Dalla scintilla alla svolta

Giovedì 27 gennaio (pochi giorni prima, il 14 gennaio, Ben Alì fu costretto a fuggire dalla Tunisia), nella bellissima capitale Sanaa, decine di migliaia di persone — furibonde alla notizia che dopo 33 anni di regime il figlio del Presidente Saleh, tra l’altro capo della famigerata Guardia repubblicana, sarebbe succeduto, in perfetto stile dinastico, al padre — partecipavano ad una manifestazione che sarà “la scintilla destinata ad incendiare la prateria” yemenita. Dal palco Abdulmalik al-Qassus, parlamentare del partito islamista d’opposizione al-Islah (Riforma) affermò: «Siamo qui riuniti per chiedere la partenza del Presidente Saleh e il suo corrotto governo». (1)

Era l’avvio di quella che sarà una vera e propria crisi rivoluzionaria, una crisi che mentre scriviamo sembra giunta ad una svolta decisiva. Ali Abdullah Saleh, il Presidente yemenita al potere da ben 33 anni, (2) è dovuto fuggire, cercando riparo in Arabia Saudita, il suo principale protettore assieme agli USA. Ma non si è trattato di una fuga voluta: difeso dai suoi pretoriani Saleh aveva promesso che avrebbe combattuto fino alla fine. Egli è stato ferito a causa di un attacco armato portato venerdì scorso, 3 giugno, contro il palazzo presidenziale in cui era asserragliato. Le opposizioni, costrette dalla protervia di Saleh a passare nelle ultime settimane alla lotta armata, hanno così ottenuto una spettacolare vittoria.

Appena diffusasi la notizia decine di migliaia di cittadini sono scesi per la strade della bellissima Sanaa, a cominciare dall’università, epicentro dei tumulti degli ultimi quattro mesi, inneggiando alla libertà e alla caduta del tiranno. Tuttavia è presto per cantare vittoria. I seguaci di Saleh detengono ancora posizioni decisive e godono, come segnalato, dell’appoggio deciso degli Stati Uniti, dell’Arabia Saudita e delle altre petromonarchie del Golfo. Ed infatti i poteri di Saleh sono passati al vice-presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi, tra cui quello di capo supremo delle forze armate —forze che hanno conosciuto notevoli defezioni, ma il cui nerbo ancora resiste, in sodalizio con i macellai della Guardia repubblicana, ovvero dei fedelissimi del dittatore. Malgrado la fuga di Saleh, le ultime notizie ci dicono che le forze lealiste hanno riconquistato alcune zone della capitale e stanno cingendo d’assedio al-Hasaba, alla periferia della capitale, roccaforte della tribù guidata da Sadeq al-Ahmer (3)

Il rischio che la latente guerra civile diventi conclamata non è dunque ancora escluso.

I precedenti

Abbiamo detto che la mobilitazione popolare per cacciare Saleh e la sua cricca è iniziata a gennaio, sull’onda delle rivolte tunisina, algerina, egiziana. In realtà il paese, uno dei più poveri del mondo, conosce una crisi che viene da molto lontano, e che questo sito, malgrado la difficoltà a reperire notizie di prima mano che non fossero solo mera cronaca, ha segnalato. (4)

Nel settembre del 2009, segnalando i due focolai di resistenza alla dittatura filo-occidentale, scrivevamo:

«In queste contesto è possibile inquadrare le violente ribellioni al sud del paese di quest’estate, che sono l’ultima propaggine della fallita unificazione sud-nord del 1990. Il governo accusa gli insorti del sud di volere la secessione. Non è solo la volontà di secessione la causa prima, né della guerra civile del 1994 (repressa nel sangue con l’aiuto dei sauditi e dei wahabbiti), né delle più recenti sommosse della primavera estate nelle province di Aden e di Abyan. La loro vera causa è l’estrema povertà in cui versa la grande maggioranza della popolazione e la sensazione, ben fondata, che le poche ricchezze del paese non affluiscano al sud (da cui proviene l’80% del petrolio che si estrae nell’intero paese) e non siano distribuite equamente, ma finiscano nelle tasche del corrotto notabilato politico e dei clan dominanti che sostengono il governo e il presidente. Rispetto alla guerra civile durata due mesi del 1994, le attuali rivolte hanno infatti un segno sociale più spiccato e un carattere di massa ben più ampio. Nel 1994 erano i vecchi leaders del vecchio partito socialista dell’ex Repubblica Popolare dello Yemen in testa alla rivolta (tra cui il più noto dei quali Ali Salem al-Beid). Le mobilitazioni recenti vedono mobilitate anche correnti islamiste radicali, quali quella capeggiata da Tarek al-Fadhli, che si fece le ossa combattendo i sovietici in Afghanistan e che secondo i soliti americani sarebbe in odore di qaedismo. E’ un fatto che, nonostante la dura repressione, la rivolta del sud si è consolidata e che si prepara a scatenare nuove offensive. Il tutto sotto la direzione di un fronte unito, il Movimento Pacifico di Mobilitazione del Sud. Tutti i commentatori arabi convengono infatti che la situazione nelle province meridionali è esplosiva e che nei prossimi mesi, ove il presidente non fosse in grado di proporre riforme sociali serie nonché una forte autonomia regionale, la rivolta divamperà nuovamente degenerando in  un secondo generale conflitto armato.
Di converso all’estremo nord, nella regione di Saada, ai confini con l’Arabia Saudita, le cose non vanno meglio. Sin dal 2004 questa regione è di fatto sotto il controllo dei clan principali della regione e delle loro milizie armate. Nell’agosto scorso il presidente yemenita Ali Abdallah Saleh ha avuto la bella idea di inviare in forze l’esercito per sedare la rivolta e schiacciare le milizie tribali, facenti capo a Hussein al-Houthi (da qui la definizione dei rivoltoso come “combattenti Houthi”). Queste stanno opponendo da settimane una resistenza accanita. Centinaia sono i morti, migliaia i feriti, centomila gli sfollati. Un disastro umanitario secondo gli organismi ONU che spesso, a causa dei combattimenti, non possono aiutare i civili inermi.
L’accusa con cui il governo si è deciso a schiacciare la rivolta è anche in questo caso che essa punta alla secessione e addirittura a restaurare l’imamato Zaydita. D’altra parte non c’è nessuno che non segnali come questa regione all’estremo nord sia la più povera di un paese già alla fame, e che, quali che siano le idee religiose e politiche dei leader, la vera molla che spinge tanti giovani a combattere nelle file della guerriglia sia appunto la protesta contro l’insopportabile povertà della regione. Occorre quindi distinguere le accuse del governo dalla realtà. E’ senz’altro vero che la grande maggioranza delle tribù del nord appartiene alla setta zaydista (una corrente dello shiismo, ma la meno lontana dai sunniti), ma dalle informazioni di cui si dispone non emerge che i capi della rivolta vogliano davvero fondare un imamato indipendente. Neanche le accuse secondo cui la resistenza sarebbe foraggiata e sostenuta dall’Iran sono provate, anche se il governo di Sanaa preme da giorni su questo tasto. Tuttavia quest’accusa la dice lunga sugli orientamenti e la natura del regime di Sanaa e su chi siano i suoi veri sponsor: come già detto, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti i quali, vista l’aria che tira e temendo che il paese precipiti nel caos, stanno puntellando in ogni modo il regime del presidente e fanno affluire ad esso ogni sorta di aiuti». (5)

Il pretesto di al-Qaeda

Quando pareva che il dittatore fosse riuscito l’anno scorso, per la gioia dei suoi padroni stranieri, a mettere a tacere questi due focolai, è proprio nella capitale Sanaa che sono iniziate le proteste. Proteste assolutamente di massa e pacifiche, alle quali Saleh ha risposto col pugno di ferro, sparando sui dimostranti. Da gennaio ad oggi sono stati uccisi dai pretoriani del regime centinaia di cittadini, migliaia i feriti, in gran parte giovani, vera e propria avanguardia della sollevazione popolare.

Ma le mobilitazioni non si sono fermate, malgrado la dura repressione esse sono anzi cresciute in ampiezza e radicalità. Diverse città, come Taiz e Aden, decine e decine di villaggi sono stati liberati dagli insorti i quali, organizzati in comitati popolari unitari e milizie, li amministrano.

Questo ha causato una vera e propria fratturazione all’interno dello stesso regime.  A partire dalla fine di marzo esponenti politici, ambasciatori e anche capi militari hanno iniziato a passare con gli insorti. Se Saleh ha resistito è solo grazie al sostegno sfrontato degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita, che hanno continuato a finanziare e ad armare il regime moribondo.

Com’è noto Obama e la Clinton hanno giustificato questo sostegno con il pretesto di contrastare il terrorismo, ovvero al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Il vasto fronte di opposizione a Saleh ha denunciato questo appoggio imperialistico, segnalando come Obama adottasse un doppio standard, “difesa attiva della democrazia” in Libia  e sostegno al dittatore nello Yemen. Queste medesime opposizioni hanno insistito che quello del qaedismo è una scusa per tenere al potere il tiranno e la sua cricca di corrotti. Un caso emblematico è stato quello della città costiera meridionale di Zinjibar (capitale del governatorato di Abyan). Il 30 maggio veniva diffusa la notizia che AQAP, dopo aver messo in fuga le forze lealiste, ha preso il controllo della città. Il cartello delle opposizioni, riunito nel Joint Meeting Parties (JMP) ha accusato i militari di aver deliberatamente lasciato che i guerriglieri salafiti prendessero il sopravvento per criminalizzare tutte le opposizioni e spingere la comunità internazionale a sostenere il moribondo Saleh. (6)
In effetti gli Stati Uniti stanno ancora difendendo il traballante regime. La Clinton, sulla falsa riga dell’approccio siriano, respinge l’idea di un rovesciamento del regime e ha invitato piuttosto al dialogo e al compromesso, allo scopo di assicurare una sostanziale continuità. Tuttavia il Ministro delle difesa americano Robert Gates è stato più chiaro riguardo alle vere priorità degli americani: «Siamo ovviamente preoccupati per l’instabilità dello Yemen. Noi consideriamo al-Qaeda della Penisola Araba, largamente presente in Yemen, la più pericolosa tra tutte le branche del qaedismo». (7) Non c’è dubbio che l’Islam radicale o salafita, è un attore di prima grandezza della crisi yemenita. In orgine questa corrente fu sostenuta dall’internazionale wahabita, che fa capo all’Arabia Saudita. Dopo il settembre 2001 le cose sono cambiate. La casa regnante saudita, in ossequio alla sua strategica alleanza con gli Stati Uniti, ha emarginato l’ala antiamericana e jihadista del wahabismo, e ha quindi richiamato agli ordini la filiale yemenita, spingendola a sostenere Saleh. Non tutti hanno obbedito, tra queste alcune tribù facenti capo al leader Tarek al-Fadhli, additato appunto come un sodale di al-Qaeda.

Il Fronte delle opposizioni

Nel caso che i lealisti non tentassero un colpo di stato e che la guerra civile fosse evitata,  nell’eventualità che Saleh lasciasse finalmente il potere, chi lo prenderà? Difficile dare una risposta univoca. Un candidato è l’eterogeneo fronte ampio delle opposizioni del JMP (Riunione Congiunta dei Partiti), le cui scaturigini risalgono al 2002.

Del JMP fa parte anzitutto Islah (partito della Riforma). Islah  più che un  partito, è un raggruppamento di correnti a vario titolo islamiste tra cui la Fratellanza musulmana yemenita guidata da Abdul Majid al-Zindani, un salafita che gli americani hanno iscritto come “terrorista”nella loro Lista nera. In verità la Fratellanza ha esitato fino alla fine nello schierarsi contro Saleh, essendo stata per anni un alleato del despota. Data la forza del tribalismo nel tessuto sociale yemenita, va da sé che Islah raggruppa diverse tribù, tra cui una delle più potenti, quella capeggiata dalla famiglia al-Ahmar la quale, al contrario della Fratellanza, sin dal 2009 è entrata in rotta di collisione col governo. Una famiglia di notabili molto potenti, quella al-Ahmar, che annovera la maggior parte dei militari, dei diplomatici e degli uomini d’affari che sono passati nelle ultime settimane con gli insorti.

Del JMP fa parte il Partito Socialista dello Yemen, erede della ex Repubblica popolare democratica dello Yemen. Il PSY ha infatti la sua roccaforte ad Aden e nel sud in generale. I socialisti fanno parte a loro volta del Movimento Sudista, che da anni si batte per la secessione del Sud e che non ha esitato a sostenere le mobilitazioni che da gennaio scuotono il paese. (8)

Anche la resistenza degli Houthi si è schierata con la rivolta popolare anti-Saleh, nella speranza di uno Yemen democratico non più ostaggio del wahabismo filo-saudita, che ha rappresentato uno dei principali pilastri del regime. (9)

Conclusioni

L’errore più frequente in cui cadono numerosi commentatori della sinistra occidentale nel giudicare gli eventi che dal gennaio scorso stanno scuotendo Maghreb e Medio oriente, è quello di scambiare i movimenti di protesta popolari, quasi ovunque spontanei, e le forze politiche che sfruttando la loro spinta si vorrebbero candidare al potere. Questi partiti quasi ovunque hanno raccolto le due istanze principali che hanno spinto i popoli a sfidare i tiranni: la sete di giustizia sociale e libertà politiche, due rivendicazioni che ben rappresentano le due anime sociali delle rivolte, il vasto proletariato e sotto-proletariato urbani e i contadini poveri da una parte, e il ceto medio e intere frazioni della borghesia dall’altra. E’ grave che intellettuali che si proclamano marxisti facciamo confusione tra i movimenti spontanei e chi cerca di rappresentarli politicamente. Tra i due aspetti non c’è sempre corrispondenza. Non meno grave è che non si colga il carattere di classe delle rivolte, o non vedere le loro fratturazioni interne, latenti o manifeste.

La dinamica degli avvenimenti yemeniti, di tutta evidenza, segue la falsariga di quelle che hanno scosso il Maghreb e oggi fanno tremare i regimi della Siria, del Baherein, ma pure di Giordania e Oman e, ultimo arrivato del Kuwait. Il fatto che alcuni dei partiti che sono schierati contro questa o quella satrapia o tirannia, siano tutt’altro che rivoluzionari, o che alcuni siano apertamente schierati con l’imperialismo (il caso emblematico è Bengasi) non può giustificare in alcuna maniera né l’indifferenza né tantomeno l’appoggio a questa o quella dittatura. Non è un caso che dappertutto le pur deboli forze rivoluzionarie abbiamo preso parte sin dall’inizio alle sollevazioni popolari, Siria compresa, e che da dentro i movimenti spontanei e non contro di essi, combattano contro forze reazionarie, tra cui certe frazioni della Fratellanza musulmana.
Il rischio che nello Yemen il regime di Saleh sia rimpiazzato da un nuovo regime islamista filo-americano non è escluso. Questo rischio va contrastato? Certo che sì. Lo si può contrastare in due maniere: o lasciando al potere i tiranni, o sostenendo l’ala democratica-rivoluzionaria e antimperialista presente in tutti questo movimenti. Questa dovrebbe essere la via.

Note
(1) Bbc, News middle east, 27 gennaio 2011
(2) Saleh salì al potere nel 1978, quando ancora di Yemen ce n’erano due. La fusione tra Nord e Sud avverrà nel 1990. Nel 1994 alcuni ufficiali e politici di ispirazione socialista proclamarono la secessione della regione meridionale dello Yemen che assunse il nome di Repubblica Democratica dello Yemen con capitale Aden. Non riconosciuto internazionalmente, questo tentativo di secessione venne stroncato in due settimane di combattimenti dalle forze governative.
(3) Yemen post, 3 giugno 2011
(4) Articoli recenti sulla situazione nello Yemen da noi pubblicati:
Un paese allo sfascio e i due fronti di guerra – 17 Settembre 2009
Le ragioni della guerriglia zaydita e l’impatto regionale del conflitto nello Yemen – 17 Novembre 2009
Yemen: gli USA intervengono nel conflitto – 16 Dicembre 2009
Lo Yemen nel mirino – 04 Gennaio 2010
Yemen: Verso la secessione del Sud? – 2 marzo 2010
Emiri e monarchi fanno strage di civili, 19 marzo 2011
(6) Yemen Times,  30 maggio 2011
(7) CNN, 24 marzo
(8) Fanno parte del “Movimento sudista” almeno cinque gruppi principali, uniti nel Consiglio Supremo per la Rivoluzione Pacifica (CSRP). Ci sono gli islamisti, capeggiati da  Tareq al-Fadhli, c’è il vecchio Partito socialista guidato dall’ex presidente della Repubblica Popolare Ali Salem al-Baid, ma anche nasseriani e baathisti di varia tendenza. Non poteva mancare, dato il tessuto sociale tribale, il sostegno della maggioranza degli sceicchi e dei capi tribù.
(9) Al Jazeera.net, 28 febbraio 2011