Quale ritiro dall’Afghanistan?

Nello scontro nelle alte sfere del potere a stelle e strisce i militari fanno sentire la loro voce

Titoli da La Stampa di ieri: «Petraeus a Roma “In Afghanistan non è ancora finita”», ed ancora «Gates: i soldati americani non fuggiranno da Kabul». David Petraeus è il comandante in capo delle forze americane e Nato in Afghanistan, Robert Gates è il ministro della difesa, ed ha fatto queste affermazioni nel suo discorso di commiato al quartier generale dell’Alleanza atlantica a Bruxelles.

A fine mese, infatti, Gates lascerà il suo posto al direttore della Cia, Leon Panetta; mentre quest’ultimo lascerà la sua sedia calda nella sede centrale di Langley proprio a Petraeus. Un giro di poltrone, già previsto da tempo, che appare strettamente legato agli sviluppi della strategia della Casa Bianca nel teatro denominato proprio da Obama AfPak, cioè Afghanistan-Pakistan.

Come noto (vedi Un lontano 2014), il cosiddetto «processo di transizione in Afghanistan» dovrebbe concludersi tra tre anni e mezzo. Nel frattempo Obama, che ha portato il numero dei soldati americani impegnati nel paese centro-asiatico al suo massimo storico (circa 100mila), vorrebbe ora iniziare un parziale ritiro anche in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno.

Fin qui tutti d’accordo. Ma il disaccordo inizia quando dalle affermazioni di principio si passa ai numeri. Tutti ricorderanno come nel 2009 il presidente americano, mentre con una mano ritirava un premio Nobel per la pace grondante di sangue, con l’altra spediva al fronte afghano un rinforzo di 30mila soldati. Oggi, una parte del Partito Democratico chiede il rientro in patria di un numero equivalente di militari, ma il Pentagono si oppone con forza, appoggiato dai leader repubblicani del Congresso.

Formalmente la richiesta del Pentagono è quella di lasciare ai comandanti sul terreno la decisione su tempi e modi di un ritiro che si annuncia comunque parzialissimo e lentissimo. In pratica si tratta di uno stop, che va a confliggere con le esigenze propagandistiche della Casa Bianca. E’ solo un gioco delle parti, o siamo invece di fronte ad uno scontro vero all’interno dell’establishment americano?

Vedremo, ma uno scontro esiste. Confrontiamo le parole di Obama con quelle pronunciate da Petraeus durante la visita a Roma.
In una intervista di martedì scorso, Obama ha detto che in Afghanistan «abbiamo compiuto gran parte della nostra missione perché Osama bin Laden è morto, Al Qaeda è in ginocchio e la nazione stabile al punto che i taleban non possono tornare al potere».
Petraeus non ne sembra affatto convinto, come si evince da questa esaltazione dei militari impegnati sul terreno: «Centocinquantamila tra uomini e donne che ogni mattina indossano il giubbotto antiproiettile, mettono l’elmetto in kevlar e escono per il loro duro lavoro contro un nemico forte e insidioso».

Certo, il comandante in capo non può fare a meno di rivendicare i successi: «L’Afghanistan non è più il rifugio di Al Qaeda o di altri estremisti che vogliono colpire i nostri Paesi». Ma «ci saranno dure battaglie. Bisogna essere fermi e fedeli ai nostri principi, credendo nei soldati che servono in Afghanistan».

Il futuro appare dunque incerto, e non è chiaro neppure quale sarà l’effettiva risultante del giro di poltrone di cui abbiamo parlato all’inizio. Due cose sono però certe: in primo luogo la situazione sul terreno non è cambiata negli ultimi mesi, e dunque le affermazioni pessimistiche di Petraeus sono certamente fondate; in secondo luogo, il modello iracheno non potrà avere mai pieno successo in Afghanistan, dato che le forze della Resistenza non si sono fatte dividere come è invece avvenuto nel Paese mesopotamico.

La dimostrazione di questo insuccesso la ritroviamo nelle parole sia di Obama che di Petraeus, che non a caso convergono nell’esibire la spietata uccisione di Bin Laden come l’unico trofeo di una guerra che dura ormai da 10 anni. Un trofeo simbolicamente potente, ma concretamente insignificante, privo com’è di risvolti sostanziali negli sviluppi del conflitto afghano.

Bisognerà dunque attendere le prossime settimane per vedere quali saranno le vere mosse dell’amministrazione americana. L’ultima parola spetterà certamente alla Casa Bianca, ma intanto – per bocca di Gates e Petraeus – il Pentagono ha deciso di dire pesantemente la sua.