priorità dei diritti umani e civili. Dall’altra parte chi privilegia l’approccio sociale, per cui nessuna emancipazione è duratura senza sviluppo economico, senza uno sganciamento dal giogo imperialistico. Non a caso queste due componenti si sono divise sul giudizio da dare agli eventi in Libia e in Costa d’Avorio. I giovani sudafricani dell’ANC hanno capeggiato il fronte di chi avrebbe voluto una condanna, senza se e senza ma, dell’intervento NATO in Libia e di quello francese in Costa d’Avorio. La corrente che abbiamo definito obamiana si è ben guardata invece dall’esprimere una qualsivoglia condanna. In verità nessuno si è levato davvero in difesa di Gheddafi, considerato anche qui uno che predicava bene ma razzolava male, che dietro ai discorsi veementi in difesa della “causa africana” perseguiva in realtà gli interessi affaristici del suo clan.

Questo per dire che gli Stati Uniti e l’Unione europea, l’Occidente in genere, erano per molti versi il convitato di pietra dell’evento di cui stiamo parlando. La crescita che diversi paesi africani conoscono, resa possibile dalla crisi delle economie occidentali la quale ha liberato un consistentee flusso di investimenti verso certe zone dell’Africa, sta effettivamente consentendo, forse per la prima volta, la nascita di un capitalismo autoctono, ovvero di vere e proprie borghesie nazionali. E’ questa la spinta che si percepiva dietro a certi discorsi liberaleggianti, che davano per assodato che il capitolo dei tentativi africani a vario titolo socialisti si è oramai definitivamente chiuso e che la sola via per il progresso sociale e civile è l’adozione del modello capitalistico. Una nuova borghesia che non nasconde le sua ambizioni, e che per questo parla di “Africa renaissance”.

Non deve quindi stupire che la Cina risultava il grande assente. Vero è che gli investimenti cinesi in Africa vanno via via prendendo consistenza, che l’influenza economica cinese si avverte dappertutto, ma a ciò non corrisponde alcuna autentica influenza politica. Il vecchio colonialismo europeo non ha solo lasciato in Africa diverse bombe a scoppio ritardato (come è stato affermato da un esimio professore sudanese intendendo le catene della dipendenza necoloniale), ha tracciato un solco politico e culturale profondo, che si esprime nella difficoltà delle forze politiche africane a pensare un altro modello statale e civile che non sia quello occidentale. La Cina, qui, è considerata un partner economico importante, ma non, come si potrebbe pensare, in chiave strategica antioccidentale. Forse ci sbagliamo, ma le elite africane non guardano affatto alla Cina come esempio da seguire.

Neanche il Sudan è un’eccezione. Contrariamente alla vulgata occidentale che ci presenta un paese fondamentalista islamico dove impera la sharia, il Sudan è invece in pieno fermento e si vanno affacciando sulla scena diversi protagonisti e attori, sociali e politici. Le sanzioni e il ridicolo mandato di cattura del Tribunale penale internazionale contro al-Bashir, l’ingente debito con l’estero, non impediscono al Sudan di conoscere per la prima volta nella storia consistenti tassi di sviluppo economico e sociale. Chiuso, speriamo definitivamente, il tragico capitolo della guerra con i sudisti (appoggiati dall’imperialismo), resta aperta, è vero, la ferita del Darfur. L’impressione che si ricava è che questa vicenda potrebbe trovare una soluzione politica. Lo testimonia il cambio di approccio verso il regime sudanese, della Casa Bianca, che da almeno un anno e mezzo ha fatto capire che gli Stati uniti sono disposti a non tenere conto del mandato di cattura e anche a chiudere il capitolo delle sanzioni ove il governo abbandonasse il suo antiamericanismo e il suo appoggio alle resistenze come quella palestinese.

In Sudan come in tutta l’Africa la partita geopolitica e sociale è aperta e la sensazione è che il peso dell’Occidente sia tutt’altro che declinante. E’ in questo senso che in Africa hanno percepito l’intervento NATO in Libia, come l’ulteriore segnale, rivolto ai popoli e ai governi, che nessuna nuova Somalia sarà tollerata, né sarà data tregua ad alcun governo che si metta in testa di cacciare l’imperialismo o di danneggiare seriamente i suoi interessi strategici.