Un articolo scritto nell’agosto 1994, nel momento più caldo della guerra di Bosnia
L’arresto di Ratko Mladic riporta alla ribalta la cruenta guerra bosniaca (1992-95). Pubblichiamo quest’articolo che venne scritto nell’agosto 1994, quando il conflitto in Bosnia era al suo apice e l’espansione delle truppe serbe al comando del Generale Mladic toccava la massima ampiezza e dunque più isterica e forsennata si era fatta la campagna di satanizzazione della Serbia da parte dell’Occidente “democratico”. Questa campagna era evidentemente strumentale, precedette infatti di pochi mesi l’offensiva croata «Lampo e Tempesta» (maggio 1995), apertamente sostenuta da USA e Germania e che diede vita alla più massiccia pulizia etnica (anti-serba) di tutto il conflitto, e dopo la quale verrà la cosiddetta “pace di Dayton” (dicembre 1995), che si rivelerà per quello che era: un trucco imperialista per riprendere fiato e preparare l’assalto finale del 1999, questa volta diretto e che causò il definitivo squartamento della Jugoslavia.*
Oggi che gli intenti dell’imperialismo coalizzato rispetto ai Balcani sono manifesti e financo sfacciati è un po’ più facile sostenere la Iugoslavia. Allora chi aveva visto più lontano e osservato con più acutezza, era una piccola minoranza e veniva bollato con ogni sorta di epiteti. E’ in quel clima che si sentì l’urgenza di rimettere a punto la posizione generale dei comunisti rivoluzionari rispetto al problema della guerra, in aperta polemica con le posizioni dominanti nella “sinistra”, posizioni moralistico-cristiane preso a prestito dall’armamentario ideologico della borghesia.
La morale e la rivoluzione
I marxisti non decidono la propria posizione in una guerra in base a criteri morali, né in base al suo “tasso di criminalità” o a seconda dei genocidi che i belligeranti vengono compiendo. Se fosse così essi verrebbero a trovarsi nella posizione, che fu dei fabiani e dell’ultimo Gandhi, quella di condannare non solo la guerra ma l’uso stesso della lotta armata nella risoluzione dei conflitti tra classi, tra nazioni, tra Stati.
In tempi in cui non solo la grande stampa borghese ma tanta parte della sinistra definisce i serbi come “nazisti” per l’uso che fanno dell’artiglieria pesante, o “razzisti” perché occupano armi alla mano villaggi croati o musulmani, sarà utile ricordare che la politica sciovinistica verso il popolo tedesco da parte degli stalinisti non impedì ai marxisti rivoluzionari di sostenere lo sforzo bellico dell’URSS, così come il bombardamento di Berlino — che causò la morte di centinaia di migliaia di civili — o la distruzione della sua bella cattedrale non li indusse a condannare i bombardamenti compiuti dall’Armata Rossa come “indiscriminati”. Le incondivisibili azioni terroristiche dell’ETA, dell’IRA o delle “Tigri”, non ci impediscono di sostenere la loro lotta armata e il sacrosanto diritto degli irlandesi, dei baschi o dei tamil all’autodeterminazione. Né veniamo meno al dovere di difendere la lotta popolare palestinese perché alla sua testa ci sono adesso dei “fanatici integralisti” come Hamas che ricorrono all’uso del terrorismo contro dei cittadini israeliani.
Dal punto di vista etico “crimini” furono commessi anche dai giacobini in Vandea e dai bolscevichi in Russia. Nessun comunista si sognerebbe però di condannare politicamente l’uso del terrore da parte del Comitato di Salute Pubblica o dei Soviet.
Come affermava Trotsky: «Chi mira ad un fine non può rifiutare i mezzi. Così, se la rivoluzione richiede una dittatura, ne consegue che la dittatura deve essere garantita ad ogni costo. Chi ripudia il terrorismo ripudia la rivoluzione socialista e scava la tomba al socialismo. L’etica e la morale non sono per noi categorie supreme, astratte, intangibili a cui subordinare l’azione politica e l’uso degli strumenti rivoluzionari quali la violenza e il terrore. Sono moralmente ammissibili per noi tutti gli strumenti e le azioni necessari alla soppressione della borghesia e delle forze controrivoluzionarie».
La funzione delle guerre nell’epoca imperialista
La guerra di classe non è la sola forma di conflitto armato. Vi sono anche guerre tra popoli oppressi e popoli oppressori, guerre tra Stati nazionali e guerre tra popoli che non possiedono lo status di nazione e si battono per ottenerlo (spesso a spese degli altri). I comunisti non sostengono solo la guerra di classe del proletariato contro la borghesia, o quella di un popolo oppresso contro un popolo oppressore. Spesso debbono scegliere una parte della barricata anche nei casi di guerra tra frazioni della borghesia, tra nazioni e tra comunità.
Chi rifiutasse per principio questa impostazione, chi fosse disposto solo a sostenere gli sfruttati e gli oppressi, rivelerebbe una concezione antimarxista, cristiano-pietistica della politica.
Marx ed Engels, nonostante l’opposizione di Bebel e Liebknecht, sostennero Bismarck nella prima fase della guerra franco-prussiana del 1870-71. L’Internazionale Comunista di Lenin e Trotsky, malgrado le opposizioni estremistiche, sostenne la Turchia nella guerra contro la Grecia agli inizi degli anni ’20.
Marx ed Engels ritenevano che se avesse vinto, Bismarck avrebbe unificato la Germania (risultato considerato oggettivamente progressivo, anche se compiuto in modo bonapartistico). Il Komintern sostenne la Turchia di Kemal Pascià per tre ragioni politiche fondamentali: 1) perché considerava progressiva la nascita della nazione turca (nonostante la “pulizia etnica” antigreca compiuta dai nazionalisti turchi – un milione e mezzo di espulsi dalle coste turche); malgrado i progrom anti-armeni e anti-curdi, e la feroce repressione dei comunisti turchi; 2) perché la Grecia era una longa manus dell’imperialismo inglese, e una vittoria di quest’ultima avrebbe rappresentato de facto una sconfitta non solo per il nazionalismo turco, ma indirettamente per i popoli oppressi del Medio oriente; 3) infine perché una vittoria greca avrebbe minacciato la Russia sovietica. Importante notare che i comunisti sostennero la Turchia nella guerra malgrado fosse appoggiata dall’imperialismo tedesco.
Quali sono dunque i criteri politici che utilizziamo in questi casi “impuri” e controversi? Siamo nell’epoca dell’imperialismo, in un’epoca in cui alcune grandi potenze borghesi, armate fino ai denti, soggiogano i quattro quinti dei popoli del mondo. Non v’è conflitto che non abbia ripercussioni sull’ordine mondiale, soprattutto dopo il crollo dell’URSS e lo strapotere del Pentagono e della NATO. Noi comunisti dobbiamo sostenere, in un modo o in un altro, incondizionatamente o condizionatamente, non solo il proletariato, non solo i popoli oppressi, ma tutte quelle forze, quei movimenti, quelle nazioni, quelle comunità, quegli eserciti, che si trovino costretti a combattere contro avversari appoggiati, direttamente o indirettamente dalle potenze imperialistiche o che svolgano una funzione reazionaria. Li sosteniamo non a causa della loro linea politica, ma spesso malgrado essa. Li appoggiamo perché fronteggiano la reazione e l’imperialismo, anche quando essi agiscono camuffandosi, per interposta persona, e malgrado le aspirazioni reazionarie di chi si trova a resistervi. Non fummo forse dalla parte di Noriega quando i marines sbarcarono a Panama? Non difenderemmo Haiti se Clinton vi inviasse il suo esercito?
Questo agire indirettamente da parte delle potenze imperialistiche, cioè questo attaccare e strangolare indirettamente una classe, un popolo, una nazione, non è eccezionale, è anzi la norma (Angola, Mozambico, Etiopia, Nicaragua, El Salvador, Turchia, Afghanistan, Cambogia). La ex-Jugoslavia è solo l’ultimo, lampante esempio.
Noi sosteniamo dunque non solo la lotta di classe, la lotta di un popolo oppresso, ma ogni azione, ogni movimento di resistenza, ogni esercito la cui eventuale vittoria indebolisca, ponga in discussione, disarticoli, la reazione e la supremazia imperialistica, perché una loro vittoria, fiaccando il nostro nemico principale, aprendo un varco nell’ordine mondiale, crea un terreno più favorevole alla lotta di emancipazione degli sfruttati e dei popoli oppressi.
La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ma è innanzitutto una trasformazione qualitativa della lotta politica, poiché una guerra può decidere quale classe prenderà il potere, il tipo di regime che uscirà fuori, gli assetti geo-politici di una regione o di un’intera zona del globo. Il proletariato rivoluzionario non può restare indifferente a questi mutamenti, e non può dunque assumere un atteggiamento di ponziopilatesca neutralità.
In genere una posizione disfattista è legittima in tre casi generali: 1) in una guerra inter-imperialistica, perché alla classe operaia non interessa sostenere che il bottino coloniale vada a questo pescecane piuttosto che a quello; 2) in una guerra tra nazioni che agiscono come potenze sub-imperialistiche — che si azzannano per ripartirsi il bottino su scala regionale — come fu tra India e Pakistan; 3) in una guerra tra comunità o tra frazioni della borghesia in cui tutte le parti in lotta siano egualmente reazionarie, quando nessuna di esse prospetti una soluzione democratica del problema nazionale, e/o quando nessuna di loro sia antimperialista (Ruanda).
È infine ovvio che in entrambi questi ultimi due casi siamo obbligati a fare una scelta di campo: quando una o più potenze imperialistiche intervengano a favore di una delle parti in lotta (vedi l’ultima fase del conflitto tra Iraq e Iran).
Davanti a guerre che sollevano il problema dell’autodeterminazione dei popoli possiamo schematicamente affermare:
1) La lotta di un popolo per l’autodeterminazione, fino alla secessione, è pienamente sostenibile dal movimento operaio a condizione che sia democratica, che non sia annessionistica, che cioè riconosca alle sue minoranze lo stesso diritto all’autodeterminazione. Il nazionalismo croato, ad esempio, è apertamente annessionistico, come lo sono quello turco o georgiano — e quasi tutti i nazionalismi dei popoli imperialisti.
2) La lotta armata di un popolo per l’autodeterminazione è sostenibile dal movimento operaio a patto che non sia oggettivamente reazionaria. Ci sono almeno tre casi generali in cui le lotte di “liberazione” di certe minoranze nazionali sono funzionali all’imperialismo o sono strumenti diretti della reazione: (A) quando ostacolano la lotta del proletariato rivoluzionario; (B) quando combattono contro dei regimi democratico-rivoluzionari (per fare degli esempi recenti: i somali dell’Ogaden in Etiopia ai tempi di Menghistu, i Misquitos in Nicaragua dopo la rivoluzione sandinista); (C) quando si pongono in modo antagonista verso un popolo che si trova a svolgere una funzione obiettivamente democratica e antimperialistica.
3) La lotta per l’autodeterminazione è sostenibile, anche nell’ambito di uno “stato operaio”, se e solo se, questa non funge da battistrada per la restaurazione capitalista, se quindi è guidata dal proletariato rivoluzionario. Questo non è stato e non è il caso dei paesi baltici in URSS, del Tibet in Cina, delle “nazioni” che hanno voluto lo smembramento della Jugoslavia.
I Balcani, la Jugoslavia e la questione dell’autodeterminazione
La posizione tradizionale dei comunisti rivoluzionari sul diritto all’autodeterminazione dei popoli balcanici era che questo non si potesse realizzare per alcuno nella separazione (dividendo la zona in piccoli staterelli feudal-capitalisti) ma con l’unione (nell’ambito di una Federazione Socialista dei popoli balcanici).
Dopo il secondo conflitto mondiale, le potenze vincitrici, compresa l’URSS staliniana, ritenendo che una qualsiasi Unione Balcanica avrebbe rappresentato una minaccia ai loro interessi geo-strategici, stabilirono a Yalta una nuova arbitraria divisione basata sulle “sfere d’influenza” che implicava il soggiogamento dei popoli Balcanici.
La Jugoslavia, ricostruita sull’onda della straordinaria vittoria sui nazisti e i loro alleati ustascia e cetnici da parte dell’esercito partigiano guidato da Tito, rappresentava sin dall’inizio una minaccia, non solo per le potenze imperialiste ma anche per gli interessi del regime di Mosca. Stalin osteggiò sin dall’inizio il gruppo dirigente titoista, respingendo le sue aspirazioni federative e antimperialiste, pretendendo che i comunisti jugoslavi si piegassero agli accordi con Churchill, in base ai quali, oltretutto, a Belgrado doveva ritornare al potere la vecchia e corrotta monarchia serbo-croata.
La Lega dei Comunisti della Jugoslavia rigettò le pressioni di Stalin, conquistò il potere e avviò una serie di trasformazioni in senso socialista dell’economia e della società.
La Federazione “socialista” jugoslava rappresentò dunque un evento storicamente progressivo e la sua costituzione andava difesa contro gli attacchi di Stalin e dei suoi agenti nella zona. Per quanto nella Jugoslavia titoista le diverse nazionalità godessero di diritti senza pari negli altri paesi, la soluzione definitiva dei complicati problemi nazionali lasciati in eredità dalla storia (vale a dire l’integrale fusione dei diversi popoli), non poteva essere raggiunta. Ciò per due ragioni fondamentali: perché tutto il contesto internazionale e le diverse pressioni esterne tendevano ad alimentare non a risolvere i fattori di crisi interna e i vecchi attriti nazionalistici. In secondo luogo perché la rivoluzione sociale avviata in Jugoslavia, chiusa nelle sue frontiere e minacciata dalla stessa URSS staliniana, conobbe presto una degenerazione. La spinta delle masse lavoratrici rifluì, il nuovo regime sociale sorto dalla resistenza e dalla rivoluzione si burocratizzò, una nuova casta pseudo-socialista di dirigenti politici e amministrativi concentrò nelle sue mani tutto il potere politico conquistando grandi privilegi sociali. La burocrazia titoista, socialmente privilegiata e sempre più staccata dalle masse proletarie, diventò presto un freno alla transizione socialista, e quindi non poté sviluppare le basi sociali, economiche e culturali, che avrebbero permesso di spegnere i focolai di tensione tra i diversi gruppi sociali e le diverse nazionalità. Le tensioni con Stalin e i suoi agenti di Tirana accentuarono la politica repressiva verso la minoranza albanese del Kosovo.
Solo se la rivoluzione mantiene il suo carattere permanente, se il potere è effettivamente democratico-proletario e con lo sviluppo poderoso delle forze produttive e della ricchezza, può sorgere e consolidarsi una comunità socialista che amalgami i diversi popoli e dunque sopprima definitivamente gli arcaici conflitti nazionali.
Post scriptum: sul nazionalismo in generale e su quello serbo in particolare
Pur condannando il nazionalismo in quanto partigiani dell’unità di classe del proletariato mondiale, i comunisti non hanno mai ritenuto che i nazionalismi fossero tutti ugualmente reazionari. Al contrario. Il carattere del nazionalismo non può esser stabilito a priori, astrattamente. Esso va analizzato invece scientificamente, in quanto il suo carattere è relativo e dipende da una serie di fattori concreti: storici, economici, politici, culturali.
Senza dover qui riabilitare la tesi di Marx sui “piccoli e grandi popoli”, è sufficiente ricordare che i rivoluzionari dell’ottocento, Marx compreso, sostenendo il popolo polacco, davano un giudizio di quel nazionalismo come progressivo, in quanto si trovava in conflitto con la roccaforte della reazione europea, la Russia zarista, e solo per questo era oggettivamente l’avanguardia della rivoluzione democratica europea. Assunto questo parametro politico concreto, non solo veniva contestualmente condannato il nazionalismo russo, ma pure quello panslavo, che Marx considerava uno strumento della politica estera russa.
Lenin, da parte sua, ingaggiò una lotta furibonda, contro le posizioni della Luxemburg, di Bukarin e di Piatakov, che respingevano lo slogan dell’autodecisione dei popoli, in quanto ritenevano che ogni nazionalismo fosse diventato, nell’epoca dell’imperialismo, compiutamente reazionario.
Le posizioni estremistiche astrattamente anti-nazionaliste vennero respinte dal Komintern, che divenne il campione della lotta di liberazione dei popoli coloniali: Turchia, Persia, Cina, ecc. Un conto era il nazionalismo di un popolo oppresso, un altro conto quello di un popolo oppressore. Il primo andava sostenuto, il secondo combattuto.
Se adottiamo il metodo marxista, nemmeno oggi possiamo liquidare tutti i nazionalismi come reazionari. Dopo il secondo conflitto mondiale la storia è stata segnata e viene segnata dalla battaglia ingaggiata da certi popoli, da certe nazioni, non solo contro l’imperialismo ma pure contro le sue agenzie locali. Ripetiamolo ancora una volta: la pietra angolare per giudicare il carattere di un movimento nazionale di un dato popolo è se esso entri in conflitto con il sistema imperialista (concretamente con le borghesie occidentali e le sue filiali regionali) o se esso sia uno strumento della politica delle potenze imperialistiche. Gioca un ruolo progressivo quel popolo, quella nazione, quel movimento nazionalista, che combatte, non a chiacchiere ma coi fatti, l’imperialismo. Se questo è il criterio primario, diventa secondario chi sia alla testa del movimento nazionale, così Trotsky, in polemica coi democratici riformisti, affermò che avremmo dovuto sostenere, in caso di guerra, “il Brasile fascista contro l’Inghilterra democratica”.
L’estrema sinistra occidentale, quella almeno che ha avuto il pudore di non appoggiare sloveni, croati e musulmano-bosniaci, ha assunto una posizione disfattista, anteponendo al criterio marxista su esposto, quello per cui, tutti i nazionalismi sono orribili, in quanto le direzioni di quei movimenti sono organicamente reazionarie. Organicamente a cosa? Rispetto al proletariato rivoluzionario i cetnici non sono migliori degli ustascia. Ma nemmeno Ciang Khai Shek lo era rispetto ai giapponesi, ciononostante i comunisti dovevano allearsi militarmente con lui per schiacciare l’esercito nipponico e le sue svariate agenzie cinesi locali.
La rivoluzione proletaria non risparmierà i cetnici serbi, come quella cinese non risparmiò il Kuomintang. Tuttavia, nonostante il loro carattere controrivoluzionario, dal momento che combattono le truppe imperialiste e i loro alleati locali, debbono essere appoggiati perché svolgono una funzione antimperialista. Cesseremo di sostenerli quando e se diventeranno anch’essi puro strumento di una o più potenze imperialistiche. Il che non è affatto escluso.
Ciò che infine non può esser avallato è il tentativo di porre un segno di equivalenza tra il nazionalismo serbo in generale e il cetnicismo in particolare. La rinascita del nazionalismo serbo è molto più contraddittoria di quanto si pensi. Dopo il 1989 la rinascita nazionale serba, di cui il cosiddetto Partito Socialista di Milosevic si è fatto interprete, era anche resistenza alla restaurazione capitalista, alla svendita della Jugoslavia alle potenze imperialistiche, Germania in primo luogo.
Che poi parallelamente il nazionalismo serbo sia sciovinista rispetto alla minoranza albanese del Kosovo, ciò non contraddice il nostro discorso. Si tratta di stabilire quale sia il fattore primario e quello secondario. Come in altre occasioni, siamo alle prese con un movimento nazionalista che può essere allo stesso tempo progressivo perché antimperialista, e reazionario perché sciovinista rispetto ad un’altra minoranza interna. Questo era il caso del nazionalismo turco (progressivo perché antimperialista, reazionario perché anticomunista, anti-armeno e anti-curdo), o può essere il caso del nazionalismo del popolo dell’Ossezia (Caucaso del Nord), che mentre si batte per il giusto diritto a separare l’Ossezia del Sud dalle grinfie del nazionalismo georgiano, soffoca nel sangue la lotta della minoranza del popolo inguscio a cui non viene riconosciuto il diritto all’autodeterminazione nell’Ossezia del Nord.
L’analisi marxista è sempre un’analisi concreta di una situazione concreta.
* Questo articolo venne pubblicato nel N.50 del mensile di VOCE OPERAIA (settembre 1994).